Sommario: Danno Ambientale; La direttiva quadro 2004/35/CE sulla responsabilità ambientale; La disciplina del danno ambientale nel T.U. del 2006; La nozione di danno all’ambiente nel T.U..
Introduzione
Non è facile parlare di danno ambientale senza considerare cosa si debba intendere per ambiente; eppure, nel diritto positivo italiano, non esiste una definizione specifica di bene giuridico ambientale. Già negli anni ’80 la dottrina e la giurisprudenza, partendo dagli artt. 9 e 32 della Costituzione, sono, comunque, orientate verso una definizione di ambiente come bene giuridico unitario.
Con l’introduzione dell’art. 18, L. 8 luglio 1986, n. 349 (abrogato dall’art. 318 T.U.) “Istituzione del Ministero dell’Ambiente e norme in materia di danno ambientale”, viene introdotto nel nostro ordinamento il concetto di danno all’ambiente senza tuttavia dare nessuna definizione di “ambiente”. L’articolo 18, tuttavia, concentra l’attenzione soprattutto sui profili risarcitori a fronte di compromissioni ambientali.
Per una definizione di ambiente può essere, invece, indicativo quanto afferma la nota sentenza del 30 dicembre 1987 n.641, con la quale la Corte Costituzionale, chiamata a decidere sulla legittimità dell’art. 18 della L. 349/86, afferma che: “l’ambiente costituisce un bene immateriale unitario, sebbene a varie componenti ciascuna delle quali può anche costituire isolatamente e separatamente oggetto di cura e tutela, ma tutte nell’insieme riconducibili ad unità”. Inoltre, anche il fatto che l’ambiente possa essere considerato bene fruibile in varie forme, così come essere oggetto di varie norme per la tutela dei suoi componenti, non fa venir meno la sostanzialità di “bene unitario” precisato dall’ordinamento. Si può, quindi, affermare che l’ambiente rappresenta un valore primario e assoluto protetto da norme di rango costituzionale (artt. 9, 32 Cost.) già prima dell’emanazione dell’art. 18, L. 349/86. Anche la riforma della carta costituzionale, intervenuta con la legge costituzionale n.3 del 2001, ha introdotto la parola ambiente nel testo della Costituzione.
Nell’ex art. 18, 1° comma, L. 348/86, si legge che è danno ambientale: “qualunque fatto doloso o colposo in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge che comprometta l’ambiente arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo, in tutto o in parte, ed obbliga l’autore del fatto al risarcimento nei confronti dello Stato”.
Col danno all’ambiente si intende riferirsi alle conseguenze negative introdotte nell’ambiente o nei riguardi di una sua risorsa considerata come unitaria (flora, fauna, aria, acqua, suolo) o integrata (ecosistema, habitat, territorio). In termini giuridici, quindi, il danno ambientale fa riferimento ad interventi indotti dal comportamento umano o da pratica antropica che implicano responsabilità civili e di conseguenza un obbligo al risarcimento. Con il termine “alterazione” il legislatore ha inteso ogni modificazione che viene apportata alla risorsa rispetto al suo precedente stato e indipendentemente dalla circostanza che la modificazione sia reversibile o irreversibile. Per “deterioramento”, invece, si fa riferimento alle varie forme di peggioramento di tipo qualitativo o quantitativo di un bene ambientale. La distruzione riguarda l’atto che porta al venir meno di un bene o di una risorsa, totalmente o in parte. Il danno ambientale spesso non può essere quantificabile a causa delle varie matrici in cui può manifestarsi e in seguito alle difficoltà di valutazione intrinseca al danno stesso. La responsabilità civile nei confronti del danno ambientale è uno degli strumenti introdotti per la tutela dell’ambiente a livello nazionale. Tale strumento stabilisce il principio del “chi inquina paga” ed ha come suo scopo prevenire il danno ambientale rendendo più responsabili gli operatori che effettuano atti o pratiche causa di rischio danno. Lo strumento della responsabilità civile nei confronti del danno ambientale viene esercitata dal Giudice ordinario nell’ambito di un procedimento penale o civile.
Perché un danno ambientale sia risarcibile è necessario che:
- il danno sia causato da un fatto doloso o colposo, commissivo o omissivo, in violazione di una disposizione di legge o di provvedimenti adottati in base a legge;
- siano identificati gli autori del fatto doloso;
- il danno sia determinato in termini di alterazione o modificazione o deterioramento o distruzione totale o parziale della risorsa ambientale;
- venga dimostrato il rapporto causale tra fatto doloso e danno ambientale;
- ai sensi dell’art. 18, 3° comma, L. 349/1986 , lo Stato o l’Ente territoriale competente, richiede al Giudice un’azione di risarcimento verso lo Stato (come si vedrà, nel sistema delineato dal legislatore del 2006, la legittimazione a proporre l’azione spetta unicamente allo Stato).
L’art. 18 al 6° comma così recita: “il Giudice, ove non sia possibile una quantificazione del danno, ne determina l’ammontare in via equitativa, tenendo conto della gravità della colpa individuale, del costo necessario per il ripristino e del profitto conseguito dal trasgressore in conseguenza del suo comportamento lesivo dei beni ambientali”.
Lo stesso articolo al comma 8° fa emergere che “ il Giudice nella sentenza di condanna dispone, ove possibile, il ripristino dello stato dei luoghi a spese del responsabile”.
Secondo l’art. 2058 c.c. sono previste due forme di risarcimento: il danneggiato può chiedere la reintegrazione in forma specifica, qualora sia in tutto o in parte possibile. Il Giudice, tuttavia, può imporre che il risarcimento avvenga solo per equivalente, se la reintegrazione in forma specifica risulta eccessivamente onerosa per il debitore.
Il risarcimento per equivalente è limitato alle sole ipotesi in cui non sia possibile ripristinare l’ambiente, nel senso di riportare lo stesso alla situazione precedente l’evento che ha determinato il danno. Non ci sono criteri precisi con cui parametrare la liquidazione del danno per equivalente. Esso può essere determinato applicando l’art. 2056 c.c., utilizzando le categorie del danno emergente e del lucro cessante che si trovino in rapporto di casualità con il fatto che ha determinato il danno ambientale.
Il “ripristino dei luoghi” è il primo oggetto dell’ordinanza del Giudice ma è limitata alle sole ipotesi in cui sia possibile, ossia quando sussiste la possibilità concreta e oggettiva di ripristinare l’ambiente e riportare lo stesso alla situazione precedente l’evento dannoso.
Attraverso la valutazione “equitativa” il Giudice dovrà considerare i criteri espressamente indicati dalla normativa:
- gravità della colpa del responsabile;
- costo necessario per il ripristino;
- profitto conseguito dal trasgressore.
Tale valutazione evidenzia il carattere sanzionatorio della responsabilità per danni all’ambiente: il legislatore sostituisce il pregiudizio patrimoniale subito in seguito alla condotta con i criteri sopra evidenziati.
Volume consigliato
La direttiva quadro 2004/35/CE sulla responsabilità ambientale
L’Unione Europea si è espressa in materia di “tutela ambiente” e di responsabilità per danni ambientale attraverso la Direttiva 2004/35/CE.
Tale Direttiva mette in primo piano la questione della riparazione del danno causato alle risorse naturali nel contesto della politica unitaria[1].
Un primo passo volto a fissare regole in ambito di danno ambientale, è stato effettuato, nel settembre 1989, dalla Commissione circa i danni causati dai rifiuti alle persone ed alle cose.
Una seconda proposta è stata avanzata nel 1991 dalla Commissione al Consiglio in cui si introducevano innovazioni sistematiche che avrebbero modificato la prima proposta sulle carenze da questa presentate in ordine alla ricognizione del bene protetto e ai rimedi.
Con la Convenzione di Lugano sul danno ambientale[2] viene introdotta per la prima volta una definizione giuridica di ambiente, le cui componenti fondamentali comprendono non solo le risorse naturali (biotiche, abiotiche e paesaggistiche), suscettibili di danneggiamento, ma anche l’interazione tra le medesime, nonché il paesaggio e il patrimonio culturale. Con il libro verde[3] la Comunità esamina l’utilità della responsabilità civile e impone parametri di comportamento per obbligare i responsabili dell’inquinamento a sostenere i costi del danno causato.
Nel 2000 la Commissione propone il Libro Bianco[4]sulla responsabilità per danno all’ambiente in cui si prevede un regime di responsabilità più ampio e in cui la locuzione di danno viene impiegata sotto due specifiche accezioni, sia come danno alla biodiversità, sia come danno “contaminazione dei siti”. I soggetti responsabili sono le persone che esercitano il controllo sull’attività produttrice del danno.
I principi cardine intorno ai quali ruota il Libro Bianco sono l’irretroattività e la responsabilità oggettiva per danno causato da attività intrinsecamente pericolose e la responsabilità di colpa per danno alla biodiversità causato da attività non pericolose. Tuttavia l’aspetto più significativo del Libro Bianco è costituito dall’importanza attribuita al “financial responsability”[5] quale strumento per garantire la copertura dei rischi di danni all’ambiente.
Nella proposta del 2002, che costituisce l’ultima tappa del cammino verso l’emanazione della Direttiva 2004/35/CE, la Commissione ha preso in considerazione le varie discipline vigenti nei sistemi nazionali europei e in quello statunitense, evidenziando che centrale nella politica comunitaria ambientale è la “contaminazione dei siti”, pone, inoltre, in primo piano la necessità dell’applicazione del principio “chi inquina paga”, che rappresenta la base giuridica della normativa comunitaria, attuabile laddove si è realizzata di fatto una contaminazione.
Nel 2004 viene pubblicata la Direttiva 2004/35/CE sulla responsabilità ambientale, previsione e riparazione del danno ambientale. In tale sede viene dato atto alla presenza della Comunità di vari siti contaminati e di come questi possano causare danni alla salute. Per cui nella Direttiva emerge l’intento di una prevenzione e riparazione del danno ambientale considerando anche i costi regionali per la società.[6]
La definizione di danno ambientale è contenuta nell’art. 2, par. 1 e 2 della Direttiva. Nel contesto la nozione di ambiente non ha un contenuto unitario ma è ricondotto a tre diverse fattispecie:
- danno alla specie e agli habitat naturali protetti, cioè danno che produce effetti negativi sul raggiungimento o sul mantenimento di uno stato di conservazione favorevole di tali specie e habitat;
- danno alle acque [7];
- danno al terreno, cioè qualsiasi contaminazione del terreno che crei un rischio significativo per la salute umana a seguito dell’introduzione, diretta o indiretta nel suolo, o nel sottosuolo, di sostanze, preparati, organismi o microorganismi.[8]
In ordine alle attività alle quali è applicabile un regime speciale di responsabilità di danno ambientale, la Direttiva introduce una metodologia selettiva[9].
Le attività a cui la Direttiva fa riferimento sono quelle professionali (art. 2, par. 7) il cui svolgimento può determinare un rischio reale o potenziale per la salute e l’ambiente. Il regime di responsabilità identifica il professionista quale soggetto chiamato a rispondere di danno ambientale[10].
La Direttiva fa riferimento a due forme di attività professionali rispetto alle quali opera un diverso tipo di responsabilità:
- una prima forma riguarda quelle attività indicate nell’Allegato e che necessitano di requisiti normativamente previsti (quali l’ottenimento di una autorizzazione) perché rappresentano un rischio reale o potenziale per la salute e l’ambiente;
- l’altra forma è costituita dal danno alla biodiversità, esteso a qualsiasi tipo di attività professionale purché venga accertato il dolo o la colpa dell’operatore.
Nel contesto della specificità della legge gli operatori devono essere soggetti identificabili e il danno deve essere oltre che concreto anche misurabile. Inoltre, deve essere individuato il “nesso causale” tra danno e le attività dei singoli operatori.[11]
Attraverso tale nesso causale emerge la responsabilità civile degli operatori quali responsabili effettivi del danno e del suo risarcimento in termini di costi, prevenzione, riparazione. All’art. 1, infatti, la Direttiva istituisce “un quadro per la responsabilità ambientale basato sul principio “chi inquina paga” per la prevenzione e la riparazione del danno ambientale”.
Le innovazioni apportate dalla Direttiva al Libro Bianco riguardano l’esclusione dei danni tradizionali e l’eliminazione delle ipotesi di responsabilità, cui si aggiunge l’ampia discrezionalità riconosciuta agli Stati membri circa la scelta dei criteri soggettivi d’imputazione.
Ad un attento esame nel sistema delineato dal legislatore è configurabile la responsabilità per danno all’ambiente quando sono presenti due elementi:
- la qualifica di operatore e di attività professionale;
- la sussistenza del nesso di causalità tra l’attività dell’agente e la realizzazione del danno ambientale.
La responsabilità dell’operatore e l’obbligo di sostenere i costi di prevenzione e riparazione del danno sono tuttavia esclusi nel caso in cui l’operatore dimostri che non gli è attribuibile un comportamento doloso o colposo e che il danno ambientale è stato generato da due particolari situazioni:
- la prima prevede che l’operatore non sia responsabile se una emissione o un evento siano stati espressamente autorizzati dall’autorità pubblica ( come nell’Allegato III );
- la seconda prevede l’esenzione dalla responsabilità se l’operatore prova che le emissioni non sono state causa del danno ambientale in base alle conoscenze tecnico-scientifiche al momento del rilascio dell’emissione o dell’esecuzione dell’attività.
Le scelte del legislatore comunitario in tema di risarcimento del danno ambientale hanno escluso la riferibilità a criteri strettamente equitativi; infatti queste scelte sono primariamente orientate a ripristinare la situazione ambientale preesistente al fatto dannoso in virtù dell’assunto che il danno ambientale “deve essere riparato” e non tanto compensato in termini monetari.
La Direttiva stabilisce che i costi dell’azione di prevenzione adottate in caso di danno all’ambiente siano a carico dell’operatore; misure che possono essere adottate dalle autorità competenti individuate da ciascun Stato membro. Le misure di prevenzione vengono adottate per far fronte ad un evento, atto o omissione, che ha generato una minaccia imminente di danno ambientale al fine di minimizzare il danno stesso.
Le misure di riparazione sono invece finalizzate a risanare o sostituire risorse naturali danneggiate fornendo una soluzione alternativa.
All’art. 7 della Direttiva vengono determinate le misure di riparazione del danno cui attenersi per garantire la riparazione e distinguendo le varie ipotesi di danno a seconda che si tratti di danno arrecato all’acqua o agli habitat naturali protetti o al terreno. A tal proposito si illustrano tre criteri di riparazione:
- riparazione primaria con cui si tenta di riportare le risorse e i servizi danneggiati alle condizioni originali;
- se nonostante ciò le risorse e i servizi danneggiati non tornano alle condizioni originarie, si opta per una “riparazione complementare” con cui si cerca, anche in sito diverso da quello danneggiato, di ottenere un livello di risorse e servizi analogo a quello precedente il danno;
- infine, la “tipologia compensativa” che si concretizza in qualsiasi intervento volto a compensare la perdita temporanea di risorse e servizi naturali scompensati dal danno, fino a quando la riparazione primaria non abbia prodotto un effetto completo[12].
Dalla Direttiva si evince la ricchezza delle voci di “danno ambientale”, ma mancano riferimenti, ad esempio, sia al paesaggio che all’aria. La Direttiva esclude anche dal suo ambito di operatività gli effetti della tossicità dei prodotti o di emissioni nei confronti delle persone fisiche, mentre vi rientrano i danni provocati da inquinamento delle acque interne europee dalla contaminazione dei terreni o dalla riduzione della biodiversità e che colpiscono specie naturali protette dalle direttive sugli habitat e sugli uccelli.
Sembra però che un rischio di arretramento di tutela sia ricollegabile alla facoltà di scelta, introdotta dalla Direttiva, sul fondamento di una valutazione economica tra il ripristino del medesimo sito compromesso e la riproduzione di un altro sito di ambiente analogo.
Una tale scelta se non adeguatamente ponderata da organi amministrativi competenti potrebbe generare una graduale compromissione dei valori di biodiversità.[13]
La disciplina del danno ambientale nel T.U. del 2006
La parte VI (artt. 299-318) del D.lgs. 3 aprile 2006 ha recepito la Direttiva 2004/35/CE sostituendo l’intera disciplina del danno ambientale contenuta nell’art. 18, l. 349/1986 (abrogato dall’art. 318 T.U.). In essa si evince:
- la definizione di danno ambientale, che invece non era presente nell’art. 18, l. 349/1986, consistente, secondo l’art. 300, 1° comma, in “qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell’utilità assicurata da quest’ultima”, con l’espressa limitazione, in conformità alla Direttiva, al danno alle specie e habitat protetti, alle aree protette, alle acque ed al terreno (2° comma) salvo le specifiche esclusioni di cui art. 303;
- l’introduzione di meccanismi di attuazione del principio di “precauzione” di derivazione comunitaria incentrati sull’autocontrollo dell’operatore (ossia del soggetto che esercita o controlla un’attività professionale a rilevanza ambientale) quando un danno ambientale non si è ancora verificato, ma esiste una minaccia imminente che si verifichi, con la definizione delle necessarie azioni di prevenzione da attuarsi sotto il controllo del Ministero dell’Ambiente (art. 304);
- l’attribuzione della prevenzione di controllo al Ministero dell’Ambiente occupa un ruolo centrale nella procedura amministrativa, volta all’individuazione delle misure di ripristino quando si è verificato un danno ambientale ( artt.305-308);
- il conseguente ridimensionamento del ruolo degli enti locali cui viene attribuita la sola facoltà di sollecitare l’intervento statale (art.309) e di ricorrere in caso di inerzie o omissioni (art. 310), ma non la legittimazione ad agire o intervenire in proprio nei processi per danno ambientale;
- la parallela abrogazione dell’art. 9, 3° comma, del D.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (T.U.E.L.) che consentiva alle associazioni di protezione ambientali (di cui art. 13, l.349/1986) di proporre le azioni risarcitorie di competenze del giudice ordinario spettanti al Comune e alla Provincia in seguito di danno ambientale;
- la previsione, per quanto riguarda il risarcimento del danno ambientale , dell’alternativa (artt.311, 1° comma, e 315) tra l’azione risarcitoria in sede giudiziaria e l’ordinanza a contenuto risarcitorio, ricorribile in via amministrativa che il Ministro dell’Ambiente può emanare secondo le previsioni degli artt. 312-314;
- l’individuazione di nuovi parametri di riferimento per le misure risarcitorie, sia in sede giudiziaria sia di ordinanza ministeriale (art. 311, 2° e 3° comma, come modificati dall’art.5 bis del D.lgs. 25 settembre 2009, n. 135, aggiunto dalla legge di conversione 20 novembre 2009, n.166).
Dal danno ambientale vanno distinte le lesioni di natura individuale che derivano dalla compromissione dell’ambiente. Il T.U. riconosce la distinzione tra i due profili nella parte in cui precisa che “resta in ogni caso fermo il diritto dei soggetti danneggiati dal fatto produttivo di danno ambientale, nella loro salute e nei beni di loro proprietà, di agire in giudizio nei confronti del responsabile a tutela dei diritti e degli interessi lesi” (art. 313, 7° comma).
La nozione di danno all’ambiente nel T.U.
Mentre con l’art. 18, l. 349/1986 si era esteso il concetto di danno ambientale a qualsiasi lesione alle varie componenti del bene ambiente, l’art. 300 T.U. dopo aver dato, al 1°comma, una definizione generale: “È danno ambientale qualsiasi deterioramento significativo e misurabile di una risorsa naturale o dell’utilità assicurata da quest’ultima”, al 2° comma precisa che: “Ai sensi della Direttiva 2004/35/CE costituisce danno ambientale il deterioramento in confronto alle condizioni originarie, provocato:
- alle specie e agli habitat naturali protetti dalla normativa nazionale comunitaria di cui alla l. 11 febbraio 1992, n.157 (norme per la protezione della fauna selvatica) e di cui al D.P.R. 8 settembre 1997, n. 357 (regolamento recante attuazione della direttiva 94/43/CEE relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche), nonché delle aree naturali protette di cui alla l. 6 dicembre 1991, n. 394 e successive norme di attuazione;
- alle acque interne, mediante azioni che incidono in modo negativo sullo stato ecologico, chimico e/o quantitativo, oppure sul potenziale ecologico delle acque interessate, quali definite nella Direttiva 2000/60/CE;
- alle acque costiere e a quelle ricomprese nel mare territoriale mediante le azioni suddette, anche se svolte in acque internazionali;
- al terreno, mediante qualsiasi contaminazione che crei un rischio significativo di effetti nocivi sulla salute umana, a seguito dell’introduzione nel suolo (…) di sostanze, preparati, organismi, microorganismi nocivi per l’ambiente”.
La definizione di danno ambientale è quindi limitata alle componenti naturalistiche previste dall’art. 300 T.U. e non si riferisce ad elementi quali paesaggio ed atmosfera.
L’ex art. 18, l. 349/1986, non includeva il concetto di danno ambientale perché la protezione dell’ambiente era imposta dai precetti costituzionali di cui agli artt. 2,3,9,32,41,42 Cost., per cui l’art. 18 aveva solo una funzione ricognitiva e non costitutiva del danno ambientale, la cui lesione andava risarcita proprio sulla base della Carta Costituzionale, nonché della norma generale dell’art. 2043 c.c.
Relativamente al paesaggio il D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, prevede all’art. 134, quali beni paesaggistici, oltre le “bellezze individue”, immobili e aree di notevole interesse pubblico, (art. 136, e artt. 138-141), una serie di aree tutelate per legge (art.142), così affermato dagli artt. 143 e 156.
Invece, per i beni diversi dagli habitat naturali protetti e delle aree protette, la tutela viene affidata alla previsioni del D.lgs. 42/2004, fermo restando che, nel caso in cui il fatto lesivo comprometta la salubrità delle acque o del terreno, si realizza un danno ambientale ai sensi dell’art. 300 T.U.
Riguardo all’esclusione dell’atmosfera delle componenti naturalistiche, al n.4 del preambolo della Direttiva 2004/35/CE così si legge: “Il danno ambientale include altresì il danno causato da elementi aerodispersi nella misura in cui possono causare danni all’acqua o al terreno e alle specie e agli habitat naturali protetti”; per cui l’inquinamento atmosferico, pur non essendo previsto dall’art. T.U., può rilevare ai fini della disciplina del danno ambientale qualora abbia ricadute sulle predette componenti provocandone la contaminazione.
L’art. 303 T.U. esclude dal concetto di danno ambientale eventi quali conflitti armati, calamità naturali, rischi nucleari, etc.
Volume consigliato
[1] B. POZZO, “La Direttiva 2004/35/CE e il suo recepimento in Italia”, in Riv. Giur. Amb. , 2010, 1 ss e A. QUARANTA , ““L’evoluzione della politica ambientale e della disciplina del danno ambientale nella politica comunitaria” , in F. GIAMPIERO, “Responsabilità per danno all’ambiente”, Milano, 2006 , 3-37.
[2] M. HEDEMANN -ROBINSON, “Enforcement of European Environmental law”, London, 2007, 481 ss.
[3] F. GIAMPIERO, “ Responsabilità per danno all’ambiente: convenzione di Lugano, Il Libro Verde della Commissione CEE e le novità italiane”, In Riv. GIur. Amb. ,1994, 605 ss.
[4] C. ALTOMONTE, “ Proposta di Libro Bianco della Commissione sulle responsabilità per danno all’ambiente “, in Diritto Pubblico Comparato ed europeo, 2000, 1769 ; B. POZZO, “ Verso una responsabilità civile per danno all’ambiente in Europa: il nuovo Libro Bianco della Commissione della comunità europea”, in Riv. Giur. Amb. , 2000, 623 ss.
[5] Sul concetto di “financial responsability “ è rilevante il contributo di D. PORRINI, “ Il Libro Bianco sulla responsabilità ambientale: un approccio di analisi economica del diritto” , in Quad. Riv. Giur. Amb. 2002.
[6] Sul tema si veda:
- POZZO, “ La Direttiva 2004/35/CE e il suo recepimento in Italia.
[7] In tal caso trova applicazione la Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 ottobre 2000, modificata dalla Decisione n. 2455 del 2001 e della Direttiva 2008/32/CE, in GUUE l. 327 del 22 dicembre 2000. Con questa Direttiva quadro il legislatore dell’UE, ha inteso organizzare la gestione delle acque interne, superficiali, sotterranee, di transizione e costiere per prevenirne e ridurne l’inquinamento, promuoverne l’utilizzo sostenibile, proteggere l’ambiente, migliorare le condizioni degli ecosistemi acquatici e mitigare gli effetti delle inondazioni e della siccità.
[8] Cfr. art. 2 , Direttiva 2004/35/CE.
[9] Cfr. B. POZZO, “ La Direttiva 2004 e il suo recepimento in Italia, cit. 40.
[10] G. LO SCHIAVO, “ La Corte di giustizia e l’interpretazione della direttiva 35/2004 sulla responsabilità per danno ambientale: nuove frontiere” ,Riv. It. Dir. Pubbl. comunit. 2001, 01,83, che riprende in questo senso le considerazioni di B. Pozzo ( op.cit., 42).
[11] Sull’accertamento del nesso causale si veda la sentenza della Corte di Giustizia dell’UE (Grande Sezione) 9 marzo 2010; recente pronuncia in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale la messa in sicurezza di un sito grava sul proprietario dell’area del sito, Consiglio di Stato , sez. IV , 07/01/2020 , n. 122;
[12] vedi recente pronuncia della Corte della Giustizia internazionale sul principio di riparazione, Corte int.le giustizia, 02/02/2018, http:www.dejure.it
[13] G.M. ESPOSITO , Tutela dell’ambiente e attività dei pubblici poteri, cit.144.
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento