Danno terminale: in cosa consiste?
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Che cosa s’intende per danno terminale e perché l’Osservatorio sulla Giustizia Civile del Tribunale di Milano ha deciso di elaborare una tabella nonostante le richieste risarcitorie di questo danno non siano elevate e, quindi, il fenomeno non sia ancora statisticamente rilevante (1).
Per rispondere al primo interrogativo il gruppo di lavoro dell’Osservatorio è partito dall’esame della sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 15350 del 2015, la quale ha eliminato (per ora) dal nostro ordinamento il danno tanatologico o danno da perdita della vita immediata o che segue dopo un brevissimo lasso di tempo alle lesioni ma, come contraltare, ha affermato che va risarcito il danno terminale, ovvero il danno non patrimoniale da percezione della morte imminente, il danno da lucida agonia oppure, per dirla con parole più semplici, va risarcita la paura, l’angoscia provata dal soggetto che è consapevole della propria morte imminente.
La sentenza sul danno tanatologico ha anche affermato che la figura del danno terminale ha conosciuto una grande incertezza sul piano definitorio perché la giurisprudenza e anche la dottrina hanno parlato di questo danno come danno biologico terminale, di danno catastrofale, di danno morale terminale, di danno da lucida agonia ma, al di là delle differenti definizioni, una cosa è certa. È questo il danno iure hereditatis che deve essere risarcito, non quello da perdita della vita.
L’Osservatorio sulla Giustizia del Tribunale di Milano ha voluto tabellare questo danno perché dall’indagine che ha fatto sui precedenti, ha verificato un’anarchia liquidativa. Faccio solo qualche esempio.
Il Tribunale di Milano, in una sentenza dell’1 agosto 2015, aveva liquidato 210 mila euro per 70 giorni nei quali il soggetto era rimasto in vita dopo l’evento (€ 3.000,00 al giorno).
Sempre il Tribunale di Milano, in una sentenza del 9 giugno 2014, aveva liquidato l’importo di 816,00 euro per 6 giorni nei quali il soggetto era rimasto in vita (136,00 euro al giorno).
Il Tribunale di Firenze, con una sentenza del 23 febbraio 2015, aveva liquidato 400 mila euro per una persona che dopo un incidente stradale era rimasta in vita 30 minuti.
Più recentemente, il Tribunale di Lucca, con sentenza del 31 agosto 2017 (la n. 1539), per 2 mesi nei quali un soggetto era rimasto in vita consapevole di dover morire, aveva liquidato la somma di 100 mila euro (€ 1.667,00 al giorno).
Ancora il Tribunale di Roma, sempre nel 2017, con la sentenza n. 22881 del 6 dicembre, ad un soggetto che dopo un incidente stradale era rimasto in vita per un arco temporale che va dai 15 ai 45 minuti aveva riconosciuto un danno terminale di 50 mila euro.
Un’ultima sentenza, più recente, del Tribunale di Termini Imerese (la n. 58 del 17 gennaio 2018) ad un soggetto che era rimasto in vita 6 giorni dopo un intervento chirurgico era stata liquidata la somma di 39 mila euro (€ 6.500,00 al giorno).
Danno terminale: i principi di durata limitata e coscienza
La definizione stessa di danno terminale esclude che possa protrarsi per un tempo esteso. È un danno limitato, di fine vita.
La tabella ha previsto un criterio convenzionale di 100 giorni oltre il quale il danno terminale non può prolungarsi tornando ad essere risarcibile il solo danno biologico temporaneo.
Questa indicazione di 100 giorni è ragionevole anche in considerazione del fatto che, nella maggior parte di queste vicende tragiche, purtroppo, il periodo di tempo nel quale i soggetti restano in vita è limitato a qualche giorno o a qualche settimana.
Posto il limite massimo, non si può parlare di danno terminale quando la morte sia avvenuta a brevissima distanza di tempo dall’evento lesivo.
Tra le lesioni e la morte deve intercorrere un lasso temporale minimo (che non è convenzionalmente individuabile) il quale deve far si che il soggetto acquisti consapevolezza/coscienza del rischio della propria morte che connota questa figura di danno.
Gli stessi medici legali che hanno partecipato ai lavori dell’Osservatorio hanno sostenuto l’esistenza di un minimo decorso di tempo affinché la coscienza elabori e rappresenti il rischio della morte imminente.
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La percezione della propria fine è uno dei presupposti perché possa essere risarcito questo danno. Non è un danno in re ipsa.
Occorre, dunque, provare attraverso la produzione documentale della cartella clinica o prove testimoniali che il soggetto era consapevole che le lesioni subite sarebbero state letali.
D’altra parte la Corte di Cassazione ha più volte affermato questo presupposto perché possa essere risarcito il danno terminale.
Cito, ad esempio, una sentenza molto chiara della Cassazione la quale ha affermato che la paura di dover morire provata da chi abbia patito lesioni e si rende conto che esse saranno letali, è un danno non patrimoniale risarcibile solo se la vittima sia stata consapevole della propria fine imminente, sicché in difetto di consapevolezza, non è nemmeno concepibile l’esistenza di tale danno.
In caso di incidente stradale o di infortunio sul lavoro in conseguenza del quale il soggetto entri in coma e, quindi, non sia cosciente, questo danno non è, dunque, risarcibile.
Va registrata, però, una sentenza della Cassazione di segno opposto secondo la quale una persona in stato soporoso avvertirebbe comunque la sofferenza, ma si tratta di un’unica voce contraria.
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