Nella sentenza numero 26339 del 09.10.2024 la III Sezione della Corte di Cassazione, presidente Travaglino, relatore Cricenti, il Supremo collegio chiarisce gli oneri del danneggiato e i poteri del Giudice in tema di danno da lesione dell’onore e reputazione in conseguenza di articolo giornalistico diffamatorio.
Indice
1. I fatti di causa e i giudizi di merito
La vicenda giudiziaria trae origine da un articolo che la giornalista Tizia ha redatto per conto di un quotidiano, e nel quale si dava conto della revoca di un subappalto per sospette infiltrazioni mafiose afferente i lavori di costruzione post terremoto a L’Aquila, giustificato dai sospetti di infiltrazione mafiosa nella società Alfa, presumibili tra l’altro dai precedenti di polizia degli amministratori della stessa. Altresì nell’articolo si affermava che il provvedimento conseguiva anche all’assunzione da parte della società Alfa di soggetti gravati da indagini di polizia in materia di vicende mafiose.
Gli amministratori e la medesima società Alfa hanno agito dinanzi al Tribunale civile per chiedere i danni conseguenti alla presunta diffamazione subita, convenendo in giudizio il redattore dell’articolo, il direttore responsabile e l’editore.
La domanda veniva accolta in primo grado, sulla base del fatto che la notizia della revoca del subappalto era falsa, nel senso che lo stesso non era stato adottato per sospette infiltrazioni mafiose ma per ragioni amministrative e che del pari erano non vere le notizie sui precedenti di polizia in materia di mafia degli amministratori.
La sentenza veniva impugnata sia dal Comune di A. che dalla ditta Alfa, e il gravame accolto con rigetto dell’originaria domanda. La motivazione della Corte di appello era sostanzialmente la seguente. Si individuava una condotta colposa della convenuta per non aver fatto conto del manto dissestato, ritenendo detta condotta colposa idoneo ad elidere il nesso di causa tra danno e cosa, con conseguente infondatezza della domanda.
La Corte d’appello adita dagli originari convenuti rigettava integralmente l’appello.
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2. I ricorsi di legittimità sul danno alla reputazione
La sentenza veniva impugnata dagli originari convenuti con tre motivi, dei quali uno, quello in esame, ritenuto fondato e quindi accolto.
Il ricorso è proposto ex. art. 360 I comma n. 3, e si censura la violazione degli articoli 2059 cc e 185 c.p. in quanto la corte di merito ha stimato il danno in via equitativa, senza che fosse stata offerta alcuna prova da parte degli attori di averlo effettivamente subito, con relativa e asserita inammissibile liquidazione di un danno in re ipsa.
La Corte ricorda, a sostegno della motivazione di accoglimento che il danno non patrimoniale, anche quando derivi dalla lesione di un bene come l’onore e la reputazione, non coincide con la lesione medesima, dunque non coincide con la lesione del bene protetto, ma consiste nelle conseguenze pregiudizievoli che da tale lesione derivino, con la conseguenza che la prova del danno consiste nella prova non già del fatto che è stata lesa la reputazione, bensì nella dimostrazione che da tale lesione sono derivate conseguenze pregiudizievoli: la prova di tali conseguenze pregiudizievoli può anche essere fornita per presunzioni, ma deve tuttavia essere offerta, richiamando sul punto i propri precedenti Cass. 8861/21 e Cass. 19551/23.
Il danno, quindi, non si sostanzia nella lesione dell’interesse protetto, ma nelle conseguenze di tale lesione, e poiché la lesione dell’interesse, fosse anche quello reputazionale, non necessariamente ha conseguenze negative, e solo se le ha è risarcibile.
Nella motivazione della sentenza di merito, invece, emerge chiaramente come si faccia coincidere il danno con la lesione dell’interesse leso, senza chiarire se la prova dello stesso fosse o meno possibile.
In altre parole, i giudici di merito non dicono alcunché sulla oggettiva prova del pregiudizio subito dagli attori a causa dell’articolo diffamatorio, e provvedono alla liquidazione equitativa pur senza porsi la questione dell’assolvimento dell’onere della prova da parte dei danneggiati.
In conclusione, era onere dei danneggiati dimostrare che dalla notizia diffamatoria, e dunque dalla lesione della loro reputazione, era comunque derivato un pregiudizio risarcibile ed in cosa tale pregiudizio consisteva.
La Corte di legittimità, quindi, chiarisce sul punto che “solo in caso di oggettiva difficoltà di tale prova, che, si ripete, può essere data anche per presunzioni, il giudice avrebbe potuto procedere ad una stima equitativa: con la precisazione che i criteri utilizzati per la stima, e tra questi l’importanza del quotidiano e la diffusione della notizia, altro non sono che criteri per l’appunto di quantificazione di un danno, che però deve essere innanzitutto provato nella sua esistenza prima ancora che nel suo ammontare.”
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