La Suprema Corte di Cassazione, sezione lavoro, con sentenza n. 3291/2016, a conferma di precedente indirizzo giurisprudenziale (cfr. Corte di Cassazione sezione penale, n. 28603/2013), ha riconosciuto il c.d. straining ossia una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce da parte dello strainer (solitamente un superiore) almeno un’azione discriminante, diretta esclusivamente alla vittima, e che procura effetti negativi duraturi nel tempo nell’ambiente di lavoro.
Il caso in esame riguarda F.M., neurologa dipendente dell’Azienda Ospedaliera di Brescia, la quale ha agito in giudizio chiedendo la condanna del primario del reparto presso cui gli stessi lavoravano ed il conseguente risarcimento del danno da demansionamento e mobbing. Le condotte poste in essere dal primario, in particolare, sono consistite in un atteggiamento aggressivo costituito dallo stracciare la relazione di consulenza della ricorrente che avrebbe dovuto essere allegata a una cartella clinica e nella mancata consegna della scheda di valutazione della neurologa.
La dottoressa infatti, a causa del trattamento ostile e svilente tenuto dal primario, si trovava a lavorare in situazione di costante stress, caratterizzato tuttavia da vessazioni solo saltuarie e prive del requisito della continuità.
La Corte d’appello di Brescia, al fine di valutare la situazione, ha ritenuto necessario nominare un CTU che ha accertato un danno biologico del 10% conseguente a disturbo dell’adattamento con ansia e umore depresso cronicizzato.
La stessa Corte, con sentenza poi confermata dalla Suprema Corte, ha escluso la sussistenza del danno da demansionamento in quanto, nel corso del procedimento, non è emerso alcun danno alla professionalità della dottoressa.
La Corte peraltro non ha riconosciuto neanche la sussistenza del mobbing per mancanza dell’elemento dell’oggettiva frequenza delle condotte ostili e vessatorie, nonché per insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare tali condotte.
Tuttavia ha modificato la qualificazione del trattamento subito dalla neurologa, riconoscendo il c.d. straining o stress occupazionale, ossia una forma attenuata di mobbing, caratterizzata dalla realizzazione di un’azione isolata o da più azioni, prive del carattere della continuità, ma che comunque comportano un grave disagio in ambito lavorativo ed i cui effetti sono duraturi nel tempo. Tali condotte sono infatti in grado di produrre situazioni altamente stressanti, causando disturbi psico-somatici, psico-fisici o psichici. Possono ad esempio integrare il c.d. straining i casi di demansionamento, dequalificazione, isolamento o privazione degli strumenti del lavoro ovvero trasferimento, posti in essere con intento discriminatorio.
Pertanto, pur non riconoscendo nel caso di specie il mobbing o la sussistenza di altre fattispecie di reato, la Corte d’appello di Brescia e la Suprema Corte, ritengono che tali condotte possono esser sanzionate in sede civile per violazione dell’art. 2087 c.c., norma suscettibile di interpretazione estensiva dato il rilievo costituzionale dei principi di buona fede cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro, dovendo il datore di lavoro astersi dal porre in essere comportamenti e azioni che comportino condizioni lavorative caratterizzate da stress in quanto lesivi dei diritti fondamentali del dipendente.
È stata così confermata la condanna al risarcimento a favore della neurologa della sofferenza patita e del danno psichico permanente subito
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