L?origine storica del principio di irretroattivit? della legge penale, quale primaria estrinsecazione del principio di legalit?, ? fatta giustamente risalire dalla dottrina alla speculazione illuministica, che fu dominata dalla necessit? di tutelare le libert? e, di riflesso, il diritto del singolo a non vedersi addebitato un fatto commesso nel momento in cui esso non costituiva reato. Il vigente codice penale, in ci? specificando il disposto generale di cui all?articolo 11 delle preleggi e dell?articolo 25 della Carta Fondamentale, aderisce a siffatta impostazione dettando all?articolo 2 (in una posizione non casuale) una disciplina dalla duplice copertura, la quale infatti, oltre a tutelare il singolo da eventuali accuse ingiustificate mosse dal potere giudiziario, scongiura altres? il rischio che i detentori del potere politico, abusando dello strumento normativo, lo pieghino ex post al disdicevole fine di sbarazzarsi dei loro oppositori.
Quale principio cardine del nostro ordinamento, del quale nessuno ha mai dubitato, il divieto di nuova incriminazione (?nullum crimen sine praevia lege poenali?) assume negli ultimi anni un rilievo tutto particolare, derivante dalla valorizzazione di un diritto penale costituzionalmente orientato, dallo studio approfondito delle problematiche vittimologiche e dalla riscrittura, in chiave garantistica, di una norma fondamentale della Costituzione, segnatamente l?articolo 111: ? da questi presupposti che occorre prendere le mosse se si vuole esaminare, con il dovuto rigore metodologico, l?interessante e discussa tematica della successione di leggi penali nel tempo, quale regolata dai commi 2 e 3 dell?articolo 2 del codice penale.
Il diritto, ed in particolare quello penale, non ? statico, n? mai potrebbe esserlo; quale strumento di regolamentazione e di soluzione dei conflitti sociali, la norma giuridica abbisogna di una costante e frequente attualizzazione, idonea ad adeguare il precetto alla volont? popolare racchiusa nella dizione, per alcuni fuorviante, della ?coscienza sociale?. Questa peculiare esigenza si manifesta in tutta la sua evidenza proprio nell?ambito penalistico, laddove spetta al legislatore intervenire, con celerit? e selettivit?, da un lato per sanzionare condotte che la generalit? dei consociati ravvisi d?un tratto come offensive (un esempio recente ? dato dalle fattispecie di terrorismo e di truffa alle imprese assicuratrici), dall?altro per ricondurre nell?ambito del lecito quei comportamenti ormai tollerati dal comune sentire.
Tuttavia, l?imbarazzante difficolt? del legislatore nel tenere dietro ai mutamenti della coscienza sociale finisce per dare luogo, nei tempi recenti, ad una proliferazione normativa scoordinata e proteiforme, in palese dispregio del canone di tassativit? che dovrebbe invece connotare la norma penale, ed alla quale si aggiunge, a complicare il quadro, una frequente assenza di regole di diritto transitorio che, quale strumento di governo della transizione innestata dalla modifica normativa, ben potrebbero esentare il potere giudiziario dalla difficile esegesi della scarna disciplina dell?articolo 2. Problema aggravato, nondimeno, dalla elementare constatazione che questo articolo vide la luce, nel lontano 1930, per assecondare l?evoluzione fisiologica del diritto penale sostanziale e non quale grimaldello di cui il legislatore si serve, oggi quasi costantemente, per una sporadica ed emergenziale mini-riforma di settore che corregga una mala gestio processuale (ed il pensiero corre, come ? ovvio, alla dibattuta problematica dell?abolizione dell?oltraggio).
La riprova palese di questo assunto ? data dalla realt? dei fatti, se ? vero, come ? vero, che negli ultimi dieci anni le Sezioni Unite della Cassazione si sono interrogate addirittura otto volte sulla sfuggente distinzione tra abolitio criminis ed abrogatio sine abolitione, mantenendo di stretta attualit? un annoso dilemma, ossia se l?abrogazione di una norma penale incriminatrice produca l?irrilevanza penale di tutti i fatti, in essa astrattamente sussumibili, commessi durante la sua vigenza (art. 2 comma 2), o se invece tutti questi fatti (o solo alcuni di essi) conservino la loro illiceit? in presenza di altra norma penale, preesistente o sopravvenuta, alla quale quel medesimo fatto sia ricollegabile (art. 2 comma 3).
Il continuo dibattito dottrinale e giurisprudenziale, nonostante la maturit? e la diffusione di alcune tesi, non ha consentito di giungere attualmente a dei criteri diagnostici sufficientemente stabili, mediante i quali sia consentito ai giudici di applicare nel caso concreto un istituto piuttosto che un altro; in via di sintesi, ? possibile racchiudere lo scenario interpretativo lungo tre diverse direzioni, ciascuna delle quali offre una chiave di lettura peculiare del fenomeno.
Secondo una prima opinione dottrinale (cd. teoria della doppia punibilit? in concreto), che stenta a trovare il favore della giurisprudenza, occorrerebbe valutare se il fatto concreto, commesso prima della modifica normativa, rientri sia nella vecchia che nella nuova normativa; in caso positivo sarebbe applicabile il comma 3 dell?articolo 2, mentre nell?ipotesi opposta dovrebbe ricorrersi invece all?abolitio criminis. Si obietta per?, in chiave critica, che una siffatta interpretazione lederebbe il divieto di retroattivit? della legge incriminatrice sopravvenuta, giacch? la nuova disciplina finirebbe per concedere rilievo a fatti che erano invece irrilevanti nel tempus commissi delicti.
Altra dottrina, in una prospettiva strutturale legata al fatto nella sua astrattezza, sostiene invece che il confronto fra le norme vada eseguito analizzando le fattispecie astratte ed i loro eventuali rapporti di coincidenza insiemistico ? strutturale: se cio?, fra la vecchia fattispecie e la nuova permane, a seguito della modifica, un?area di illiceit? comune, il fenomeno sar? quello della abrogatio sine abolitione, laddove una mera interferenza fra le due fattispecie provocher? invece l?applicazione del comma 2 dell?articolo 2. Ma anche questa impostazione va incontro a serrate critiche, che fanno perno essenzialmente sull?inadeguatezza della logica insiemistica a spiegare un fenomeno politico-criminale complesso come quello in discorso; si preferisce pertanto integrare questa metodica di accertamento ? e veniamo qui alla terza strada seguita dalla giurisprudenza ? con la necessit? di un intervento valutativo del giudice del caso concreto, il quale dovr? appurare se sussista una ?continuit? del tipo di illecito? fra la fattispecie di primo conio e quella pi? recente.
Con questa locuzione, elaborata dalla dottrina tedesca, gli studiosi intendono riferirsi all?eventualit? in base alla quale, per accertare la presenza di una successione di leggi piuttosto che di una abolitio criminis, l?interprete pu? fare utilizzo di particolari indici rivelatori, quali ad esempio le modalit? di aggressione ed il bene giuridico tutelato, la persistenza dei quali, pur nella riscrittura della norma, escluderebbe il fenomeno abolitivo.
Nondimeno siffatto criterio ermeneutico, seppur autorevolmente tracciato dalle Sezioni Unite nel 1990, non ha mai goduto di una solidit? indiscussa, per un duplice ordine di ragioni.
In primo luogo, l?enumerazione di questi indici non sarebbe esaustiva, bens? fornirebbe una visione parziale della realt? all?interprete; in pi?, ed ? questa l?osservazione che maggiormente coglie nel segno, l?elaborazione di siffatti parametri lascerebbe un eccessivo margine di discrezionalit? all?organo giudicante, il quale ben potrebbe assegnare un ?peso? maggiore ad alcune caratteristiche del fatto di reato piuttosto che ad altre (ed ? quello che accade, per inciso, nella sentenza del 2002 della Suprema Corte, ricorrente Tosetti). Non ? probabilmente molto lontano dal vero chi afferma, a tal proposito, che la preferenza delle Sezioni Unite per il canone della continuit? del tipo di illecito, lungi dal derivare da astratte questioni di diritto sostanziale, nasca invece dalla pratica esigenza di consegnare al giudice un criterio discretivo agile, in assenza del quale il giudice dell?esecuzione, chiamato a pronunciarsi sulla questione ex articolo 673 Cpp, dovrebbe necessariamente riaprire il fascicolo processuale con un notevole aggravio istruttorio. E le Sezioni Unite, nuovamente pronunciatesi nel marzo 2003 sullo scottante tema della successione di leggi con riferimento ai delitti societari, sembrano proprio aver metabolizzato queste critiche, tanto da affrettarsi a chiarire, in via preliminare, che la questione va affrontata prescindendo dal diritto processuale, ragionando cio? nella valorizzazione prettamente sostanziale dell?articolo 2 del codice.
Partendo da questo necessario presupposto, i supremi giudici pervengono, attraverso una articolata riflessione, al superamento del criterio valutativo sostenuto nella sentenza Tosetti, il quale si rivela assai inidoneo a fornire un appiglio sicuro all?interprete, oltre che pericoloso per il reo in quanto foriero di occulte violazioni del principio di legalit?. Aderendo nuovamente, e con diffusivit? di argomentazioni, al redivivo criterio strutturale, le Sezioni Unite tuttavia non ripudiano acriticamente l?approccio valutativo, al quale anzi conferiscono una importanza integratrice, tutt?altro che residuale, nell?ipotesi in cui emerga senza ombra di dubbio una voluntas legis pienamente abolitiva.
I risultati cui si ? pervenuti, pur nella variet? delle opinioni suesposte, permettono di affrontare con cognizione di causa un ulteriore e notevole problema, particolarmente dibattuto a causa della recente tendenza all?ipertrofia della normazione penale, alla quale il legislatore, adottando tecniche di redazione normativo-sintetiche piuttosto che descrittive, involontariamente apporta il personale, negativo contributo.
Si allude cio? al fenomeno, controverso in dottrina, della cosiddetta successione mediata delle fattispecie incriminatrici, che si verifica allorquando la riscrittura della norma penale non interessa il precetto, bens? gli elementi normativi che ne fanno parte, i quali necessitano, ai fini di un corretto inquadramento, del rimando a fonti extrapenali che ne precisino la portata (si pensi, ad esempio, al concetto civilistico di ?altruit?? della cosa quale presupposto per la sussistenza del delitto di furto), tanto pi? che, come statuito in negativo dall?articolo 47, il dolo dell?agente deve coprire anche gli elementi normativi stessi (di guisa che andrebbe assolto, nell?esempio fatto, chi ha sottratto una cosa altrui ignorando il concetto giuridico di altruit?: ma ? noto, invece, quale sia il costante ed opposto dictum giurisprudenziale sul punto).
E? agevole osservare, a riguardo, che il crescente tecnicismo del legislatore, derivante dal progresso scientifico e dalla connessa necessit? di adeguare la voluntas legis alla realt?, moltiplica le questioni dottrinali e giurisprudenziali sul tema: si pensi al problema dell?abolizione del reato presupposto quale elemento del delitto di calunnia, alla successione ?anomala? provocata dalla entrata in vigore, per soli nove giorni, del DPR 380/2001 (TU edilizia), alla riformulazione degli illeciti tributari. Pronunciandosi variamente su questi aspetti, la giurisprudenza pi? recente mostra di prediligere un orientamento rigoristico, stabilendo tout court l?irrilevanza delle modifiche mediate della fattispecie, sulla base del tralatizio presupposto che la successione di norme extrapenali non intacchi il disvalore complessivo della norma.
Gli studiosi, nondimeno, offrono un panorama pi? ampio e selettivo, riconducibile essenzialmente a tre indirizzi.
La prima impostazione, nel ribadire le conclusioni cui ? giunta la giurisprudenza maggioritaria dell?irrilevanza della successione mediata, si limita a fare salva l?eccezione delle norme penali in bianco le quali, agendo in via non indiretta ma diretta sulla norma, provocherebbero la sicura applicazione del secondo comma dell?articolo 2 del codice.
Altri, ritenendo questa eccezione insufficiente a tratteggiare compiutamente il fenomeno, sostiene invece che occorra indagare volta per volta il bene giuridico tutelato dalle norme passata e presente, al fine di stabilire se l?innovazione legislativa influisca o meno sulla situazione sottoposta alla tutela della legge penale.
Ultimo ed apprezzabile orientamento, valorizzando la funzione di ?elemento respiratore? connessa agli elementi normativi della fattispecie, insiste al contrario per la sicura rilevanza della successione extrapenale, almeno quando essa riguardi norme giuridiche non regolamentari.
Gli aspetti problematici della successione mediata si ravvisano in maniera particolare per i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione che, trattandosi di reati propri, necessitano della sussistenza in capo all?agente di determinate qualifiche ai fini della loro configurabilit?. Si allude, nello specifico, al rilevante fenomeno della privatizzazione, mediante la quale lo Stato ha inteso dismettere, a partire dagli anni Novanta, la titolarit? di alcuni enti pubblici, al duplice fine di introdurre moneta nelle casse del fisco e di contrastare, con il generale ricorso ai moduli del diritto privato, una gestione approssimativa ed inefficace di alcuni servizi pubblici, sino a quel momento gestiti sempre in disavanzo di bilancio.
In particolare, l?evoluzione tipologica degli enti pubblici privatizzati ha mutato la qualifica soggettiva dei loro dipendenti, i quali si sono visti privati dello status di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio per rientrare nell?alveo generico dei prestatori privati, con integrale applicazione della normativa contenuta nello Statuto dei Lavoratori. Ne ? discesa una frequente applicazione giurisprudenziale, dovuta al fatto che gli imputati di siffatti delitti, successivamente alla metamorfosi ontologica del loro ente datore di lavoro, hanno di frequente invocato la tutela di cui all?articolo 2 secondo comma del codice, asserendo che anche siffatto mutamento potesse considerarsi come una successione mediata abolitrice della norma penale.
I giudici di merito, in una prospettiva condivisibile, hanno respinto queste istanze difensive per un duplice ordine di considerazioni. Secondo una prima, assorbente opinione, il passaggio da ente pubblico a societ? per azioni non vale ad incidere ex post sul fatto di reato che, come ? agevole constatare, fu commesso quando il reo era decisamente in possesso della qualifica richiesta dalla norma; a riprova dell?assunto, ? sufficiente sostenere che, diversamente argomentando, ben potrebbe il potere legislativo abusare dello strumento normativo per concedere impunit? ?di settore?.
Nondimeno, qualora ci? non si volesse reputare bastevole, i giudici hanno altres? precisato che il fenomeno della privatizzazione, nelle sue variet? tipologiche, pu? essere ricondotto ad almeno due gruppi: da un lato una privatizzazione sostanziale, o forte, nella quale si evinca senza ombra di dubbio il passaggio dell?ente pubblico alla forma societaria; dall?altro una privatizzazione debole, o formale, nella quale invece il cambiamento ontologico non incide affatto sul servizio prestato, che conserva i suoi canoni di pubblicit? e di essenzialit? (come ha modo di chiarire, indirettamente, la legge 146 del 1990).
Ne consegue allora che l?interprete, nel giudicare caso per caso la natura del servizio esercitato, dovr? badare a non assegnare natura sostanziale ad una privatizzazione di facciata che, nel mutare solo la natura giuridica dell?ente per motivi di agilit? operativa, non intacca l?essenza dei suoi compiti. Pertanto, a non voler ritenere ammissibile la prima opinione di cui sopra, il mutamento della qualifica soggettiva rileverebbe soltanto nell?ipotesi di privatizzazione sostanziale, oggi poco frequente a causa della tendenza, manifestata dallo Stato, a mantenere il controllo delle neonate societ? mediante la conservazione della maggioranza del capitale sociale.
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Avv.
Specializzato nelle professioni legali
Dottorando di ricerca ? Seconda Universit? di Napoli
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