Danno parentale: irrilevante la convivenza, ma onere del giudice del merito valutare l’intenso rapporto anche sulla scorta di presunzioni semplici.
Con la sentenza numero 27658 del 29/09/2023 la III sezione della suprema Corte (Pres. Travaglino – relatore Sestini) si occupa del danno parentale e della rilevanza della convivenza quale presupposto per la sua risarcibilità.
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Indice
1. I fatti di causa e i giudizi di merito: il danno parentale
La vicenda in esame trae origine da una giudizio risarcitorio promosso dagli eredi e congiunti delle vittime dell’eccidio di Pietransieri, frazione di Roccaraso, perpetrati dalle SS nel novembre del 1943.
La causa civile veniva promossa in danno della Repubblica Federale Tedesca, e ove occorrendo, dei Ministri degli Esteri e delle Finanze.
La pronuncia di rigetto della Corte d’appello si fondava su una duplice ratio decidendi. La prima, non di interesse in questo scritto, afferisce alla mancata prova della quota ereditaria dei soggetti che avevano agito, appunto iure hereditatis. La seconda ratio decidendi, che è quella che qui interessa, afferiva alla mancata prova della sussistenza delle conseguenze dannose di natura non patrimoniale concretamente denunciate.
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2. Il giudizio in Cassazione
Proponevano ricorso per cassazione gli originari attori, sulla scorta di due motivi. Si esaminerà quello che qui interessa, vale a dire il motivo che aggredisce la ratio decidendi afferente l’onere della prova dell’intenso rapporto parentale.
I ricorrenti censurano la sentenza della Corte d’Appello di L’Aquila per violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2059 e 2727 c.c., dell’art. 115, comma 2, c.p.c. e dell’art. 2 Cost. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3), per avere la corte territoriale erroneamente attribuito un carattere decisivo, ai fini del rigetto della domanda, alla circostanza relativa alla mancata condizione di convivenza dei danneggiati con i congiunti vittime dell’eccidio, mancando di considerare il quadro indiziario fornito e bastevole per soddisfare, a detta dei ricorrenti, l’onere della prova posto a loro carico.
Il Collegio accoglie il motivo, sulla scorta del seguente ragionamento.
Come da numerosi precedenti della Corte, “in tema di pregiudizio derivante dalla perdita o dalla lesione del rapporto parentale, il giudice è tenuto a verificare, in base alle evidenze probatorie acquisite, se sussistano uno o entrambi i profili di cui si compone l’unitario danno non patrimoniale subito dal prossimo congiunto e, cioè, l’interiore sofferenza morale soggettiva e quella riflessa sul piano dinamico-relazionale, nonchè ad apprezzare la gravità ed effettiva entità del danno in considerazione dei concreti rapporti col congiunto, anche ricorrendo ad elementi presuntivi quali la maggiore o minore prossimità del legame parentale, la qualità dei legami affettivi (anche se al di fuori di una configurazione formale), la sopravvivenza di altri congiunti, la convivenza o meno col danneggiato, l’età delle parti ed ogni altra circostanza del caso” (Cfr. Cass. n. 28989 del 11/11/2019).
In particolare, in passato, la Corte ha più volte chiarito che il danno non patrimoniale da lesione o perdita del rapporto parentale non possa ritenersi richiedibile dai soli familiari conviventi, poiché il rapporto di convivenza, pur costituendo elemento probatorio utile a dimostrarne l’ampiezza e la profondità, non esaurisce le ipotesi di rapporti costanti di reciproco affetto e solidarietà, o meglio non gli esclude automaticamente in caso di sua mancanza. (Cfr Cass. Ordinanza n. 24689 del 05/11/2020).
In particolare, è certa la presunzione che l’uccisione di una persona fa dusemere da sola, una conseguente sofferenza morale in capo ai genitori, al coniuge, ai figli o ai fratelli della vittima ex. art. 2627 cc, a nulla rilevando né che la vittima ed il superstite non convivessero, né che fossero distanti (dati che al massimo rilevano sul quantum); Conseguenza della suddetta presunzione, è l’onere della prova che grava sul convenuto di dimostrare che vittima e superstite fossero tra loro indifferenti o in odio, e che di conseguenza la morte della prima non abbia causato pregiudizi non patrimoniali di sorta al secondo (Cfr. Cass. n. 22397 del 15/07/2022).
L’attore, quindi, a prescindere da parentela e convivenza, deve allegare l’intenso rapporto, che può essere provato anche a mezzo di presunzioni semplici e massime di comune esperienza, dato che l’esistenza stessa del rapporto di parentela fa presumere la sofferenza del familiare superstite, ferma restando la possibilità, per la controparte, di dedurre e dimostrare l’assenza di un legame affettivo, perché la sussistenza del predetto pregiudizio, in quanto solo presunto, può essere esclusa dalla prova contraria, a differenza del cd. danno in re ipsa, che sorge per il solo verificarsi dei suoi presupposti senza che occorra alcuna allegazione o dimostrazione (Cass. n. 25541 del 30/08/2022).
La Corte, quindi, censura l’erroneità della sentenza impugnata, nella parte in cui ha disatteso le domande degli interessati (attori iure haereditatis) in ragione della mancata condizione di convivenza dei propri danti causa con le vittime dell’eccidio dedotto in giudizio, dovendo rilevarsi come, anche in assenza di un rapporto di prossimità familiare d’indole nucleare, il difetto della convivenza con la vittima diretta dell’eccidio non costituisse in alcun modo un elemento preclusivo della prova del danno, “incombendo viceversa sul giudice di merito il compito di verificare, caso per caso, il complesso degli indici probatori eventualmente utilizzabili in relazione a ciascun singolo rapporto parentale dedotto (astenendosi dal riferimento a formule astratte o stereotipate), pur tenendo conto del principio in forza del quale, quanto più prossimo appare il grado formale della parentela, tanto meno rigoroso dovrà intendersi lo standard probatorio da soddisfare ai fini risarcitori.”
La sentenza è quindi cassata e torna in Corte d’Appello per le verifiche sollecitate dalla Corte.
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