1. Danno dequalificazione professionale e nozione
In tema di demansionamento e dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che asseritamente ne deriva, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo. Inoltre mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all’esistenza di una lesione dell’integrità psico-fisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale – da intendere come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno – deve essere dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni. Ne discende che il prestatore di lavoro che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno (anche nella sua eventuale componente di danno alla vita di relazione o di cosiddetto danno biologico) subito a causa della lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita, deve fornire la prova dell’esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l’inadempimento, prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una valutazione equitativa. Tale danno non si pone, infatti, quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo al lavoratore che denunzi il danno subito di fornire la prova in base alla regola generale di cui all’art. 2697 c.c..
Di conseguenza, il lavoratore che si assuma essere stato danneggiato dalla dequalificazione professionale (1), con il successivo svolgimento di una domanda di risarcimento del danno subito, ha l’onere di fornirne la prova dell’esistenza del danno (2) e del nesso di causalità intercorrente con l’inadempimento del datore di lavoro, quale presupposto indispensabile per procedere ad una sua valutazione equitativa, non potendo porsi tale tipologia di danno quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, non bastando dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore fornire la prova del fatto.
2. Ipotesi di danno da dequalificazione professionale
In tema di responsabilità da dequalificazione professionale nel pubblico impiego è possibile la concorrenza tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale. Quest’ultima sussiste, a condizione che ci sia dolo o colpa in chi la commette, ed un conseguente danno. E’ peraltro possibile che l’azione ingiusta sia realizzata in un contesto contrattuale, cioè un rapporto tra parti legate da vincolo contrattuale: l’inadempimento contrattuale determina , infatti, il diritto al risarcimento del danno. Nel caso di cumulo di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, la giurisdizione spetta al giudice amministrativo (T.A.R. Campania Napoli, Sez. II, 14/02/2011, n. 921).
Il trasferimento per motivi disciplinari è del tutto inammissibile. In caso di dequalificazione professionale, è onere del lavoratore dimostrare il nesso causale tra il danno biologico ed il demansionamento; il danno all’immagine può essere riconosciuto sia nell’ambito dell’ambiente lavorativo sia in quello extralavorativo, trattandosi di una banca locale di ridotte dimensioni ed ubicata in un piccolo paese dove tutti sostanzialmente si conoscono (Trib. Padova, 09/06/2009).
Il danno da demansionamento professionale – in tutte le ipotesi di professioni a notevole specializzazione ovvero in genere qualora si tratti di dequalificazione di marcato spessore- non comporta un pregiudizio unico ed immediato, ma si risolve in un effettivo, concreto ed inevitabile ridimensionamento dei vari aspetti della vita professionale, che costituisce a sua volta un bagaglio peggiorativo diretto ad interferire negativamente nelle infinite future espressioni dell’attività lavorativa (Cass. Sez, lavoro 18.10.1999 n. 11727; T.A.R. Campania Napoli, Sez. II, 08/05/2009, n. 2480).
3. Danno dopo la cass. 26972/2008
La giurisprudenza di legittimità precisato, anche alla luce dei principi recentemente dettati dalle Sezioni Unite (v. Cass. 11-11- 2008 n. 26972, che, tra l’altro, ha inquadrato il risarcimento del danno professionale “in una ipotesi di risarcimento di danni non patrimoniali in ambito contrattuale legislativamente prevista”) “in tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno non patrimoniale che asseritamente ne deriva – non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale – non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo; mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all’esistenza di una lesione dell’integrità psico-fisica medicalmente accettabile, il danno esistenziale (che a seguito di Cass. 26972/2008 cit. non ha una sua autonomia concettuale, ma è un elemento da considerare, ove ricorra il presupposto della sua “serietà”, nel danno non patrimoniale, e che è da intendere come ogni pregiudizio, di natura non meramente emotiva ed intcriore, ma oggettivamente accertabile, provocato sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno) va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro dell’operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno” (v. Cass. 19-12-2008 n. 29832, cfr. Cass. S.U. 24-3-2006 n. 6572).
Rocchina Staiano
Avvocato; Docente di Medicina del Lavoro e di Tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro all’Università di Teramo; Docente formatore accreditato presso il Ministero di Giustizia e Conciliatore alla Consob con delibera del 30 novembre 2010; è stata Componente, dal 1 novembre 2009 al 2011, della Commissione Informale per l’implementamento del Fondo per l’Occupazione Giovanile e Titolare di incarico a supporto tecnico per conto del Dipartimento della Gioventù.
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(1) Il danno derivante al dipendente a causa del subito demansionamento nell’ambito dello stesso contesto di lavoro, palesemente determinante una evidente dequalificazione professionale, non può intendersi certo quantificabile, e dunque risarcibile per equivalente, in quanto innegabilmente incidente sulla immagine professionale del lavoratore, in quanto costretto a svolgere, nel medesimo ambiente lavorativo, mansioni palesemente inferiori a quelle in precedenza prestate.
(2) In ipotesi di dequalificazione, il danno professionale può essere riconosciuto solo in presenza di adeguata allegazione. Ad esempio, è necessario dedurre l’esercizio di un’attività soggetta a continua evoluzione e caratterizzata da vantaggi connessi all’esperienza professionale, destinati a venir meno a seguito del loro mancato esercizio per un apprezzabile periodo di tempo (Cass. civ., Sez. lavoro, 14/04/2008, n. 9814).
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