Dalla Basaglia alle R.E.M.S.:  l’evoluzione normativa e culturale del sistema di assistenza al paziente psichiatrico-forense

 

sommario:Introduzione. – 1. L’evoluzione normativa del sistema italiano di assistenza sino al 1978 – 2. La svolta umanizzante dell’esperienza di Gorizia. – 3. La Legge Basaglia e il sistema di assistenza al paziente psichiatrico-forense. – 4. Conclusioni

Introduzione

Presentata solo sei mesi prima in Parlamento da Bruno Orsini, la Legge 13 maggio 1978 n. 180, più conosciuta come Legge Basaglia in tema di “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori” ha rappresentato, sin da subito, più che un semplice intervento normativo una vera e propria rivoluzione culturale avendo avuto, tra l’altro, il merito di aver reso la psichiatria italiana famosa nel mondo[1]. Nei giorni concitati successivi all’omicidio di Aldo Moro, avvenuto il 9 maggio 1978, il Parlamento italiano, grazie all’accordo intercorso tra Amintore Fanfani, presidente del Senato, e Pietro Ingrao, presidente della Camera, ebbe la forza di accelerare l’approvazione della Legge n. 180, in modo da evitare la consultazione popolare promossa dai Radicali che, di fatto, avrebbe esposto il paese ad un vuoto normativo[2]. Il rapidissimo quanto inconsueto iter parlamentare, consentì all’Italia, a settantaquattro anni dalla temibile Legge n.  36/1904[3], di dotarsi di un innovativo sistema di assistenza ai pazienti con patologie di natura psichica; nel giro di pochi mesi dalla sua approvazione la novella normativa venne recepita dalla Legge 23 dicembre 1978 n. 833, istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale[4],  fissando quelli che sarebbero stati i punti imprescindibili dell’approccio sistematico al trattamento di patologie psichiche.

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L’evoluzione normativa del sistema italiano di assistenza sino al 1978.

Ai sensi della legge n. 36 del 1904 i malati con disturbi psichici erano considerati irrecuperabili e pericolosi socialmente, con la conseguenza del loro allontanamento dalla società, dalla famiglia e della reclusione all’interno dei manicomi[5]. Le radici culturali della legge n. 36, una norma più di ordine pubblico che sanitaria, si rinvenivano nell’evoluzione sociale ed economica iniziata sul finire del diciottesimo secolo laddove, per razionalizzare la produzione industriale, presupposto pratico della emergente società borghese, si procedette sistematicamente all’emarginazione dei soggetti socialmente improduttivi. Si trasformò “lo strano” del villaggio, prima compatito e tollerato, nel “matto”. Il suo mancato rispetto delle convenzioni sociali generava nella comunità, senza discrimine alcuno, un giudizio di pericolosità sociale e di scandalo[6].

Era quella l’epoca degli istituti di segregazione che, a seguito delle innovative idee illuministiche divulgate dalla Rivoluzione francese, cedettero il passo agli istituti manicomiali. A seguito dell’affermazione dei Diritti dell’uomo e del cittadino, medici illuminati come Philppe Pinel (Jonquières 1745 – Parigi 1826) iniziarono a considerare la follia alla stregua di una “malattia” da curare. L’istituzione manicomiale, che durante tutto il diciottesimo secolo si diffuse in Europa, rappresentò un notevole passo avanti rispetto agli istituti di segregazione del passato, in quanto fondata su obiettivi di cura e di ricerca medica, pur mantenendo, tuttavia, una contiguità latente con gli istituti del passato, in quanto, in termini pratici, la “cura” andava a sovrapporsi con l’obiettivo del controllo e quindi del contenimento dei malati.

Era quindi questo il substrato culturale che rifluì nella normativa del 1904, una legge in bilico tra l’assistenza e la sicurezza, tra la pietà e la paura, che continuava a stabilire il confine tra l’uomo che difronte alla società aveva il diritto di essere difeso e il malato che, in quanto tale, perdeva questo diritto essendo giudicato dalla società pericoloso per sé e per gli altri, oltre che di pubblico scandalo[7].

Un primo tentativo di riforma fu quello attuato nel 1968 dall’allora Ministro alla sanità Luigi Mariotti con la Legge n. 431 attraverso la quale, pur conservando l’impianto della sanzione giuridica previsto dalla Legge n. 36 del 1904, secondo il quale il soggetto pericoloso per sé e per gli altri veniva sottoposto a ricovero coatto disposto dalla magistratura[8], si eliminò l’iscrizione al casellario giudiziario, prevedendo non solo la possibilità del  ricovero volontario[9] presso l’ospedale psichiatrico e il mantenimento dei diritti civili, ma soprattutto l’istituzione dei primi centri di salute mentale sul territorio nazionale.

La svolta umanizzante dell’esperienza di Gorizia.

I quarantuno anni dalla scomparsa di Franco Basaglia (Venezia, 11 marzo 1924 – Venezia, 29 agosto 1980) e i cinquantatré dal dossier televisivo di Sergio Zavoli per la Rai dal titolo “I giardini d’Abele” del 1968, con cui si aprirono le porte dell’ospedale psichiatrico di Gorizia, ci permettono di analizzare con lucidità ed obiettività l’immane lavoro che portò, in un periodo di decisivi cambiamenti sociali, economici e legislativi, quale quello degli anni sessanta/settanta,  al superamento dell’istituzione manicomiale[10].

Appare dunque necessario, al fine di comprendere compiutamente la portata innovativa della riforma Basaglia,  partire  dalla critica che lo stesso Franco Basaglia mosse sia alla comunità terapeutica che alla psichiatria di settore chiedendo con forza l’abolizione dell’ospedale psichiatrico[11] visto come “nucleo centrale della sanzione che, storicamente, ha etichettato e discriminato il malato di mente”.[12] In una società in cui si diffondevano sempre con maggiore insistenza i “giudici della normalità[13], in cui ormai la biopolitica sviluppava tecniche di regolamentazione di tutti gli aspetti del vivere quotidiano,  l’ospedale psichiatrico, quale vera e propria società di esclusi,  divenne da un lato la fucina in cui si sperimentava sui malati di mente – vere e proprie cavie umane oggettivate e ridotte ad un numero – il potere normalizzante che da li a breve avrebbe investito l’intera società e dall’altro il “punto d’appoggio per la sorveglianza medica della popolazione esterna[14]. La svolta umanizzante dell’ospedale psichiatrico di Gorizia si mostrò al mondo in tutta la sua dirompente drammaticità proprio nel dossier televisivo di Sergio Zavoli del 1968, allorquando venne portata all’interno delle case degli italiani la cruda drammaticità di un luogo di sofferenza in cui iniziavano a sparire le disumane pratiche della contenzione forzosa. Per la prima volta Basaglia e Zavoli raccontarono, attraverso le telecamere, cosa realmente si celasse dietro i cancelli di un “manicomio”, come si viveva il dolore e la sofferenza “dentro” e come si fosse elaborato questo cambio di passo dalla considerazione di un paziente da esorcizzare, contenere e relegare a quella di una persona sofferente di cui prendersi cura. La malattia non venne più considerata una vergogna come la cura non doveva più rappresentare una colpa[15]. “I giardini di Abele” altro non erano che i giardini dei fratelli scomodi in cui si consumava l’ipocrisia con la quale ci si metteva a riparo da un caso di coscienza. Sono i nuovi lebbrosari, i nuovi bacini di scarico, quei luoghi in cui si va “per imparare a morire[16], le nuove isole di esclusione della società dei sani posizionati, il più delle volte, in fondo ai viali di periferia, così per tenere a riparo le coscienze dalla loro immagine. Fu questo il substrato che nel novembre del 1962 portò l’equipe psichiatrica diretta da Franco Basaglia ad aprire il primo reparto dell’ospedale, inaugurando anche in Italia la comunità terapeutica. La vita dell’ospedale venne regolata da assemblee di reparto e da assemblee generali. I malati attraverso una continua comunicazione con chi li curava riacquistarono un ruolo umano e sociale gestendo sé stessi e la loro esistenza. Basaglia soppresse la natura carceraria dell’istituzione iniziando a studiare la natura del pregiudizio, ritenendo più importante la persona malata che la malattia, avvicinandosi alla persona che soffre in un modo estremamente dialettico partendo dall’assunto di base che considera il malato espressione di una nostra contraddizione sia sociale che medica ma soprattutto, sulla semplice constatazione che, alla fine, “visto da vicino, nessuno è normale!

La Legge Basaglia e il sistema di assistenza al paziente psichiatrico-forense.

Come già anticipato, il punto di svolta del sistema di assistenza al paziente psichiatrico si ebbe solamente con la Legge n. 180 del 1978, la quale, già dal titolo (“Norme per gli accertamenti e i trattamenti sanitari volontari ed obbligatori”), lasciava intendere come il punto d’indagine si fosse spostato dalla malattia alla “risposta istituzionale” della ricerca della cura della malattia[17]: “l’oggetto non è più, come nelle vecchie normative, la determinazione dei confini della malattia e l’identificazione delle sue categorie, ma è il trattamento della malattia, ed è sulle forme e le ragioni di questo trattamento che interviene la legge[18].

La riforma attuata con la novella, mettendo al centro dell’indagine medico diagnostica “la malattia” e ponendo a “carico del medico il dovere di agire in senso terapeutico, facendosi carico della saluta psichica della persona, invece che della difesa della società[19], rimosse il concetto di pericolosità del malato per sé e gli altri disponendo, raccogliendo le indicazioni di Basaglia, il  trattamento sanitario basato sul diritto della persona alla cura e alla salute nonché il rispetto dei diritti umani. Vennero chiusi gli OP su tutto il territorio nazionale disponendo l’istituzione di strutture alternative al manicomio, la previsione dei Servizi psichiatrici territoriali come fulcro dell’assistenza psichiatrica, l’istituzione dei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (Spdc) all’interno degli ospedali generali per il trattamento delle acuzie, gli interventi terapeutici urgenti in caso di rifiuto di cure e mancanza di idonee condizioni per il trattamento extra-ospedaliero e il trattamento sanitario obbligatorio (TSO).

La conquista di civiltà, che costituì il senso più profondo della riforma Basaglia, era ed è nel concetto innovativo di centralità della persona[20]: si estende perentoriamente il principio costituzionale di cui all’art. 32 Cost.[21], riguardante la volontarietà del trattamento sanitario, anche ai malati di mente, per cui, salvo i casi previsti dal TSO,gli interventi di prevenzione, cura e riabilitazione relativi alle malattie mentali [saranno] attuati di norma dai servizi psichiatrici extraospedalieri”, dando così dignità ai malati psichici, contribuendo a riconoscerli come persone a tutti gli effetti[22].

Si passava quindi da un sistema di “reclusione” o di “custodia[23] ad uno in cui “si prende in carico” il “malato” psichico, mettendo in risalto tutti gli aspetti legati ad esso, siano essi di natura biologica che psicologica o sociale[24]; attraverso l’ascolto e l’accoglienza del paziente, il terapeuta pone le basi di quella collaborazione attiva prodromica all’avvio effettivo della riabilitazione psichiatrica[25].

Andò quindi all’Italia il primato di aver disposto per prima la chiusura dei manicomi civili riformando, in maniera decisamente radicale, l’approccio al metodo classico di cura delle patologie di natura psichica, facendo si che tale modello facesse scuola in Europa, essendo il suo tracciato, quello più rispettoso dei diritti umani. La Basaglia rappresentò lo slancio necessario al superamento del binomio cura-custodia aprendo la strada alla negazione dell’equivalenza malattia mentale-pericolosità sociale.

Tuttavia la riforma Basaglia non produsse effetto alcuno sugli Ospedali Psichiatrici Giudiziari che dal 1975, a seguito della riforma dell’ordinamento penitenziario, avevano sostituito i manicomi criminali. Quali strutture controllate dal Ministero di Grazia e Giustizia e non da quello della Sanità come i manicomi civili, atteso che la riforma Basaglia atteneva la “sanità” e non la “giustizia”, gli O.P.G. “sfuggirono” alla riforma restando ancorati ad un sistema psichiatrico/forense di impianto ottocentesco. Le resistenze maggiori all’applicazione della riforma Basaglia anche agli O.P.G. si ebbero proprio nel momento in cui si dovette applicare al “matto”, resosi “criminale”, una verifica psichiatrica della sua intrinseca pericolosità sociale.

Pur essendo pacifico come il concetto di pericolosità sociale fosse soggetto ad apprezzamenti meramente soggettivi, mancando un metodo scientifico idoneo a dimostrare in modo certo ed univoco che il soggetto, in futuro, non si renderà più autore di reati, non si è ancora riusciti a proporre, ad oggi, un modello alternativo.

Agli O.P.G. non vennero, però, più destinati, indistintamente, tutti gli autori di reato, ma solo quei soggetti ritenuti, a seguito di una perizia psichica nel corso del giudizio, incapaci di intendere e di volere[26] al momento della commissione del fatto e per tale motivo prosciolti applicando, tuttavia, una misura di sicurezza detentiva qualora sussistente il requisito della “pericolosità sociale[27].

L’Ospedale Psichiatrico Giudiziario ebbe, quindi, una duplice funzione: di custodia per la difesa sociale, di cura e trattamento per il reinserimento del soggetto nella società. Il sistema detentivo degli O.P.G. tuttavia nel corso degli anni tradì le finalità iniziali tant’è che nel 2008 il Comitato europeo per la prevenzione della tortura denunciò le condizioni in cui versava l’O.P.G. di Aversa, gettando luce su un intero sistema ormai in crisi, laddove le condizioni di detenzione erano diventate inumane con pazienti seminudi, legati per giorni a un letto di contenzione, abbandonati nei corridoi, con carenza di assistenza sanitaria.

Alla luce di questa fortissima denuncia si palesò, improcrastinabile, la necessità di voltare pagina. Tanto si realizzò con tre provvedimenti ad hoc: il trasferimento delle competenze di medicina penitenziaria dal Ministero di Grazia e Giustizia a quello della Sanità (2008) e successivamente, con l’introduzione delle R.E.M.S – Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza – (2012) e con la Legge n.  81 del 2014 la quale sancì, ponendo così un punto fermo alla problematica, come le misure di sicurezza detentive non potessero durare oltre il tempo stabilito per la pena detentiva prevista per il reato commesso ponendo, quindi fine alla triste pratica dell’”ergastolo bianco”.

Tuttavia, come già detto, anche dopo la novella del 2014, è ancora la “pericolosità sociale” a determinare il futuro del paziente psichiatrico-forense; questi assume lo status di “internato” in una R.E.M.S. quando, all’esito del processo, il magistrato abbia dichiarato l’alta probabilità della recidiva ritenendo qualsiasi altra misura non adeguata a far fronte alla sua pericolosità. Le R.E.M.S. non sono altro che strutture residenziali socio-sanitarie di piccole dimensioni con la finalità di curare e non di recludere o punire l’autore del reato affetto da disturbi mentali e ritenuto socialmente pericoloso alla luce dei criteri delineati dall’art. 133 c.p.[28].

Con l’introduzione delle R.E.M.S. vennero adottate nuove linee guida di approccio alla problematica[29] dando priorità alla cura e alla centralità del progetto terapeutico individualizzato (la cui assenza è stata espressamente ritenuta elemento su cui non può fondarsi un perdurante giudizio di pericolosità sociale), laddove appare più rispettoso della dignità umana “immaginare e costruire percorsi” che individuare “luoghi dove alloggiare le persone con problematiche”.

A tal fine, per ogni paziente internato, deve essere redatto, entro 45 giorni dal suo ingresso, un Progetto Terapeutico-Riabilitativo Personalizzato, sottoposto a controllo e revisione periodica; tale metodologia recepisce a pieno il principio espresso dalla Corte Costituzionale laddove le esigenze di tutela della collettività non potranno mai giustificare misure a danno del paziente[30]. A queste deve aggiungersi la territorialità delle medesime cure in base alla quale, la presa in carico dei servizi di salute mentale, deve essere effettuata presso il territorio di residenza o comunque di provenienza dell’interessato, onde evitare un eccessivo e inutile eradicamento del malato psichiatrico dal proprio territorio, con conseguenti enormi difficoltà nella ricollocazione del medesimo, una volta terminate le cure o comunque la fase patologica acuta.

In ultimo, viene affermato,  il principio, a mio avviso,  più significativo dell’intervento normativo, ossia quello della residualità e transitorietà della misura di sicurezza detentiva, dovendosi ritenere il ricovero nella R.E.M.S. uno strumento di extrema ratio, utilizzabile soltanto laddove le misure di sicurezza non detentive non siano assolutamente praticabili, prevedendo di definire tempi certi e impegni precisi per la dimissione delle persone internate per le quali l’autorità giudiziaria escluda la sussistenza della “pericolosità sociale”. La collaborazione tra autorità giudiziaria, avvocatura e dipartimenti di salute mentale, attraverso l’attuazione di protocolli di intesa porterebbe sicuramente anche alla risoluzione della problematica delle liste d’attesa[31] per l’ingresso nelle R.E.M.S.,  garantendo l’ingresso in tali strutture solo ed esclusivamente di pazienti a cui necessita un intervento contenitivo, superando il problema della detenzione in carcere, in palese violazione dell’art. 13 della Costituzione[32], di soggetti assolti per infermità mentale e destinati a misure di sicurezza detentive[33].

Conclusioni

Pur forti dell’esperienza maturata con la Legge Basaglia, emerge ancora oggi una evidente dicotomia tra i soggetti che rientrano nella riforma e che quindi saranno ospitati in una R.E.M.S., con un innegabile passo in avanti rispetto al passato e chi dovrà restare in carcere pur in presenza di disagi psichici anche decisamente evidenti; per queste persone il problema è di duplice natura: l’inidoneità del regime detentivo carcerario nella cura delle patologie/disagi da cui è affetto e l’ancora assoluta inadeguatezza agli standard europei del sistema carcerario italiano[34].

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Note

[1] Cfr. Daniela Colamedici, Andrea Masini, Gioia Roccioletti, La medicina della mente. Storia e metodo della psicoterapia di gruppo, ed. L’Asino d’oro, 2011, p. 314.

[2] Amplius Silvia Bencivelli, I 35 anni della Legge Basaglia: quando la politica sa affermare la propria dignità, 2013, su stradeonline.it.

[3] La Legge 14 febbraio 1904, n. 36 prevedeva dei limiti meno stringenti per l’ammissione dei malati di mente nei manicomi essendo sufficiente sia certificato medico sia un atto di notorietà, ma nella pratica quasi sempre si procedeva con la procedura urgente permessa dalla legge, per la quale era sufficiente il solo certificato medico.

[4] “…imprescindibile per l’attuazione del dettato costituzionale”, “…uno dei maggiori obiettivi di un paese civile: tutelare sempre i diritti della persona, la dove ci sono situazioni che questa tutela possono rendere difficile”, così rispettivamente Sandro Pertini, Presidente della Repubblica e Tina Anselmi, Ministro della sanità in ordine alla legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale, 1978

[5]Debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé  o  agli  altri  o riescano di pubblico scandalo e non siano e non possano  essere  convenientemente  custodite  e  curate  fuorché  nei manicomi.  Sono compresi sotto questa denominazione, agli effetti della presente legge, tutti quegli istituti, comunque denominati, nei quali vengono ricoverati alienati di qualunque genere. Può   essere   consentita   dal   tribunale, sulla richiesta del procuratore del Re, la cura in una casa privata, e in tal caso la persona che le riceve e il medico che le cura assumono tutti gli obblighi imposti dal regolamento. Il direttore di un manicomio può  sotto  la sua responsabilità autorizzare la cura di un alienato in una casa privata, ma deve darne immediatamente  notizia  al  procuratore  del  Re  e  all’autorità di  pubblica sicurezza”, art.1 L. 36/1904.

[6]Non può essere dimenticato che sino alla fine del 1700 il malato mentale con note di pericolosità è stato considerato piuttosto un individuo dannoso e irrecuperabile da rinchiudere in carcere che un ammalato da curare. Nell’800, invece, sotto l’influsso di una cultura positivistica che ha dato della malattia mentale una interpretazione in termini rigidamente biologici, con scarsa considerazione per i fattori sociologici, psicologici e culturali, gli ammalati di mente sono stati considerati come pazienti da esaminare e da trattare in appositi ambienti ospedalieri, idonei a consentire indagini e terapie biologiche”, relazione al disegno di Legge n. 2130/1968, Camera dei Deputati del 19 aprile 1968.

[7] Sergio Zavoli, “I giardini di Abele”, documentario RAI del 30 dicembre 1968.

[8]Detta legge, infatti, accanto a finalità di ordine terapeutico, dispone misure di sicurezza volte ad evitare «la pericolosità a sé e agli altri» dei malati di mente e il «pubblico scandalo». Essa si fonda su una particolare concezione dei malati di mente, considerati come «alienati», cioè come persone la cui mente è diversa, (cioè «aliena») rispetto a quella dei sani. Alla base di tale atteggiamento stanno una scarsa conoscenza della natura della malattia mentale e la sopravvivenza di pregiudizi e di paure irrazionali, retaggio di epoche passate, che hanno determinato sovente reazioni espulsive, largamente eccedenti le pur comprensibili necessità di una difesa sociale … La perdurante convinzione dell’inguaribilità e della pericolosità, ritenute presenti nella maggior parte di questo tipo di ammalati, largamente condivisa dalla pubblica opinione e dai legislatori dell’epoca, unita alla richiesta di appositi spazi di cura avanzata dalla scienza medica di ispirazione positivistica, hanno trovato risposta, da parte dei pubblici poteri, nell’istituzione degli ospedali psichiatrici, affidati per ragioni di finanziamento ad un ente territoriale quale la provincia. La Legge del 1904 rispecchia questa duplice esigenza: organizzare da un lato le apposite strutture ospedaliere invocate dalla cultura medica dell’epoca, e farne al tempo stesso il luogo di attuazione delle misure restrittive, basate sul giudizio di disvalore implicito nel concetto di pericolosità, di alienità e di scandalo pubblico, attribuite de facto e aprioristicamente malati di mente. La presenza di questa seconda finalità, la difesa della società dalla potenziale violenza dei devianti sociali, attraverso misure restrittive della libertà, spiega l’intervento dell’autorità giudiziaria e delle forze di polizia come modalità ordinaria dei ricoveri in ospedale psichiatrico”, relazione al disegno di Legge n. 2130/1968, Camera dei Deputati del 19 aprile 1968.

[9]L’art. 4 della legge 18 marzo 1968, n. 431, secondo cui è ammesso il ricovero volontario in ospedale psichiatrico del malato affetto da disturbi neuro-psichici, non contrasta con l’art. 13 Cost., che garantisce l’inviolabilità della libertà personale, e ne permette restrizioni in via definitiva soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria. L’ammissione volontaria del malato, autorizzata dal medico di guardia, senza intervento successivo dell’autorità giudiziaria, e la trasformazione in volontario di un ricovero originariamente coatto, sono consentite, in assenza degli elementi della pericolosità per sé o per altri o del pubblico scandalo, quando il malato presenti, sotto il profilo naturalistico, quel minimo discernimento che gli consenta di determinarsi volontariamente e di chiedere d’essere ricoverato. Discende con certezza dall’interpretazione logica e teleologica della norma che come è libera l’entrata in ospedale psichiatrico, così è altrettanto libera l’uscita, sicché l’ammissione volontaria, essendo consentita nei limiti in cui è accompagnata dalla persistenza di una valida volontà di rimanere in ospedale, non menoma la libertà personale del malato, tutelata dall’art. 13 Cost. La sopravvenienza, durante il ricovero volontario, di quegli elementi la cui sussistenza impone il ricovero coattivo ai sensi della legge 14 febbraio 1904 n. 36, esige la trasformazione del ricovero in coattivo, mentre la trasformazione di quest’ultimo in volontario può avvenire soltanto quando, venuti meno i presupposti della pericolosità o del pubblico scandalo, il malato possegga quel minimo di discernimento che gli consenta di manifestare il desiderio di rimanere ricoverato volontariamente”, Corte cost., 28/03/1973, n. 29 (pd. 6599), CED Cassazione.

[10] Sull’argomento Davide Orsini, Il sessantotto dei manicomi, l’inizio della svolta nell’assistenza psichiatrica in Italia, in Volume 18 del 15 maggio 2019, nuovarassegnastudipsichiatrici.it.

[11]Qualsiasi forma di sopravvivenza dell’ospedale psichiatrico, anche se apparentemente periferica e quantitativamente ridotta , definisce, a partire dal suo ruolo, la logica del funzionamento dei circuiti di cui fa parte; viceversa la sua distruzione rappresenta la rottura del cuore stesso del meccanismo con cui, nel mondo della salute, si fabbrica la diversità come “inferiorità” e si preformano le rispeso per invalidarne l’esistenza … in questo senso il superamento del manicomio non rappresenta l’ammodernamento di una forma antica di gestione, né l’esportazione sul territorio della medesima logica, ma la penetrazione sistemica di una profonda crisi in tutti gli apparati del controllo e della sanzione: è la rottura del complesso meccanismo di distribuzione dell’utenza nel suo dosaggio equilibrato di sanzione”, Franco Basaglia, Maria Grazia Giannichedda, gli operatori di Trieste, “Il circuito del controllo: dal Manicomio al decentramento psichiatrico”, pp. 843-844 e 850 in Mario Colucci, Pierangelo Di Vittorio, Franco Basaglia, pp.160 – 161.

[12] Mario Colucci, Pierangelo Di Vittorio, Franco Basaglia, cit., pag. 160.

[13] Michael Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, p. 336.

[14] Michael Foucault, Sorvegliare e punire, cit.  p. 231, in Mario Colucci, Pierangelo Di Vittorio, Franco Basaglia, cit.  p. 165.

[15] Sull’argomento Maria Antonietta Farina Coscioni e Alessandro Grispini, Basaglia trasformò i malati in persone e il mondo lo seguì, su Il Dubbio, 3 settembre 2020.

[16]Penso che la base della follia sia questa continua frustrazione dei rapporti, questo emarginare la persona ritenuta malata. Il giudizio sulla persona malata di solito viene da persone che non sanno assolutamente che cosa sia”, così Alda Merini, intervistata da Mino Damato nel corso della trasmissione televisiva Rai, Grand Tour, 1997.

[17] Cfr. Mario Colucci, Pierangelo Di Vittorio, Franco Basaglia, cit., pp. 292 e seg.

[18] Franco Basaglia, Maria Grazia Giannichedda “Legge e psichiatria. Per un’analisi delle normative in campo psichiatrico”, p. 894.

[19] Mario Colucci, Pierangelo Di Vittorio, Franco Basaglia, cit., pp. 294 e seg.

[20]Ma anche da un punto di vista scientifico l’impostazione odierna è diversa rispetto a quella d’ispirazione positivistica di inizio secolo. Le concezioni della psichiatrica dinamica e della psicoanalisi, l’accresciuta potenzialità terapeutica degli psicofarmaci e l’esito positivo di molte nuove metodiche di cura consentono oggi di capovolgere la prognosi di molte malattie mentali e, comunque, di ridurre drasticamente nel tempo e nell’entità le autentiche manifestazioni di pericolosità. Tutto ciò è servito a dimostrare che la malattia mentale è una malattia non diversa dalle altre, abbisognevole al pari delle comuni affezioni di misure preventive, di diagnosi precoci, di cure intensive in determinati e circoscritti periodi di tempo, e di cure estensive nel restante, prevalente periodo di trattamento terapeutico. Questi mutamenti scientifici, culturali e operativi, hanno messo in crisi l’adeguatezza funzionale dell’istituzione psichiatrica rispetto ai nuovi compiti che la scienza medica si è data; alla loro luce divengono inaccettabili la costrizione emarginante che il ricovero in istituto psichiatrico comporta e l’influenza nociva che la connessa desocializzazione esercita sui ricoverati. In questo mutato contesto di riferimenti legislativi e politici, scientifici e sociali, va riaffrontato il problema dei trattamenti sanitari obbligatori”, relazione al disegno di Legge n. 2130/1968, Camera dei Deputati del 19 aprile 1968.

[21]La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”, art. 32 Cost.

[22]Gli accertamenti e i trattamenti sanitari sono volontari. Nei casi di cui alla presente legge e in quelli espressamente previsti da leggi dello Stato possono essere disposti dall’autorità sanitaria accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici garantiti dalla Costituzione, compreso per quanto possibile il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura. Gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori a carico dello Stato e di enti o istituzioni pubbliche sono attuati dai presidi sanitari pubblici territoriali e, ove necessiti la degenza, nelle strutture ospedaliere pubbliche o convenzionate. Nel corso del trattamento sanitario obbligatorio chi vi è sottoposto ha diritto di comunicare con chi ritenga opportuno. Gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori di cui ai precedenti commi devono essere accompagnati da iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di chi vi è obbligato. Gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori sono disposti con provvedimento del sindaco, nella sua qualità di autorità sanitaria locale, su proposta motivata di un medico”, art.1, Legge n. 180/78.

[23] L’articolo 3 della Legge n. 36 del 1904 prevedeva che, perché il malato fosse dimesso, l’ultima parola spettasse al direttore, ma gli interessati potevano presentare reclamo e chiedere al giudice una perizia. L’articolo 4, invece, prevedeva che il direttore avesse “la piena autorità” all’interno del manicomio. Inoltre la legge non garantiva ai degenti la possibilità di comunicare con altre persone all’interno della struttura, mentre la facoltà di comunicare con persone esterne poteva essere concessa solo ed esclusivamente dal direttore a sua totale discrezione.

[24]Ben diversa è, invece, l’impostazione data a questi problemi dalla Costituzione. L’articolo 32 statuisce che la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività. Aggiunge, poi, che nessuno può essere obbligato a un dato trattamento sanitario se non per disposizione di legge e che la legge, da parte sua, non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana. L’interesse, in questa nuova impostazione costituzionale, è squisitamente sanitario. E la tutela della salute che viene assunta come compito diretto dello Stato e non solo la funzione di polizia sanitaria. Sono i diritti dei singoli cittadini che vengono tutelati con la riserva di legge per i trattamenti obbligatori e non solo l’interesse della collettività «contro» la pericolosità di singoli suoi componenti. È il rispetto della persona umana che assurge a termini di verifica e a limite insuperabile per la elaborazione legislativa e questo rispetto è dovuto in tutti i casi di trattamento sanitario obbligatorio, quindi anche nei confronti degli ammalati di mente, senza più discriminazione di sorta. La norma dell’articolo 32 integra e sviluppa, con riferimento alla materia dei trattamenti sanitari obbligatori, i principi fondamentali di libertà e di eguaglianza contenuti negli articoli 2 e 3 della Costituzione”, relazione al disegno di Legge n. 2130/1968, Camera dei Deputati del 19 aprile 1968.

[25]Succede dunque che il cosiddetto malato di mente non è una persona che soffre, una persona che si trova in una situazione di disagio ma è un “malato” di mente.  Questo è importante: deve mantenersi queste connotazione di malato. Tenendo questa connotazione di malato, l’individuo che soffre di disturbi mentali viene inserito nell’ambito positivistico della medicina, per cui viene omologato il comportamento a un corpo e viene quindi sancito, in maniera nuova, riciclata, il concetto di malattia. Il disturbo mentale viene quindi ulteriormente medicalizzato, i manicomi devono sparire e tutto deve rientrare nella vasta area della medicina”, Franco Basaglia, Conversazione: a proposito della nuova legge 180, p. 910.

[26] “… Tutto questo, però, non sembra possa legittimare la tesi secondo cui la legge n. 180 ha rotto l’automatismo, prima esistente, tra la malattia mentale e la non imputabilità, introducendo, per tale via, una presunzione di capacità in capo all’infermo di mente. Sicuramente la legge n. 180 del 1978 ha parificato la malattia mentale, nella diagnosi come nel trattamento, alla malattia comune, e ha introdotto il principio secondo cui il paziente infermo di mente ha il diritto di decidere, in piena libertà, se sottoporsi o meno alle cure del caso e a quale medico affidarsi, e il suo consenso e la sua partecipazione vanno ricercati anche nel caso di sottoposizione a TSO. Ma essa non ha sovvertito la regola secondo cui l’accertamento dell’imputabilità va effettuato in egual misura nei confronti dell’agente sano di mente, come nei confronti di quello malato. Perché l’indagine volta ad accertare l’incapacità naturale prescinde, come si è già detto, sia dalle situazioni formali che dagli status patologici eventualmente esistenti in capo all’autore del danno, essendo tesa a verificare la capacità di discernimento dell’agente, ossia quel grado di maturità tale da permettergli di capire che l’evento causato è la conseguenza fisica del proprio comportamento e che tale evento sarà oggetto di una valutazione da parte degli altri consociati. E i riferimenti al “consenso” e alla “partecipazione” che il malato di mente è chiamato ad esprimere all’inizio e nel corso della terapia, sono indicativi della libertà di cui il sofferente psichico gode nel quadro di tutela della salute disegnato dal legislatore, ma non hanno nulla a che vedere con la capacità di intendere e di volere il fatto: la quale è richiesta dalla legge per fini diversi, e consiste nella possibilità di comprendere che il proprio comportamento è produttivo di eventi e fonte di conseguenze giuridiche”, Andrea Bellucci, Infermità di mente e responsabilità civile, su Danno e Resp., 1997, 6, 717.

[27]Non è convalidabile la Ordinanza del Sindaco che disponga un Trattamento Sanitario Obbligatorio a carico di soggetto sottoposto alla misura di sicurezza dell’ospedale psichiatrico giudiziario in quanto deve escludersi che sia possibile sancire una sovrapposizione tra la limitazione della libertà (eccezionale e temporanea connessa alla sola esigenza di cura) tipica del T.S.O. e la limitazione di libertà personale, strutturale e permanente configurata per le esigenze speciali preventive e di difesa sociale oltre che di cura tipiche della misura di sicurezza dell’OPG. Infatti, i due istituti richiamati si pongono l’un l’altra in rapporto di alternatività nella individuazione dei presupposti di limitazione della libertà personale che legittima il ricovero”, Tribunale Reggio Emilia Sent., 15/03/2012, su Ilcaso.it; “Le sentenze della Corte costituzionale, pure alla luce della interpretazione datane dalla Suprema Corte, sanciscono il principio della discrezionalità del giudice di scegliere, nell’ambito dei tipi previsti dalla legge penale, la misura di sicurezza che valuti più adeguata alle esigenze di cura dell’infermo mentale, anche alla luce delle reali possibilità di cura presso gli organismi disponibili. E reputa questo giudice che sia corollario di tale principio, di tutta immediatezza e logicità, la possibilità per il giudice di adottare nei confronti dell’infermo di mente, così come in sede definitiva, anche in sede di provvedimento provvisorio ai sensi dell’art. 312 c.p.p., su istanza del PM, una misura di sicurezza, con finalità di cura ed in funzione di prevenzione, diversa dal ricovero in OPG o in casa di cura. Sicché, sul piano delle applicazioni provvisorie, alla integrazione del sistema così operata dalle pronunce della Corte costituzionale consegue che i “casi previsti dalla legge”, nei quali a norma dell’art. 312 c.p.p. (che disciplina l’aspetto processualistico dell’applicazione in via provvisoria delle misure di sicurezza) è consentito di adottare una misura di sicurezza provvisoria, non sono più soltanto quelli elencati dall’art. 206 c.p. – in cui il giudice deve provvedere alla applicazione della misura dell’OPG e della casa di cura o delle altre ivi indicate -, bensì più in generale in tutti i casi in cui il giudice debba provvedere all’adozione, al fine di una adeguata cura, di una misura di sicurezza personale tra quelle previste dalla legge, prescelta in funzione di prevenzione dei pericoli connessi alle condizioni mentali dell’indagato o dell’imputato”, Tribunale Palermo Sent., 15/05/2009, massima a cura di  Redazione studiolegale.leggiditalia.it; “A seguito della declaratoria di dell’art. 222 c.p. (nella parte in cui non consente al giudice, nei casi ivi previsti, di adottare, in luogo del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, una diversa misura di sicurezza, prevista dalla legge, idonea ad assicurare adeguate cure dell’infermo di mente e a far fronte alla sua pericolosità sociale), anche nei confronti del soggetto affetto da vizio totale di mente sono applicabili misure gradate rispetto all’OPG – e, tra queste, la misura della libertà vigilata – ove in concreto idonee a contenere la pericolosità del soggetto e a attuare il necessario percorso terapeutico; “a fortiori” è applicabile la misura della libertà vigilata ex art. 219, comma 3, c.p. ove al vizio di mente dell’indagato si riconosca un grado non assoluto”, Tribunale Modena Ord., 15/05/2004, su Corriere del Merito, 2005, 1, 63.

[28] “Nell’esercizio del potere discrezionale indicato nell’articolo precedente, il giudice deve tener conto della gravità del reato, desunta: 1. dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall’oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità dell’azione; 2. dalla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato; 3. dalla intensità del dolo o dal grado della colpa. Il giudice deve tener conto, altresì, della capacità a delinquere del colpevole, desunta: 1. dai motivi a delinquere e dal carattere del reo; 2. dai precedenti penali e giudiziari e, in genere, dalla condotta e dalla vita del reo, antecedenti al reato”, art. 133 c.p.

[29] Risoluzione 19 aprile 2017 e 24 settembre 2018 del CSM in tema di misure di sicurezza.

[30] “….Di più, le esigenze di tutela della collettività non potrebbero mai giustificare misure tali da recare danno, anziché vantaggio, alla salute del paziente (cfr. sentenze n. 307 del 1990, n. 258 del 1994, n. 118 del 1996, sulle misure sanitarie obbligatorie a tutela della salute pubblica): e pertanto, ove in concreto la misura coercitiva del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario si rivelasse tale da arrecare presumibilmente un danno alla salute psichica dell’infermo, non la si potrebbe considerare giustificata nemmeno in nome di tali esigenze..”, Corte Cost. sent. n. 253/2003.

[31] Decreto Ministero della Salute del 1 ottobre 2012 in tema di Requisiti strutturali, tecnologici e organizzativi delle strutture residenziali destinate ad accogliere le persone cui sono applicate le misure di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario e dell’assegnazione a casa di cura e custodia.

[32] “La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge. In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l’autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che debbono essere comunicati entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto. È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà. La legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva”, art. 13 Cost.

[33]In tema di misure di sicurezza, è illegittimo il provvedimento con cui il giudice di sorveglianza, in sede di accertamento della pericolosità sociale, in assenza di alcun mutamento della situazione di fatto già considerata nel giudizio di cognizione, sostituisca la misura di sicurezza della libertà vigilata applicata con sentenza irrevocabile (nella specie, di assoluzione per difetto di imputabilità) con la più grave misura del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario all’interno di una REMS, trattandosi di una decisione assunta in violazione della preclusione derivante dal c.d. giudicato esecutivo”, Cass. pen. Sez. I Sent., 08/01/2020, n. 2452 (rv. 278466-01), CED Cassazione; “L’applicazione provvisoria della misura di sicurezza del ricovero in R.e.m.s. (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza) presuppone un giudizio di pericolosità sociale, ai sensi dell’articolo 203 cod. pen , che non può fondarsi esclusivamente sulla valutazione criminologica effettuata dal perito, essendo compito del giudice procedere anche alla analisi dei fatti commessi dall’indagato e di ogni altro parametro indicato dall’art.133 cod. pen., espressamente richiamato dal medesimo art. 203”, Cass. pen. Sez. III Sent., 10/05/2017, n. 38965 (rv. 270821), CED Cassazione; “In tema di esecuzione della pena, in caso di grave infermità psichica sopravvenuta al fatto, ex art. 148 cod. pen., l’accertata pericolosità sociale costituisce elemento ostativo al differimento facoltativo della pena, ai sensi dell’art. 147, comma quarto, cod. pen., e alla applicazione della detenzione domiciliare, ex art. 47-ter, comma 1-ter, ord. pen., né è possibile disporre il ricovero in una REMS, avendo tali strutture – ai sensi dell’art. 3-ter, comma 2, decreto-legge 22 dicembre 2011, n. 211, convertito dalla legge 17 febbraio 2012, n. 9 – come unici destinatari i malati psichiatrici ritenuti non imputabili in sede di giudizio penale o che, condannati, siano stati sottoposti ad una misura di sicurezza”, Cass. pen. Sez. I Sent., 17/07/2020, n. 21969 (rv. 279375-01), CED Cassazione.

[34] Raffaele Polin, Dai manicomi criminali alle Rems, in https://psiche.cmsantagostino.it/2018/05/14/manicomi-criminali-alle-rems/

Nicola Barbuzzi

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