Del prefetto ovvero il saggio regolatore. Elogio della “governazione” o della Governance.

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Aliud est de silvestri cacumine videre patriam pacis   
et aliud tenere viam illuc ducentem.
(Agostino, Confessioni, VII, XXI)

Altro è osservar da una boscosa cima
la terra della pace
ed altro ancora è percorrer la via
che ad essa conduce.

DEL PREFETTO  ovvero IL SAGGIO REGOLATORE.
ELOGIO DELLA   “GOVERNAZIONE”[1]  O DELLA
GOVERNANCE.

di Claudio Sammartino

Premessa. John Forbes Nash e la teoria dell’equilibrio nei giochi non cooperativi.

                                                                 Chi non ricorda lo struggente film “A beautiful mind“ di Ron Howard ispirato alla vita, segnata dal genio ma anche dalla schizofrenia, di John Forbes Nash, scopritore della teoria dell’equilibrio nei giochi non cooperativi[2] e premio   

Nobel per l’economia nel 1994[3]?

                        Nel pensiero dello scienziato si rintracciano tutta la tensione morale e le esigenze presenti in parte della più autorevole cultura europea uscita dal disastro della seconda guerra mondiale: il tentativo, cioè, di leggere gli accadimenti non più  esclusivamente attraverso la lente del conflitto e secondo la logica della prevalenza, della vittoria di un contendente sull’altro ma, innovando un’inveterata tradizione, secondo modelli di equilibrio[4].

                       Alla luce di tale prospettiva bisogna porsi alla ricerca, pur in realistiche situazioni di contrasto, di modelli di collaborazione che rechino vantaggio a ciascun competitore. Nash, principale studioso della teoria dei giochi[5] e in particolare dei giochi non cooperativi, analizza situazioni di contesa potenziale o reale e ne ricerca soluzioni cooperative; per la scoperta della teoria dell’equilibrio, gli fu attribuito l’ambito riconoscimento svedese.

                        Dall’illustre matematico vengono esaminati stati di competizione, di confronto e di conflitto al fine di rinvenire vie d’uscita e soluzioni in virtù delle quali ciascun contendente può trarre qualche vantaggio o tendere a ridurre il proprio svantaggio. Le scelte operate dai partecipanti al gioco, denominate “strategie”[6], vengono effettuate nell’ottica di massimizzare il proprio utile o ridurre lo svantaggio sia con la vittoria ad un gioco da tavolo o di carte sia con operazioni di finanza sia con accordi diplomatici fra Stati. Non a caso Nash collaborò con il Dipartimento di Stato americano nel periodo della “guerra fredda” applicando le sue teorie alle relazioni fra Nazioni.                                                                                                              

                      Tutti i competitori possono, quindi, operare scelte dalle quali trarranno sempre qualche forma di vantaggio, anche sub specie di riduzione del danno: esiste, in buona sostanza, fra più competitori una situazione di equilibrio raggiungibile allorché ciascun individuo sceglie la propria strategia in modo da ottenere la migliore retribuzione possibile.                                               

                       Dal campo strategico-militare alla politica e alla sociologia, dall’economia all’informatica e alla biologia, la teoria dell’equilibrio ha trovato vaste applicazioni. Soprattutto in campo politico-diplomatico ed economico, la possibilità che si creino situazioni di equilibrio da cui sia il vincitore che il perdente possono acquisire un guadagno assume un’importanza cruciale e decisiva.

                      Appare utile, a questo punto, fare alcune precisazioni. Osservando l’ordito della teoria in esame, è intuitivo desumere che la condizione di equilibrio viene ricercata e trovata spontaneamente dai competitori senza alcun intervento di agenti esterni, quasi con un’attività di autoregolazione[7].

                      L’idea di equilibrio in Nash è, detto semplicemente, un tentativo di predizione che riguarda il comportamento degli attori[8]. In ogni caso ad essa è connaturata la ricerca da parte dei singoli agenti della massima retribuzione: la condizione di equilibrio è ravvisabile nella situazione in cui gli attori raggiungono il massimo soddisfacimento possibile delle proprie aspettative ed esigenze, cioè tendono a massimizzare la funzione di retribuzione della scelta operata. Le strategie degli attori sono in equilibrio di Nash quando nessuno può aumentare unilateralmente il proprio vantaggio (payoff) cambiando strategia[9]. E ciò senza limiti dimensionali al numero degli attori, potendo applicarsi a individui, gruppi sociali e Nazioni, come ha, peraltro, fatto l’illustre matematico ed economista[10].

                      Il dilemma del prigioniero[11] è l’esempio, divenuto ormai paradigmatico, che meglio descrive, nella sua immediatezza espressiva, una situazione in cui gli attori, pur razionali, non riescono spontaneamente a raggiungere un equilibrio; indica il fallimento degli accomodamenti spontanei e sta proprio in ciò il suo aspetto paradossale e dilemmatico. A meno che il gioco non sia ripetuto, consentendo agli attori di apprendere, o non intervenga qualche fattore ulteriore (la fiducia) o un vero e proprio regolatore esterno.                  

                       Quello che si intende evidenziare con il riferimento al dilemma del prigioniero è l’esigenza dell’intervento di un terzo agente istituzionale con funzioni di regolazione della competizione allorché la condizione di equilibrio non venga raggiunta spontaneamente dagli attori e la competizione stessa coinvolga interessi rilevanti per l’Ordinamento. L’autorità terza tenderà ad acquisire, in primo luogo, il consenso dei competitori per realizzare soluzioni di regolazione e di equilibrio; qualora non si addivenga ad una definizione e si paventi il rischio di ledere interessi rilevanti, la stessa autorità potrà azionare i poteri di ultima istanza di cui è titolare.

                      In verità, bisogna immaginare l’attività regolativa e la definizione di una soluzione di equilibrio come un processo[12], guidato con mezzi amministrativi pubblici, in cui rileva più che il momento della statuizione delle regole quello della loro concreta applicazione e, quindi, non l’astratta ma la specifica modificazione dei contesti di azione degli attori.  

                     Volendo focalizzare, per un attimo, l’attività regolativa, si può parlare di regolazione[13] quando si verifica una restrizione intenzionale dell’ambito di scelta nell’azione di un soggetto, operata da un’autorità terza istituzionale[14]. L’istituzione, cioè, costituisce la cornice al cui interno gli attori possono effettuare le proprie scelte: esse è un limite ma può rappresentare anche un’opportunità di guida per i comportamenti individuali e collettivi.

                     Mediante la regolazione le Istituzioni, in virtù del controllo della società, cercano di costruire e mantenere l’ordine sociale[15]: compito non facile da realizzare nelle fasi di mutamento degli equilibri fra le sfere politica, economica e sociale. 

                     Non è certamente il momento per esaminare adeguatamente la teoria di Nash: da essa si possono trarre solo alcuni spunti di riflessione per l’argomento in esame volto a tratteggiare ed approfondire il compito attribuito al prefetto di  saggia regolazione delle competizioni, con facoltà di attivare anche poteri di ultima istanza. E ciò, soprattutto nell’ottica, ormai in via di consolidamento, del superamento del modulo gerarchico-funzionale a favore di quello cooperativo e improntato alla leale collaborazione, equiordinato fra le parti pubbliche, non più impositivo ma pattizio, non più fondato sulla prevalenza ma sull’equilibrio delle esigenze[16].  

                     A tal fine occorre offrire alcuni spunti storico-ricostruttivi e svolgere qualche osservazione sui modelli organizzativi delle amministrazioni pubbliche, cercando di delineare il ruolo e le funzioni, ormai sensibilmente modificati, riferibili al prefetto.

 

 

 

1- Spunti storico-ricostruttivi.

 

                     Individuati lo sfondo tematico e l’obiettivo delle considerazioni che verranno svolte, al fine di analizzare compiutamente il ruolo e le funzioni prefettizie, appare utile richiamare le origini e le ragioni dell’affermarsi del modello dello statalismo  (statism)[17] basato su relazioni gerarchiche, sistema in cui il prefetto ha, fin dall’inizio, occupato un posto di rilievo. All’affermarsi del modello, caratterizzato dall’autorità prevalente dell’organizzazione statuale[18] e basato sulla predominanza del controllo gerarchico, ha corrisposto proporzionalmente il graduale consolidamento e l’insostituibilità della funzione del prefetto.

                     La figura prefettizia comincia a prender forma in Francia, dopo le vicissitudini del periodo giacobino e termidoriano: con la legge del 28 piovoso dell’anno VIII (1800) furono, difatti, istituiti da Napoleone i prefetti, secondo un modello di accentramento e di gerarchia che ravvisava nell’alto funzionario nominato dal Governo la figura-chiave di rappresentanza dello Stato centrale in ognuno dei dipartimenti in cui era suddiviso il territorio[19].

                     Le Istituzioni provvisorie per le prefetture e le viceprefetture, emanate dal conte Francesco Melzi d’Eril, Vice Presidente della prima Repubblica Italiana, succeduta alla Cisalpina e proclamata dai Comizi di Lione del 1802, ribadirono nel dipartimento la centralità della figura prefettizia, già introdotta nel 1801 nei territori sabaudi, e, nel confermarne le tradizionali funzioni ispettive e di controllo, sancirono anche significative attribuzioni in materia di  polizia, di sanità, di opere pubbliche nonchè di imposte e finanza[20].

                   Sul modello francese-napoleonico fu configurata, a sua volta, l’organizzazione amministrativa unitaria italiana, la cui punta di eccellenza era rappresentata dal prefetto[21].

                   La riforma Cavour, attuata con la legge 23 marzo 1853 n°1483, che aveva riorganizzato lo Stato sabaudo, fu estesa anche allo Stato unificato soprattutto nei suoi moduli organizzativi[22], rimasti invariati fin quasi ai nostri giorni, basati su un’amministrazione centrale, il ministero, e su un’amministrazione periferica incentrata sulle prefetture, nonché sulla sottoposizione al controllo statale dei Comuni e delle Province[23].

                        Marco Minghetti nel 1881 evidenziava il “compito amplissimo” del Ministero dell’Interno e dei suoi organi periferici, i prefetti, reputando quell’apparato il “grande motore” del sistema amministrativo dello Stato unitario[24].

                         E’ ampiamente riconosciuta la funzione determinante dell’apparato del Ministero dell’Interno e dei prefetti nei decenni della “nazionalizzazione” effettiva dello Stato sorto dalle vicende risorgimentali[25], rintracciandosi, in tal senso, riferimenti costanti nelle ricostruzioni della storia dell’amministrazione dell’Italia unita[26]. In ogni passaggio decisivo dell’evoluzione degli apparati italiani il Ministero dell’Interno ha svolto un ruolo fondamentale, poichè il suo sviluppo e le sue modificazioni si sono intrecciati a quelli dell’intero Ordinamento amministrativo.

                        “Nell’arco di quasi centocinquant’anni le vicende del Ministero dell’Interno hanno rappresentato un caso esemplare dell’evoluzione dell’intero sistema amministrativo passando da funzioni d’ordine a compiti di regolazione dell’attività economica e di trasferimento di ingenti risorse finanziarie nonché da un modello fortemente accentrato ad una progressiva accentuazione dei poteri delle amministrazioni locali”[27].

                        Il Ministero dell’Interno ha costituito, assieme al Dicastero finanziario, uno dei pilastri sui quali è stata realizzata la “nazionalizzazione” dello Stato italiano, attuata secondo il modello amministrativo fortemente accentrato vigente nel Regno di Sardegna[28], talora anche a scapito dell’autonomia delle rappresentanze locali, allo scopo precipuo di garantire la sopravvivenza della neonata struttura statuale. Le forti spinte centralistiche, culminate nelle leggi di unificazione amministrativa del 20 marzo 1865 n. 2248, svolsero il ruolo di “collante” dell’ordinamento unificato, estremamente debole e variegato in virtù delle composite esperienze regionali di provenienza ed assicurarono, in buona sostanza, la “tenuta” del sistema[29]. La struttura amministrativa statuale, e segnatamente quella prefettizia, adempì, da una parte, a compiti di controllo su una società il cui tessuto unitario si rivelava fragile ed incapace, almeno nei primi momenti, ad autogovernarsi ed esercitò funzioni di supplenza nei confronti di rappresentanze elettive non sempre adeguate al ruolo di classe dirigente. Il prefetto e il segretario comunale, nel periodo liberale, “di fatto governarono il Paese”[30].

                        Altro caposaldo del processo di unificazione, anche amministrativa, del Paese fu l’adozione del modello ministeriale, strumentazione incisiva della versione forte di unità amministrativa, quasi a compensare e sostenere la vulnerabilità dell’unità politica appena  acquisita[31]. Il modello, rappresentato da una struttura organizzativa di forma piramidale, operante su due livelli, centrale e periferico, era caratterizzato da relazioni strettamente gerarchiche  volte a garantire l’unicità del livello di comando e l’uniformità dell’esecuzione degli indirizzi di governo[32].

                         L’apparato periferico del Ministero dell’Interno, cioè le prefetture, alle quali faceva capo la quasi totalità degli uffici statali, era, quindi, funzionale a garantire il controllo delle realtà locali; il prefetto, per converso, svolgeva il prezioso compito di polarizzatore del circuito fra le istanze locali e il governo centrale, fecondo, peraltro, di positivi effetti per le comunità e gli enti territoriali[33].

                         Quale rappresentante del Governo in sede locale, lo stesso prefetto costituiva l’elemento determinante del rapporto centro-periferia, in cui si registrava la decisiva preminenza dell’ordinamento statale al quale, solo, spettava la valutazione dell’opportunità di dar rilievo alle altre amministrazioni, soprattutto locali[34]. Tale vocazione di deciso monopolio istituzionale delle anzidette relazioni centro-periferia, delineata sul modello francese e, poi, belga, venne costantemente ridimensionata non dagli enti locali bensì dalle altre amministrazioni statali -Provveditorati scolastici e Intendenze di finanza- le quali progressivamente consolidarono rapporti diretti, quindi non mediati dall’autorità prefettizia, con i propri uffici centrali. A queste si aggiunsero i detentori dei servizi pubblici in rete come genio civile, poste e telegrafi, corpo forestale[35].

                        Quindi, gli apparati amministrativi centrali e periferici, e la loro stretta connessione secondo i modelli descritti, costituirono uno dei più rilevanti fattori di unificazione del Paese e valsero a sostenere una società malferma, soprattutto nel Mezzogiorno. In tal modo, si consolidò la scelta strategica di accrescere il peso delle “reti amministrative” rispetto alla valorizzazione di istanze di autogoverno locale.

 

 

 

2- La crisi del modello gerarchico.

 

 

                       Il modello originario, accentrato, piramidale, agente secondo i principi della gerarchia e dell’uniformità degli schemi organizzativi èrimasto invariato fino alla fine del XX  secolo[36].

                        Nella sua ricostruzione delle forme storiche di organizzazione del dominio[37], Max Weber si occupa di delineare la burocrazia razionale-legale strutturata secondo “il principio della gerarchia degli uffici”, cioè di un sistema di sovraordinazione degli organi di autorità e di controllo che prevede il “diritto di appello e di reclamo dall’inferiore al superiore”[38].

                       Secondo un’opinione quasi corale, questo principio ormai presenta significativi segni di usura[39]. Difatti, se le forme gerarchiche, tipici modelli amministrativi dello Stato contemporaneo, scontano una progressiva, evidente inefficacia, di converso i modelli non gerarchici appaiono più efficaci[40]. La gerarchia, per l’appunto, quale modello organizzativo storicamente determinato non è un “mezzo buono a tutto fare”[41] e, quindi, non è immutabile; anzi, essa viene considerato in crisi non per una mozione ideale ma proprio dal punto di vista della sua efficacia[42].

                         Difatti, “le patologie insite nel meccanismo gerarchico (una certa rigidità strutturale, flussi di comunicazione unilaterali, il rischio di una sindrome autoritaria), la maggiore complessità strutturale e funzionale nonché la crescente turbolenza degli ambienti generali di riferimento delle amministrazioni pubbliche hanno reso i sistemi di governance e le forme organizzative ispirate alla gerarchia anacronistici e inefficienti”[43].

                          Con il progressivo superamento del sistema amministrativo fortemente centralizzato di stampo cavouriano, attuato mediante processi di decentramento politico e funzionale ed anche tramite l’elaborazione di assetti autonomistici nelle politiche pubbliche, la struttura organizzativa degli apparati amministrativi va gradualmente abbandonando il modello gerarchico-funzionale alla ricerca di processi organizzativi più efficaci e responsabilizzanti[44].                          

                          Qualsivoglia formula organizzativa, anche quella gerarchico-funzionale, non è immutabile e risente, invece, delle “connessioni reciproche fra gli apparati amministrativi e l’assetto della società”[45].

                         Fin dagli inizi dell’ultimo decennio del secolo scorso, si è assistito a modificazioni significative del sistema amministrativo italiano anche sull’onda di dinamiche di cambiamento comuni a diversi Paesi occidentali[46].

                         La crisi del modello gerarchico, in cui campeggia un unico e solo protagonista, ha favorito, allora, la creazione di moduli organizzativi negoziali e cooperativi, comunque pluri-attore[47], per i quali, in presenza di rapporti tendenzialmente simmetrici fra i protagonisti, si rivela la necessità di un’autorità di regolazione che tende a far prevalere gli elementi di partecipazione e stipulazione su quelli impositivi, di esclusione e di irresponsabilità[48].

 

 

 

 

 3- Verso un modello di regolazione del sistema e  di equilibrio.

     a)  Dal government alla governance[49].

 

 

                        Nel descrivere la sensibile attenuazione del modello gerarchico[50], schema che ha fondato l’organizzazione amministrativa, non solo italiana, per quasi due secoli, non si può non rilevare che tale fenomeno si inserisce in un più ampio contesto in cui “il sistema amministrativo abbandona i vecchi ancoraggi“[51] caratterizzati, in gran parte, dal modulo dualistico del rapporto pubblico-privato[52] o, meglio, secondo una più tradizionale ricostruzione, basati sul paradigma autorità-libertà.

                          Se è pur ricorrente il rischio che il sistema, senza guadagnare nuovi approdi, si perda in un intreccio di frammentazioni organizzative[53] è altrettanto evidente “l’urgenza di ancorare il mutamento della P.A. ad alcuni principi in grado di rendere riconoscibili e condivisi i processi d’innovazione stabilizzandone le inevitabili oscillazioni“[54].

                         Punto focale delle sintetiche osservazioni sul ruolo del prefetto, che ci si avvia a sviluppare, è costituito dal graduale passaggio dal government, formulaindicativa dell’istituzione o dell’organo monocratico di vertice, alla governance, intesa come forma di regolazione o coordinamento delle azioni di individui e gruppi a diversi livelli di riferimento (locale, nazionale o globale)[55].  

                      Si apre la strada, in buona sostanza, a forme organizzative nuove e diverse che  portano l’Amministrazione ad un diretto ruolo di mediazione inevitabilmente bisognoso di strumenti, principi e regole del tutto nuove[56], “principi quali le regole di cooperazione tra soggetti pubblici oltre che tra ambito pubblico e privato”[57].

                       In questa  “vera e propria discontinuità con il passato generata da profonde dinamiche che investono tutte le relazioni fondanti del sistema amministrativo (i rapporti centro-autonomie, quello pubblico-privato, quelli lungo l’asse potere politico amministrativo-società)“[58] non si può non evidenziare l’esigenza irrinunciabile di un’autorità che assicuri l’equilibrio del sistema e la regolazione dei processi e delle relazioni dianzi descritte; un soggetto, cioè, in grado di far condividere e applicare le regole di cooperazione da tutti gli attori e competitori in gioco, una sorta di autorità regolativa, con potestà anche  di ultimaistanza.

                       In un sistema in cui la crisi dei moduli di organizzazione gerarchica ha aperto la strada a modelli amministrativi e organizzativi negoziali, cooperativi, in genere pluri-attore[59], si afferma la suggestione di un campo di gioco, di un’arena in cui i competitori, portatori di distinti e diversificati interessi o petizioni di parte, consapevoli delle conseguenze di ogni singola mossa, si confrontano alla presenza di un soggetto regolatore della competizione.                           

                      Tale autorità non può limitarsi a prendere atto dell’esito del contraddittorio, quasi con intento notarile, e a dichiarare il vincitore una volta che sia cessato l’agone o il confronto sul campo; occorre, invece, che essa si impegni per rinvenire, all’insorgere della situazione critica o del conflitto, una soluzione di equilibrio grazie alla quale i competitori traggano tutti un vantaggio o, quanto meno, riducano il danno. Si ravvisa, in maniera sempre più insistente, la necessità di individuare un soggetto che, con abile saggezza, facendo condividere le “regole del gioco”, svolga attività regolativa dei processi di competizione e diconfronto, individui e realizzi soluzioni di equilibrio, secondo le suggestioni di Nash, fra gli attori, pubblici e privati, soprattutto in momenti in cui le pubbliche amministrazioni si distaccano dal consueto vincolo di esclusiva relazione con lo Stato, tradizionale punto di riferimento, e si incamminano verso scenari di amministrazioni acefale, adespote[60], sistemi reticolari e altre modalità di governance[61].

                      “Un sistema policentrico con spinte centrifughe ha l’esigenza di trovare un punto di riferimento per mantenere l’unità“[62], una figura duttile alle trasformazioni ed autorevole per  la sua tradizione e per il ruolo attuale, capace di porsi come mediatrice e regolatrice fra tensioni e tendenze talora contrapposte.

                      Negli ultimi decenni del secolo scorso, difatti, con l’affermazione di una configurazione statuale policentrica[63] configurata in maniera tale da riconoscere significativi spazi di autonomia alle realtà locali, si è vieppiù imposta l’esigenza di assicurare una connessione fra le varie entità istituzionali, soprattutto in sede periferica, in virtù delle formule organizzative del “raccordo” e della “collaborazione”[64].

                      Com’è stato sottolineato “la recessione delle configurazioni gerarchiche ha seguito due traiettorie di sviluppo: una interna alle amministrazioni, il che ha impresso una trasformazione da organizzazioni ‘impositive’ con rapporti asimmetrici verso organizzazioni ‘partecipative’ con rapporti simmetrici tra le diverse parti interessate al funzionamento delle amministrazioni (…); l’altra esterna che ha condotto alla moltiplicazione di azioni congiunte o cooperative tra soggetti pubblici e/o privati, cioè a forme di partenariato ben diverse dalle più tradizionali logiche di azione unilaterali ed autoritative“[65].

                       Ci si occuperà più avanti delle relazioni intergovernative [66] al cui centro si colloca, in maniera significativa e non esclusiva, il prefetto.

                     Nell’ambito delle organizzazioni interne, il pluralismo organizzativo[67] che ha portato, com’è stato rilevato[68] con riferimento ad un’ormai famosa osservazione di Massimo Severo Giannini[69], ad un’esplosionedelle forme organizzative del sistema amministrativo italiano e alla “proliferazione di corpi separati rispetto al circuito dell’amministrazione classica”[70], o alla “disarticolazione dell’amministrazione pubblica”[71], ha prodotto un ulte-riore, specifico risultato, cioè l’adozione del modello definito “divisionale”[72] o “reticolare”[73].

                      Tale schema organizzativo fa perno sulla prevalenza del prodotto/servizio da realizzare più che sulla funzione svolta; è da notare che quest’ultima, a sua volta, era connessa al modulo gerarchico[74], ora sensibilmente ridimensionato dal punto di vista della semplificazione e riduzione dei livelli di gerarchia in misura tale da favorire la vicinanza all’utente della risposta amministrativa. La maggiore prossimità del livello amministrativo abilitato al soddisfacimento della richiesta rispetto al territorio, all’ambiente e, in ultima analisi, all’utente appare funzionale a meglio recepire i bisogni sociali e ad accrescere  l’efficacia, anche  in  termini di tempestività, dell’intervento  dell’Amministrazione[75].

                      Il modulo divisionale, tipicamente diffuso in ambiente aziendal-privatistico, è stato adottato anche nei ministeri, nei quali la struttura di primo livello è stata denominata dipartimento[76], e nei Comuni, con l’indicazione di area.

                       Prendendo a riferimento anche tale modello, il Ministero dell’Interno ha recentemente sottoposto a profonda revisione la propria struttura e l’ordinamento istituzionale prefettorale; in particolare, alla luce della delega conferita con l’art.10 della legge 28 luglio 1999, n. 266 e delle conseguenti disposizioni del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, sono state ampiamente riformate  rispettivamente l’organizzazione centrale e periferica del Dicastero nonchè la carriera prefettizia, quest’ultima tornata ad essere definita dalla cura dei compiti di rappresentanza generale del Governo sul territorio, di amministrazione generale e di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica[77], a mente dell’art. 1, comma 1 del decreto legislativo 19 maggio 2000, n. 139.

                         In virtù delle novelle legislative, fra l’altro, è stata adottata un’organizzazione per processi[78], sono state sostituite le direzioni generali con i dipartimenti[79], riorganizzati gli uffici ministeriali[80] e le prefetture[81], ora denominate anche uffici territoriali del Governo [82], in Aree Funzionali e Servizi[83].

                      Alla “rivoluzione” ordinamentale ed organizzativa, che si inserisce compiutamente nel contesto delle considerazioni sin qui svolte in merito ai cambiamenti e allo sviluppo dell’Ordinamento in generale, si  è accompagnata anche una ridefinizione delle funzioni del prefettizio caratterizzate da una significativa autonomia organizzativa e decisionale. Essa comprende la potestà di adozione degli atti e dei provvedimenti rientranti nelle materie di competenza del dirigente cui consegue un’accountability diretta, in virtù della preposizione al relativo posto di funzione; allo stesso dirigente è, altresì, esplicitamente riconosciuta la facoltà di adottare iniziative proprie e di formulare proposte al prefetto[84].

                      Il sensibile affievolimento della configurazione gerarchica ha avviato la trasformazione dell’organizzazione interna da “impositiva” a “partecipativa” con rapporti tendenzialmente simmetrici in cui gli attori sono motivati ed egualmente protesi al migliore funzionamento dell’Amministrazione[85]  nel perseguimento dell’interesse generale.

                        In tal modo, il prefetto ha visto modificarsi, in maniera significativa, il proprio ruolo rispetto a quello svolto nel modello organizzativo tradizionale di tipo gerarchico-funzionale. Il vertice prefettizio ha dismesso il compito di unico centro di imputazione della struttura periferica in ragione dell’esclusiva potestà di adozione degli atti e dei provvedimenti e della diretta supervisione delle attività  ed ha guadagnato il ruolo di direzione strategica e di indirizzo attuati mediante la pianificazione, la programmazione gestionale operativa e il controllo di gestione. Il baricentro di questa dinamica risulta costituito dall’impulso all’attività di programmazione strategica esplicitato nella direttiva annuale del Ministro dell’Interno[86].   

                        Nell’organizzazione periferica, anche se, finora, non sono state attribuite le necessarie risorse finanziarie per l’attuazione piena dell’autonomia dirigenziale, ruolo centrale continua ad essere  svolto dal prefetto il quale, ad inizio d’anno, assegna ai dirigenti, in uno alle risorse umane, tecnologiche e strumentali, gli obiettivi gestionali operativi, alla luce degli indirizzi strategici indicati dal Ministro. Gli obiettivi stessi vengono periodicamente sottoposti a monitoraggio anche dal Servizio di controllo interno, e costituiscono, altresì, la base per la valutazione annuale, in termini oggettivi e qualitativi, dei risultati dell’attività dirigenziale assieme ai comportamenti organizzativi[87].

 

 

 

 

 

 

b) – Il prefetto regolatore, vero attore della governance in sede locale.

 

                      

                     

                       Il prefetto svolge, quindi, compiti fondamentali di rappresentanza generale del Governo sul territorio, di amministrazione generale, di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica nonché di garanzia e tutela dei cittadini e dei loro diritti civili e sociali. Ad esso, peraltro, rimangono attribuite, in coerenza con il ruolo appena delineato, alcune attività caratterizzate, in buona parte, dalla loro valenza “politica” e d’indirizzo[88], poiché, come già rilevato, i poteri di gestione diretta delle funzioni operative  sono di pertinenza dei dirigenti prefettizi. In tale prospettiva, le “mani” del prefetto rimangono, quindi, liberate dall’operatività gestionale essendo valorizzate, in maniera preminente, le sue funzioni  d’indirizzo e di governo[89].

                       Viene in luce, finalmente, si può dire, il ruolo del prefetto che cercheremo di esplicitare ulteriormente, e per nulla in maniera esaustiva, mediante esemplificazioni tratte dal quadro normativo dei poteri e dei processi attivabili dal rappresentante del Governo e organo periferico del Ministero dell’Interno, potestà in parte già delineate con riferimento ai rapporti intraorganizzativi rimodulati a seguito della riforma della carriera prefettizia.

                         E’ utile sottolineare che nelle relazioni intergovernative, cioè fra diversi livelli di governo[90], sono gradualmente venuti meno i rapporti caratterizzati dai controlli e dalla tutela dello Stato nei confronti degli enti locali[91], indice di una marcata sovraordinazione statuale, mentre si è dato progressivamente luogo ad un rinnovato modello prefettizio imperniato sulla promozione di attività di coordinamento, di supporto e di raccordo fra attori, simbolo ed attuazione della pariordinazione fra lo Stato e gli enti esponenziali territoriali sancita, per ultimo, dal novellato Titolo V della Costituzione[92]. Peraltro, il coordinamento esprime la funzione tipica di amministrazione generale del prefetto quale rappresentante del Governo nella sua interezza [93]

                          In tale ottica, il tradizionale asse “centro-periferia”, locuzione figurativa ed efficacemente indicativa di rapporti organizzativi e intergovernativi segnati da relazioni verticali di sovraordinazione, talora, gerarchicamente  caratterizzate, è gradualmente venuto meno poiché, ormai, “non esiste più un solo centro o una sola periferia ma più centri e più periferie”[94].

                       Alla luce del modulo innovatore appena indicato, il prefetto svolge un compito di estrema rilevanza perché regolativo delle relazioni, dei processi e dei comportamenti di soggetti pubblici e privati -e, quindi, del sistema- soprattutto in materie nelle quali prevale l’esigenza di tutela di beni e diritti fondamentali e irrinunciabili (fra gli altri, la sicurezza  individuale e collettiva, le libertà civili e democratiche, i diritti civili e sociali, l’incolumità delle persone e la loro assistenza nelle calamità), cioè, in buona sostanza, di salvaguardia delle basi dello stesso Ordinamento.           

                       Nel riflettere sulle relazioni intergovernative, appare ineliminabile richiamare, in via preliminare, il canone della leale collaborazione, consacrato, per ultimo, con riferimento ai compiti prefettizi, dall’art. 1, n. 2 lett. b del decreto del Presidente della Repubblica 3 aprile 2006, n. 180[95].

                      All’attuazione del criterio  regolativo dei rapporti fra uffici periferici dello Stato con i diversi livelli di governo esistenti sul territorio è deputato il prefetto, anche con l’ausilio della Conferenza permanente di seguito descritta.

                        Il principio della leale collaborazione costituisce, in sostanza, lo strumento fondamentale, il criterio motore della governance prefettizia la quale opera incessantemente in un’ottica di “regolazione generale del sistema “[96]; essa è “capace di ricucire strappi o distonie istituzionali” essendo “attrezzata a coltivare la cultura della mediazione e del dialogo, motivata all’integrazione dei vari protagonisti del territorio e della società, pronta ad attivare le misure compensative“ o le iniziative di supplenza o sostitutive a salvaguardia dell’equilibrio e per evitare ‘rotture’ del sistema stesso nell’interesse generale[97].

                         Il prefetto si staglia con nitidezza quale regolatore e garante del coordinamento fra gli uffici periferici dello Stato e gli enti locali nell’ambito della Conferenzapermanente di rango provinciale o regionale, istituita dall’art. 11, comma 3 del decreto legislativo 30 luglio 1999 n. 300 e regolamentata con decreto del Presidente della Repubblica 3 aprile 2006 n. 180. A tale organismo, che ha preso il posto dei Comitati provinciali e metropolitani della pubblica amministrazione[98], partecipano sia i responsabili di tutte le strutture amministrative periferiche dello Stato sia i rappresentanti degli enti locali interessati.  

                       Quale organo di rappresentanza generale del Governo e di garanzia istituzionale a tutela dell’ordinamento, il titolare della prefettura-utg assicura il coordinamento dell’attività amministrativa degli uffici periferici dello Stato e la leale collaborazione degli stessi con i diversi livelli di governo esistenti sul territorio ex art. 1 d.P.R. n. 180/2006.

                        A tal fine il vertice prefettizio:                                                                                        

– fornisce, a richiesta del Presidente del Consiglio dei Ministri o dei Ministri da lui delegati, gli elementi valutativi inerenti gli uffici periferici dello Stato necessari all’esercizio delle funzioni di impulso, indirizzo e coordinamento da parte dello stesso Presidente e ne attua le determinazioni;

– formula, per l’ambito territoriale di competenza, proposte per un’efficiente organizzazione degli uffici periferici dello Stato ed una ottimale distribuzione delle risorse, che tenga conto delle esigenze di semplificazione delle procedure, di riduzione dei tempi dei procedimenti e di contenimento dei relativi costi in vista del raggiungimento di una migliore efficacia ed efficienza dell’azione amministrativa in periferia;

– favorisce e promuove le misure di coordinamento tra lo Stato e le autonomie locali;

– promuove e coordina le iniziative nell’ambito delle amministrazioni statali necessarie a dare attuazione alle leggi generali sul procedimento amministrativo, sulla cooperazione tra le pubbliche amministrazioni e sull’adeguamento tecnologico delle dotazioni strumentali degli uffici.   

                       In sede locale il prefetto conferma il suo ruolo di autorità di regolazione dei rapporti fra uffici statali ed enti locali con “l’obiettivo di guidare, indirizzare, condizionare“[99] l’attività di soggetti pubblici e privati e si rivela, altresì, quale titolare di un potere di ultima istanza poiché, qualora venga a conoscenza di disfunzioni o anomalie nell’attività di organi periferici dello Stato, tali da poter arrecare un grave pregiudizio alla qualità dei servizi resi alla collettività, può avviare l’intervento sostitutivo previsto dall’art. 7 del d.P.R. n. 180/2006[100]. E ciò dopo aver esperito preventiva attività di mediazione con gli attori interessati.

                       In tal modo si sottolinea il rilievo fondamentale del godimento dei diritti civili  e soprattutto di quelli sociali[101] da parte dei cittadini nonché delle funzioni di garanzia e di regolazione affidate allo stesso prefetto in provincia in ordine all’apprestamento e all’erogazione da parte dei soggetti pubblici dei livelli essenziali di prestazione degli stessi diritti civili e sociali[102].

                        Tale ruolo si rivela tanto più prezioso quanto più gli enti locali continuano ad accusare un “forte stress organizzativo e gestionale“ dovuto al decentramento e al processo di trasferimento di maggiori responsabilità politiche e amministrative dal centro del sistema ai governi regionali e locali[103].

                      In virtù di tale modello, lo Stato si è “riposizionato” sul territorio, considerando, così, “l’antica periferia come centrale nella nuova strategia istituzionale“ ed affermando, indirettamente, “la centralità della gente che abita il territorio e degli enti che gestiscono la cosa pubblica“[104].

                       Se, da una parte, si rinvengono, nel complesso panorama normativo, conferme del ruolo regolativo, di equilibrio e di garanzia del sistema svolto dal prefetto, anche con interventi di ultima istanza, d’altro canto non si può non rilevare che nell’Amministrazione dell’Interno va gradualmente tramontando il modulo in cui  “prevalgono i rapporti gerarchici, le decisioni (…) prese in modo unilaterale (senza il coinvolgimento, cioè, di altre parti che non siano i decisori)“  e si afferma sempre più il modello di un apparato che opera secondo modalità pattizie[105] in cui “prevale la flessibilità e la riduzione dei conflitti alimentando la cooperazione tra diversi attori ed in cui i contenuti delle decisioni sono negoziati e riflettono un certo  consenso”[106].

                      Utilizzando un’efficace strumentazione concettuale e descrittiva, ci avvediamo del graduale superamento dell’amministrazione razionale-legale di matrice weberiana e dell’acquisizione al patrimonio culturale del Ministero dell’Interno di modalità stipulative e pattizie nell’esercizio del potere, con la conservazione di un permanente orientamento alla norma[107].                                                                                                                                                                                                  

                       A questo punto, ricompaiono le suggestioni della teoria dell’equilibrio: la maestria del prefetto non consiste nel rinvenire una soluzione assecondando o facendo prevalere le ragioni di una parte, privata o pubblica che sia, ma nel guadagnare un punto di equilibrio in cui le ragioni legittime di ciascuno abbiano il giusto riconoscimento e in virtù del quale anche chi non appare vittorioso trovi una propria utilità almeno nella riduzione dello svantaggio. E ciò utilizzando tutta la gamma di strumenti giuridici ed informali di cui il prefetto può disporre “protocolli, contratti, progetti di rete, patti territoriali, programmi integrati, conferenze di servizi, accordi di programma e quanto altro la fantasia giuridica può immaginare per governare il territorio stando sul territorio, insieme con i soggetti che vivono in quel territorio e percepiscono forse meglio e direttamente i bisogni del cittadino“[108].

                        La caratteristica regolatoria qualifica pienamente la governance prefettizia e si inserisce[109] nel più vasto, articolato e “progressivo passaggio dallo Stato gestore allo Stato regolatore: diminuite le gestioni dirette da parte dei poteri pubblici, è venuta rafforzandosi l’esigenza di dettare regole precise per la gestione dei servizi di pubblica utilità“. In tale ottica “sono venuti sostanzialmente modificandosi i connotati complessivi dei poteri pubblici. Il loro ruolo sembra, infatti, sempre più orientato a forme di arbitrato tra soggetti pubblici e privati”[110].

                       Nel tentativo di definire i contorni dell’attività regolativa del prefetto, non può non richiamarsi la suggestiva immagine dell’amministrazione catalitica[111] che funge, cioè, da stimolo, sollecitazione, regia e coordinamento degli attori sociali ed economici[112].

                       Peraltro, l’esigenza di una funzione di regolazione è venuta  evidenziandosi quanto più si è incrementata la competizione fra agenzie pubbliche e semi-pubbliche[113]: “i sistemi amministrativi si trasformano in arene politico-burocratiche ove operano in reciproca competizione agenzie con interessi diversi e talora contrapposti a loro volta coalizzate con gruppi privati e con settori della classe politico partitica e parlamentare”[114].

                       Le caratteristiche regolative della governance prefettizia traspaiono anche da altri compiti. Quale autorità provinciale di pubblica sicurezza, responsabile “politico” dell’ordine pubblico e rappresentante del Governo in sede locale, il prefetto promuove lo scioglimento degli enti locali nei quali emergano elementi su collegamenti diretti o indiretti degli amministratori con la criminalità organizzata o su forme di condizionamento degli amministratori stessi che compromettono la libera determinazione degli organi elettivi e il buon andamento delle amministrazioni locali nonché il regolare funzionamento dei servizi alle stesse affidati ovvero che risultino tali da arrecare grave e perdurante pregiudizio per lo stato della sicurezza pubblica[115].                                                                                                                                

                        Potestà di promuovere il dissolvimento  dell’ente locale sono esercitabili dal rappresentante del Governo anche con riferimento alle esigenze imprescindibili di funzionalità per carenza degli organi monocratici o assembleari ovvero allorchè i Consigli compiano atti contrari alla Costituzione, attuino gravi e persistenti violazioni di legge nonché per gravi motivi di ordine pubblico[116].

                        Da tali accenni si evidenzia che, quando si corre il pericolo di una “rottura istituzionale”, cioè il sistema rischia di essere travalicato o messo in crisi a causa di eventi patologici, allora il prefetto può esercitare i propri poteri di intervento riallineando il sistema stesso mediante attività ed iniziative in grado di ricondurre in termini tendenzialmente fisiologici la situazione critica e di garantire le libertà civili e il contesto istituzionale e democratico. In questi casi, il ruolo equilibratore e regolativo dei processi e delle relazioni svolto dal prefetto tende ad assicurare che il confronto, non solo politico, e la coesistenza sociale ed economica fra i cittadini continuino a svolgersi e si mantengano nell’ambito di regole sancite ed accettate da tutti, utilizzando modalità corrette e in un’arena istituzionale.

                      Il singolare e prezioso ruolo di “organo di chiusura”[117] del sistema, di autorità, cioè, che vigila per garantirne la decompressione qualora si pervenga ad un livello critico, riconferma la funzione regolatrice dei processi e dei comportamenti continuamente svolta dal vertice prefettizio (beninteso, non nel senso che pone le regole ma che attraverso i poteri di governance tende ad equilibrare le posizioni fra interessi talora contrapposti nell’ottica della “tenuta” dell’Ordinamento); esso, inoltre, riconduce gli antagonismi non cooperativi verso una logica positiva in cui ciascun competitore viene coinvolto, a prescindere dalla posizione di forza e di prevalenza, e dirige un processo inclusivo in cui si valorizzano le singole posizioni.

                       E ciò è tanto più vero quanto più il canone costituzionale della sussidiarietà verticale ed orizzontale ha bisogno di un riferimento terzo, di un’autorità di regolazione e di equilibrio, di sintesi fra le diverse istanze presenti in sede locale[118].

                       Quale autorità regolatrice ed equilibratrice di ultima istanza, il prefetto dispone, altresì, di un potere particolarmente penetrante: il potere di emanare provvedimenti di urgenza e di necessità, ex art. 2 del Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza, a tutela di beni, situazioni, diritti dei cittadini per circostanze non altrimenti previste dagli strumenti giuridici consueti[119].

                       Si tratta di un potere assai incisivo e illimitato, per quel che concerne le materie cui può indirizzarsi, anche se, ovviamente, da esercitare nell’ambito dei principi costituzionali e dell’ordinamento giuridico[120]. Le ordinanze in argomento, sulle quali lungamente ed approfonditamente si sono soffermate la dottrina e la giurisprudenza, rappresentano, quindi, uno strumento di “chiusura e garanzia dell’Ordinamento”[121] nella disponibilità di un’autorità cui compete la responsabilità di azionarle.

                        Il prefetto funge da regolatore  anche quando rischiano di essere compromessi i diritti civili e sociali della persona che vanno tutelati anche in caso di calamità naturali o che sono minacciati da attività di protesta o di astensione dal lavoro.

                      Quale autorità provinciale di protezione civile, ai sensi dell’art. 14 della legge 24 febbraio 1992 n. 225[122], e responsabile della direzione delle operazioni di emergenza e soccorso in sede provinciale, il rappresentante del Governo e responsabile dell’ordine e della sicurezza pubblica assicura che le attività di tutela della vita e dei beni delle persone si svolgano con tempestività ed efficacia e per questo dispone, altresì, di speciali poteri d’ordinanza, secondo il citato art. 14. Con ciò riconfermandosi che, anche in situazioni eccezionali o diultima istanza, il suo compito consiste nell’evitare che l’Ordinamento venga contraddetto o sovvertito, qualora non si approntino interventi e risposte immediate; cerca di evitare, in buona sostanza,  il deragliamento del “sistema” a causa della sua delegittimazione.

                       Il prefetto, nell’adempimento di tale fondamentale mission, svolge, altresì, un’insostituibile azione di “cerniera” fra le risorse e le forze statali e quelle degli enti territoriali in un’ottica di integrazione e implementazione reciproca, senza, in alcun modo, determinare ipotesi di sovraordinazione di un’autorità sulle altre, alla luce della consolidata tendenza dell’Ordinamento e delle indicazioni anche del legislatore costituzionale[123].

                       Le attività a garanzia del godimento dei diritti della persona costituzionalmente tutelati (alla vita, alla salute, alla libertà ed alla sicurezza, alla libertà di circolazione, all’assistenza e previdenza sociale, all’istruzione ed alla libertà di comunicazione) in caso di esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali, ex artt. 1 e 2 della legge 12 giugno 1990, n. 146, contribuiscono, infine, a  disegnare la figura di un prefetto regolatore che, in un agone di interessi contrapposti e confliggenti, cerca di mediare[124] e di trovare un punto di equilibrio da cui ciascun contendente acquisisca una qualche utilità, secondo la teoria di Nash. In caso di impossibilità di giungere ad una soluzione condivisa, secondo i criteri cui si è fatto cenno, esperita la c.d. procedura di raffreddamento, rimane al prefetto, quale autorità di garanzia e di ultima istanza, l’esercizio del potere di ordinanza per salvaguardare le prestazioni indispensabili ai sensi dell’art. 8 della legge citata, in misura adeguata alla tutela dei diritti della persona.

 

 

5- L’espansione della regolazione e l’arretramento dello Stato.

 

                       Occorre, a questo punto, ampliare l’angolo visuale da cui sono state osservate le significative modificazioni e innovazioni organizzative e funzionali intervenute nella struttura centrale e periferica del Ministero dell’Interno. Esse, infatti, si inseriscono nel quadro di più estesi cambiamenti dell’Ordinamento i cui contorni sono riferibili ad un sensibile arretramento dello Stato, dopo una fase di espansione coincisa con l’affermazione dello Stato sociale ed interventista[125].

                       Si è registrata, in sostanza, una trasformazione significativa delle funzioni statali, a seguito del passaggio ad una terza fase di sviluppo dello Stato moderno[126], dopo quella, tipica dello Stato liberale, funzionale al rafforzamento e mantenimento dell’ordine sociale (in cui erano prevalenti le funzioni d’ordine) e quella dello Stato sociale[127](in cui si privilegiavano le funzioni d’intervento): si è pervenuti ad una fase, cioè, in cui l’organizzazione statuale svolge un ruolo prevalentemente incentrato sulla regolazione, sulgoverno e sul coordinamento.

                      Appare opportuno osservare che, storicamente, la funzione regolativa è cresciuta gradualmente insieme a quella di produzione di beni e servizi  ed in modo parallelo alla progressiva espansione dello Stato nell’economia e nel tessuto sociale e produttivo[128].

                      La funzione in esame si è “espansa progressivamente nel corso della storia amministrativa, rappresentando il tratto caratterizzante del modo di fare le politiche pubbliche“[129].

                       “L’espansione della regolazione e del ruolo diretto delle pubbliche amministrazioni nella produzione delle politiche pubbliche entrò in crisi negli anni Ottanta e venne sottoposta ad una drastica revisione nel corso degli anni Novanta“[130].

                        I poteri pubblici si ritirarono[131] dal ruolo centrale ed autoritario che avevano storicamente assunto[132] e lo Stato prese ad assumere soprattutto una “funzione di regolazionedei processi nei quali i diversi interessi competono e cooperano“[133]. In tal modo tendeva a diminuire il coinvolgimento diretto dello Stato mentre si accresceva vieppiù il ruolo di regolazione e valutazione dell’operato dei soggetti pubblici e privati[134].

                        E’ importante segnalare che il riallineamento delle funzioni pubbliche a favore della ricomposizione di una figura più leggera e meno invasiva dello Stato ha “liberato energie nelle pubbliche amministrazioni (…..) e al tempo stesso ha spinto la società ad uscire da un certo immobilismo ‘statalista’ che l’aveva caratterizzata per più di un secolo“[135].

                       Non può non intravedersi in tale ultimo fenomeno anche una graduale ripresa dell’iniziativa da parte delle forze sociali e dei corpi intermedi sull’onda della consacrazione costituzionale del principio di sussidiarietà[136]nella sua accezione orizzontale.

                       Il riequilibrio delle funzioni pubbliche[137] è avvenuto, quindi, grazie all’arretramento dello Stato dai compiti di gestione diretta e in virtù del contestuale rafforzamento della capacità di regolazione dei comportamenti e delle attività degli attori della società sia pubblici che privati[138].

                      Appare, allora, riduttivo identificare  il vertice dell’amministrazione periferica del Ministero dell’Interno, cioè il prefetto, semplicemente  come  attributario  di  funzioni d’ordine[139] o definitorie[140] tipiche degli Stati liberali che, secondo un’iconografia talora abusata, ingesserebbero la figura in una camicia di forza soffocante rispetto al ruolo che si è venuto positivamente delineando.      

                      Una volta ricondotta la funzione regolativa e di equilibrio del sistema[141], contenuto della governance prefettizia, nell’ambito delle funzioni fondamentali dello Ordinamento, ci si deve, ora, soffermare brevemente sulla sua natura e, anche in questo caso, senza alcuna pretesa esaustiva.

                       C’è da dire preliminarmente che essa non attiene esclusivamente a funzioni di controllo ed enforcement in linea generale, anche se l’attività regolativa viene comunemente intesa come potere di direttiva e di verifica dell’ottemperanza da parte dei destinatari, pubblici o privati, ai criteri indicati dall’autorità.

                      In realtà, l’attività di regolazione del prefetto attiene proprio all’esercizio della governance, cioè all’esplicazione da parte dello stesso dell’arte di governare e dirigere i processi, secondo modelli di equilibrio e di salvaguardia dell’Ordinamento, soprattutto quando vi siano situazioni di conflitto o di crisi: un equilibrio non statico ma produttivo, fecondo di risultati, anche a favore dell’antagonista, che non appare prevalere ma che, pure, gioca il proprio ruolo di attore.

                         E’ stato rilevato che un “nuovo bisogno di regolazione (…) si manifesta con il passaggio dall’erogazione diretta di beni e servizi attraverso le imprese e i monopoli pubblici (lo Stato ‘gestore’) al modello basato sull’intervento indiretto, in cui lo Stato (che diventa ‘regolatore’) agisce da arbitro rispetto agli interessi in gioco e garantisce (nuovi) diritti fondamentali dei cittadini“[142]. Si può registrare una tendenza generale al passaggio dallo Stato gestore allo Stato regolatore ed è chiaro che si tratta di “un’evoluzione non tanto di singoli Paesi, quanto generale, quanto meno a tutti gli Stati membri dell’UE”[143].

                      Se a questa esigenza di regolazione[144], ormai diffusamente percepita, si associa l’arretramento dello Stato[145], come detto, non si può non registrare la necessità di un’autorità che, in sede locale, svolga compiti di regolazione a tutela dei diritti fondamentali ed, indirettamente, di mantenimento delle condizioni di equilibrio del sistema: compiti attivi, di mediazione, di intervento, di moral suasion mercè l’utilizzo sia delle potestà, anche di ultima istanza, previste dall’Ordinamento sia delle attribuzioni tipiche del rappresentante del Governo. 

                       L’attività regolativa del prefetto è peculiarmente contraddistinta dalla terzietà, tratto caratterizzante, invero, anche le Autorità indipendenti[146].

                       Con il termine terzietà[147]si descrive un elemento di tipo strutturale poiché il soggetto pubblico regolatore è estraneo al rapporto fra altri soggetti pubblici o privati. Perciò, “il concetto di terzietàrichiama con immediatezza la posizione di una persona diversa dai soggetti in campo che si sente, però, coinvolta nella disputa e nel confronto senza assumere una posizione a favore di una o dell’altra parte“[148].

                       Si tratta, cioè, di una persona, come si suole dire terza, chiamata ad un’attività regolativa tra le parti, identificata come soggetto che cura l’interesse generale.       

                      “L’imparzialità, poi, è la sostanza della terzietà perché implica un profilo attivo e non passivo, di inclusione e non di esclusione da una situazione, di giudizio e non di agnosticismo, di presenza e non di assenza, di responsabilità e non di fuga, di cura dell’interesse generale e non di quello particolare”[149].

                         L’imparzialità esige in sostanza il coinvolgimento attivo che è tipico della posizione di terzietà in contrapposizione all’indifferenza che contraddistingue invece la neutralità. L’imparzialità del funzionario, canone costituzionale dell’agire amministrativo, è presupposto per produrre quel buon andamento della pubblica amministrazione indispensabile per lo sviluppo e il progresso dell’intera Nazione al cui esclusivo servizio devono sentirsi vincolati i pubblici funzionari[150].

                         Appare, pertanto, curiosamente appropriata al ruolo prefettizio una mission analoga, seppur collocata in diversa prospettiva funzionale, a quella delle Autorità indipendenti e cioè “il compito di prevenire condotte lesive degli interessi collettivi attraverso un’azione articolata di controllo e di regolamentazione diretta a definire (…) una deontologia pubblica“[151].

 

 

6- Note conclusive.

 

                        Emerge, allora, in maniera prepotente, un particolare stile di governance prefettizia volutamente non fondato solo sulla gerarchia ma basato, invece, sulla delicata attività di regolazione dei processi e delle relazioni degli attori pubblici fra di loro, alla luce del canone di leale collaborazione, e con i soggetti privati nonchè sul loro coordinamento dinamico, ispirato al principio-cardine di sussidiarietà: quindi governance sta per good governance[152].

                       In un quadro istituzionale ancora in movimento fra scenari di federalismo[153], più o meno spinto, e nuove ipotesi di regionalismo, fondate sulle possibilità di autonomia disegnate dal nuovo testo dell’art. 116, comma 3, Cost. si svela insopprimibile l’esistenza di un’autorità che eserciti funzioni di regolazione giusta e saggia dei processi e delle relazioni e svolga compiti di mantenimento dell’equilibrio del sistema.

                        In tale scenario cresce l’esigenza di “una rete delle reti di rapporti, di cuciture e ricuciture istituzionali, di soggetti che in posizione di terzietà siano abilitati e legittimati a mediare e a fare sintesi dei vari interessi presenti che rischierebbero alla fine di essere compressi da un confuso policentrismo di poteri, troppo annodato e condizionato da un’impropria visione del particolare, sovente cieca o poco aperta al bene pubblico generale”[154].

                        Ci si è limitati a porre l’accento su alcune problematiche che, oltre a segnalare, per così dire, l’attuale utilità sociale del prefetto, valgano a prefigurare, con grande umiltà, nuove frontiere e nuove responsabilità: si apre, perciò, una stagionedi nuovi doveri[155], illuminata dal desiderio di servire il bene comune, e di nuove esaltanti responsabilità.

                        A ciascuno il compito di conservare la coscienza dell’inestinguibile esigenza di ricominciare, ogni mattina, a costruire con umiltà e determinazione la società di cui tutti facciamo parte, ognuno con il proprio compito ed il proprio ruolo, nella tensione a valorizzare l’apporto di ogni individuo perché da questo nasce il benessere di tutti.

                                                                                          


 

 


 

 

[1] Nel testo è stato riesumato l’antico termine usato da Dante nel Convivio, IV, IX, 10 in luogo di governance, come han fatto, peraltro, scrittori politici italiani. A tal riguardo, S. Battaglia, (a cura di), Grande dizionario della lingua italiana, Utet, Torino, 1970, pag. 997 e recentemente M. Talò, L’Europa potenza civile, Roma-Bari, Editori Laterza, 2004, pag. IX. Vedasi in tal senso F. Raniolo, Network organizzativi e governance democratica,, in AA. VV., (a cura di R. D’Amico), L’analisi della Pubblica Amministrazione, vol. III, pag. 26 in corso di pubblicazione presso F. Angeli editore  e L. Bobbio, I governi locali nelle democrazie contemporanee, Roma-Bari, Editori Laterza, 2002, pag. 12. Gli scienziati della politica distinguono la nozione di governance, cioè l’attività o, meglio, l’arte di governare, da quella di government che identifica l’istituzione o l’organo monocratico di vertice di un sistema politico-amministrativo. A tal riguardo, vedasi diffusamente F. Raniolo, Network organizzativi e governance democratica, cit., pag. 22 e segg. Sull’argomento, anche P. Le Galès, La nuova political economy delle città e delle regioni, in Stato e Mercato, n. 1, 1998, pagg. 53-91 il quale distingue government inteso come meccanismi tradizionali di governo da governance riferita a nuove forme di regolazione territoriale basate su accordi fra soggetti pubblici e privati.

[2] La teoria dei giochi analizza situazioni di conflitto e ne ricerca soluzioni competitive e cooperative tramite modelli; è, in sostanza, uno studio delle decisioni individuali in situazioni in cui si verificano interazioni tra i diversi soggetti tali per cui le decisioni di un attore possono influire sui risultati conseguibili da parte di un antagonista secondo meccanismi di retroazione.“Un gioco è un modello stilizzato che descrive situazioni di interazione strategica, dove il risultato ottenuto da un agente dipende non solo dalle sue azioni ma anche dalle azioni di altri agenti (…) L’elemento costitutivo della teoria dei giochi è la nozione di gioco. Un gioco consiste di un insieme di giocatori, un insieme di regole (chi può far cosa e quando) e un insieme di funzioni di payoff (l’utilità che ogni giocatore ottiene in corrispondenza di ogni possibile combinazione di strategie)”, secondo quanto sostiene L. Cabral, Economia industriale, Roma, Carocci, 2000, pagg. 69-70.

[3] Vedansi, fra gli altri, S. Nasar, Il genio dei numeri. Storia di John Forbes Nash jr., matematico e folle, Milano, Rizzoli, 2002 e, soprattutto, J. Nash, Giochi non cooperativi e altri scritti, Bologna, Zanichelli, 2004.

[4] Uno degli esponenti di tale indirizzo è Herbert Marcuse il quale, nel libro L’uomo ad una dimensione, Torino, Einaudi, 1967, pag. 12, sostiene che la coesistenza pacifica fra gli Stati non può essere determinata dalla costante, reciproca minaccia di guerra e di sopraffazione.

[5] La nascita della teoria dei giochi  viene fatta coincidere con l’uscita, nel 1944, del libro Theory of Games and Economic Behavior di Johnvon Neumann, matematico, e Oskar Morgenstern, economista, anche se altri,      Ernst Bermelo e Armand Borel, avevano già scritto sull’argomento. In sostanza, Nash teorizza che le scelte dei partecipanti al gioco avvengono in base a regole costanti e nel tentativo di massimizzare il guadagno sia in un gioco da tavolo, sia di carte ma anche in un affare diplomatico o in una contrattazione economica. I giocatori possono operare una scelta dalla quale tutti possono trarre un vantaggio o grazie alla quale possono ridurre lo svantaggio al minimo. La teoria dell’equilibrio nei giochi non cooperativi si distingue dalla teoria dei giochi ‘a somma zero’ poiché quest’ultima, precedentemente elaborata da von Neumann, prevedeva la vittoria totale di uno dei due (unici) partecipanti accompagnata dalla piena sconfitta dell’altro. 

[6] Alcune strategie mutuate dalla teoria dei giochi sono l’arranging, ovvero particolari soluzioni organizzative per agevolare l’interazione fra gli attori, il brokerage, cioè l’attività volta a mettere in relazione i vari attori, le loro problematiche e le relative soluzioni,la facilitation, vale a dire la creazione della situazione più favorevole per far emergere il consenso nell’ambito di relazioni complesse, ed infine la mediazione in senso stretto, che suppone l’esistenza di una situazione conflittuale fra attori. Vedasi, a tal riguardo, fra gli altri, A. Morini, Riflessioni sul ruolo dell’U.T.G. nella governance locale in Amministrazione Pubblica, n. 16, novembre-dicembre 2000, pag. 65.

[7] Si possono registrare assonanze con le affermazioni fondamentali del padre dell’economia moderna, il filosofo morale scozzese Adam Smith, famoso, fra l’altro, per l’idea della mano invisibile secondo cui il sistema economico non richiederebbe interventi esterni per regolarsi, essendo autonomamente in grado di garantire l’ordine sociale satisfattivo dell’interesse generale. P. Fantozzi, Politica e regolazione sociale, in AA. VV., (a cura di A. Costabile, P. Fantozzi e P. Turi), Sociologia Politica, Roma, Carocci, 2006 pag. 17 rileva che Smith “si sforza di mostrare come il mercato è in grado di ricondurre una miriade di spinte mosse da interessi individuali ad un vantaggio collettivo” (…) “ e che ha “al suo interno la capacità di autoregolarsi, cioè di ritornare continuamente in equilibrio” secondo un convincimento positivista tratto dalle scienze naturali. Secondo Smith un gruppo ottiene il miglior risultato quando ciascuno fa ciò che è meglio per se stesso; Nash supera questa concezione perché “il risultato migliore si ottiene quando ogni componente del gruppo fa ciò che è meglio per sé e per il gruppo”: così riporta S. Nasar, Il genio dei numeri…, cit., pag. 95.

[8] S. Nasar, Il genio dei numeri…, cit., pag. 87 riferisce che J. Ordeshook, un collega del premio Nobel, ha scritto che “il concetto di equilibrio di Nash è forse l’idea più importante nella teoria dei giochi non cooperativi. Se analizziamo le strategie di elezione dei candidati, le cause delle guerre, la manipolazione degli ordini del giorno nelle legislature, le azioni delle lobby, le previsioni circa gli eventi si riducono ad una ricerca o ad una descrizione degli equilibri. Detto in altri termini e banalizzando, le strategie di equilibrio sono tentativi di predizione a riguardo del comportamento degli attori”.

[9] L. Cabral, Economia industriale, cit., pag. 76.

[10] I giochi “a somma zero”, approfonditi da von Neumann, postulano la condizione di unicità dei competitori e la circostanza che il successo di uno dei due (unici, per l’appunto) partecipanti è totale e comporta la sconfitta dell’altro. Nash estende la teoria dei giochi ad un numero arbitrario di partecipanti e tende ad individuare la strategia più razionale che si può adottare quando si compete con avversari razionali. Dimostra che esiste sempre una situazione di equilibrio che si ottiene quando l’agente (o gli agenti) che partecipa al gioco compie la sua scelta strategica in modo da massimizzare la sua funzione di retribuzione. L’equilibrio di Nash identifica una situazione nella quale nessun agente razionale ha interesse a cambiare strategia.

[11] Il dilemma del prigioniero è l’esempio tipico utilizzato per illustrare il concetto di equilibrio di Nash. Proposto negli anni Cinquanta del secolo scorso da A. Tucker, è noto al pubblico non tecnico come paradigma del paradosso. Il dilemma può essere descritto come segue. Due criminali sono accusati di aver compiuto una rapina. Gli inquirenti li arrestano e li rinchiudono in due celle diverse impedendo loro di comunicare. A ciascuno vengono date due scelte (o strategie), confessare il crimine o non confessare, e viene loro spiegato che:

·         se entrambi non confessano, avranno una pena di un anno di carcere;

·         se entrambi confessano, verranno condannati a sei anni;

·         se faranno scelte diverse, quello che confessa avrà la libertà e l’altro verrà condannato a sette anni di detenzione.

Se entrambi conoscono queste regole e non prendono accordi, la scelta che corrisponde all’equilibrio di Nash è la confessione per entrambi. Il motivo risiede nell’esigenza per ciascuno dei due di minimizzare, per quanto possibile, la loro condanna. A tal riguardo vedansi L. Cabral, Economia industriale, cit., pag. 72 e G. Sola, I paradigmi della scienza politica, Bologna, il Mulino, 2005, pag. 192. 

[12] Vedansi A. La Spina e G. Majone, Lo Stato regolatore, Bologna, il Mulino, 2000, pag. 28 i quali analizzano la problematica nell’ottica economico-finanziaria.

[13] P. Fantozzi, Politica e regolazione sociale, cit., pag. 365 rileva che “le teorie della regolazione hanno radici in molte discipline: la filosofia, la teologia, il diritto e tutte le scienze sociali”. Continua affermando che “la teoria della regolazione per le scienze sociali nasce con la teoria dei sistemi e si lega al concetto di equilibrio sistemico. Si possono distinguere almeno due modi di intendere la regolazione. E’, infatti, possibile individuare una regolazione politica, di cui si sono occupati prevalentemente i politologi. Questi ultimi distinguono tra politiche regolative, intese come un campo specifico delle scienze sociali, e regolazione che è da intendersi come uno dei diversi modi in cui i governi cercano di controllare la società e la condotta individuale”, secondo quanto sostiene T. Lowi, La scienza delle politiche, Bologna, il Mulino, 1999, pag. 337.(…) “Il secondo modo di intendere la regolazione adotta una prospettiva di analisi dal basso; si parla di regolazione sociale quando i soggetti da cui essa deriva sono le comunità, il mercato, e i gruppi di interesse”.

[14] Cfr. B. M. Mitnick, The Political Economy of Regulation, New York, Columbia University Press, 1980 indica- to in A. La Spina e G. Majone, Lo Stato regolatore, cit., pag. 27. Lo stesso Autore afferma che la regolazione è una guida con mezzi amministrativi pubblici (public administrative policing) di un’attività privata secondo una regola statuita nell’interesse pubblico.

[15] Cfr. P. Fantozzi, Politica e regolazione sociale, cit., pag.373. Lo studioso esamina, in particolare, il pensiero di J. March e J. P. Olsen, Riscoprire le istituzioni, Bologna, il Mulino, 1992 e poi  riportando la classificazione di G. Giraudi, La regolazione: il concetto, le teorie, le modalità. Verso una tipologia unificante, in Rivista italiana di Politiche Pubbliche, n. 1, 2004, pagg. 57-86 rileva che, secondo la teoria neo-istituzionale, l’azione regolativa “consiste nell’insieme di norme e istituzioni che sono create al fine di influenzare il comportamento dei regolati” (ivi). Sulla teoria neo-istituzionale vedasi anche G. Sola, I paradigmi della scienza politica, cit., pag. 225 e segg.

[16] Vengono solitamente identificate tre forme di coordinamento sociale (Mayntz) o strutture di governo (Williamson) o di regolazione (Borzel): la gerarchia, il mercato, la rete. La prima garantisce il necessario coordinamento in virtù di un’autorità e dei poteri di cui essa dispone verso soggetti sovra e sottoordinati. Nella gerarchia si rinvengono, pertanto, vincitori e perdenti i quali subiscono gli effetti di una scelta prevalente. In tal senso, vedasi A. Morini, Riflessioni sul ruolo dell’U.T.G. nella governance locale, cit., pag. 65.

[17] Cfr. F. Raniolo, Network organizzativi e governance democratica, cit., pag. 26. L’Autore richiama i modelli descritti da B. Kohler e R. Eising, (a cura di), The trasformation of governance in European Union, London, Routlege, 1999, pag. 33.

[18] L. Bobbio, I governi locali nelle democrazie contemporanee, cit., pag. 17 afferma che “la rivoluzione francese si era proposta di spazzare via ‘i corpi intermedi’ tra lo Stato e i cittadini, che avevano caratterizzato l’ancien régime, in nome dell’uguaglianza dei cittadini e della prevalenza degli interessi generali della nazione sugli interessi particolaristici di singole comunità:’il principio di sovranità risiede essenzialmente nella nazione. Nessun corpo, nessun individuo può esercitare un’autorità che da essa non promani espressamente’ si legge infatti nell’art. 4 della dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789. E tale assunto poteva essere ribadito alla fine dell’Ottocento da uno dei maestri del diritto amministrativo francese: ‘la centralizzazione è imparziale come la legge, perché l’amministrazione vede le cose dall’alto e da lontano e non si immischia nelle liti di campanile”.

[19] L. Bobbio, I governi locali nelle democrazie contemporanee, cit., pag. 16.

[20] C. Mosca, L’anno del Bicentenario, in Amministrazione Pubblica, n.23-24, 2002, pag. 4.

[21] Secondo L. Bobbio, I governi locali nelle democrazie contemporanee, cit., pag. 15, “il modello francese viene comunemente chiamato ‘napoleonico’ anche se le sue basi furono gettate un decennio prima dell’avvento al potere del generale Bonaparte (…). Nel 1789 gli stati generali riuniti in assemblea nazionale crearono la nuova rete dei governi locali fondata su due livelli principali: il dipartimento e il comune (…). Nel giro di pochi anni quel sistema fu applicato a Italia, Spagna, Belgio, Paesi Bassi, Renania, Westfalia. Attraverso la Spagna esso si diffuse nei Paesi dell’America latina, attraverso la Francia nei Paesi dell’Africa nord-occidentale e fu adottato, per imitazione, da Turchia e Grecia“.

[22] Su questo tema, interessanti notazioni comparative in L. Bobbio, I governi locali nelle democrazie contemporanee, cit., pag. 13 e segg..

[23] S. Sepe, in S. Sepe, L. Mazzone, I. Portelli, G. Vetritto, Lineamenti di storia dell’amministrazione italiana (1861-2002), Roma, Carocci, 2003, pag. 21. L’Autore, peraltro, delinea un’efficace periodizzazione in cinque fasi dell’evoluzione degli apparati amministrativi. La prima ebbe origine con la legge Cavour indicata nel testo. La svolta si verificò in età giolittiana in concomitanza con una serie di trasformazioni profonde del tessuto economico-sociale e dell’architettura costituzionale del Paese e l’avvento dello Stato pluriclasse. Con l’ampliarsi delle funzioni degli apparati sorsero l’Azienda delle ferrovie e l’INA; fu emanata la legge sulle aziende municipalizzate erogatrici di servizi pubblici locali; si rafforzarono gli istituti di protezione sociale e fu emanato il primo statuto degli impiegati civili statali.

Dopo la grande guerra, la terza fase fu segnata dal tramonto dello Stato liberale e dall’ascesa del fascismo. Sulla base della scelta ‘interventista’ del regime si registrò una significativa espansione dell’intervento pubblico in campo economico (l’IRI fu istituita nel 1933) e proliferarono gli enti pubblici e le aziende di Stato sia per erogare servizi di tipo industriale sia per sostenere interessi di categoria.

Nonostante gli eventi drammatici degli anni Quaranta del secolo scorso e la successiva modifica dell’impianto costituzionale, l’assetto degli apparati amministrativi e dei relativi modelli restò praticamente immutato. Nel periodo repubblicano il modello ministeriale non subì sostanziali cambiamenti.

La quarta fase può identificarsi con il trasferimento delle funzioni statali alle Regioni a statuto ordinario nell’ultimo decennio del secolo decorso. Secondo l’Autore, al polimorfismo amministrativo, affermatosi a partire dagli anni Trenta del XX secolo con la proliferazione delle “amministrazioni parallele”, si affiancò, così, il policentrismo decisionale.

La quinta fase può essere rinvenuta nel processo d’innovazione avviato dal 1990 con il nuovo Ordinamento locale, con l’istituzione delle Autorità indipendenti, con le norme sul diritto di sciopero e sui servizi pubblici essenziali. Tale periodizzazione è condivisa ed adottata, in particolare, da AA. VV., (a cura di G. Capano ed E. Gualmini),  La pubblica amministrazione in Italia, Bologna, il Mulino, 2006, pag. 28.

[24] S. Sepe in AA. VV., Studi per la storia dell’Amministrazione pubblica italiana-Il Ministero dell’Interno e i Prefetti, in Quaderni della Scuola Superiore dell’Amministrazione dell’Interno, Roma, 1998, pag. 7.

[25] S. Sepe in AA. VV., Lineamenti di storia dell’amministrazione italiana (1861-2002), cit., pag. 8.

[26] Cfr., fra gli altri, G. Melis, Storia dell’amministrazione italiana (1861-1993), Bologna, il Mulino, 1996; S. Sepe, Amministrazione e storia. Problemi dell’evoluzione degli apparati statali dall’unità ai nostri giorni, Rimini, Maggioli, 1995; S. Cassese, Il prefetto nella storia amministrativa, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 1983, 4, pag. 1449; S. Cassese, L’evoluzione dell’istituto prefettizio, in Consiglio di Stato, 1990, 3, pag. 555; M. Vovelle, Il ruolo storico del Prefetto, in Instrumenta, 2001, 15, pag. 921; G. Balsamo e R. Lauro, Il prefetto della Repubblica, Rimini, Maggioli, 1992; C. Meoli, Il prefetto nell’ordinamento italiano, Firenze, Noccioli, 1984; C. Mosca, Una nuova identità per il funzionario di governo della carriera prefettizia, in Instrumenta, 2000, 11, pag. 353; R. Fried, Il prefetto in Italia, Milano, 1967; A. Cifelli, I prefetti della Repubblica (1946-1956), Roma, 1990; E. Gustapane, Il rapporto centro-periferia e l’istituto prefettizio, in Amministrazione pubblica, 2002, 28, pag. 16; E. Gustapane, (a cura di), Sulla storia dei Prefetti, Roma, 1994; G. Melis, Prefetti, ecco la storia, in Amministrazione civile, 2002, febbraio, pag. 26; F. S. Nitti, Sui Prefetti, in Instrumenta, 1999, 9, pag. 1219; M. Saija, I prefetti nella crisi dello Stato liberale, Milano, 2001.

[27] S. Sepe in AA. VV., Studi per la storia dell’Amministrazione pubblica italiana-Il Ministero dell’Interno e i Prefetti, cit., pag. 8.

[28] Cfr. S. Sepe in AA. VV., Studi per la storia dell’Amministrazione pubblica italiana-Il Ministero dell’Interno e i Prefetti, cit., pag. 10 e AA. VV., La pubblica amministrazione in Italia, cit., pag. 28.

[29] S. Sepe in AA. VV., Lineamenti di storia dell’amministrazione italiana (1861-2002), cit., pag. 17. Vedansi anche le documentate osservazioni di C. Mosca, L’anno del Bicentenario, in Amministrazione Pubblica, n.23-24, 2002, pag. 3 e segg.

[30] S. Sepe in AA. VV., Lineamenti di storia dell’amministrazione italiana (1861-2002), cit, pag. 17 in cui, fra l’altro, si trova la citazione, riportata nel testo, di A. Monti, Note sulla burocrazia. Attivo e passivo della burocrazia, in La rivoluzione liberale, 14, 7 maggio 1922.

[31] Cfr. M. Cammelli, La pubblica amministrazione, Bologna, il Mulino, 2004, pag. 46 ed AA. VV., La pubblica amministrazione in Italia, cit., pag. 57.

[32] M. Cammelli, op. cit., pag. 48 e AA. VV., op. ult. cit., pag. 29.

[33] S. Sepe in AA. VV., Studi per la storia dell’Amministrazione pubblica italiana-Il Ministero dell’Interno e i Prefetti, cit., pag. 11.

[34] M. Cammelli, La pubblica amministrazione, cit., pag. 51.

[35] M. Cammelli, op. cit., pag. 56.

[36] AA. VV. , La pubblica amministrazione in Italia, cit., pag. 57.

[37] M. Weber, Economia e società, Torino, Einaudi, 1999. E. D’Albergo, Politica e amministrazione nell’analisi sociologica: dallo Stato moderno alla governance neo-liberista, in AA.VV., Sociologia Politica, cit., pag. 96 afferma che il sociologo tedesco analizza sia la burocrazia, forma organizzativa dell’amministrazione, che la politica “disegnando tre tipi di potere –tradizionale, legale/razionale e carismatico- e collegando la burocrazia con il potere legale/razionale. Dunque, anche se ha avuto antecedenti negli antichi Stati imperiali, questo è un modello di organizzazione correlato con il capitalismo e con lo Stato occidentale moderno.(…) Lo Stato moderno è basato sulla divisione dei poteri, la spersonalizzazione del potere politico, la rappresentanza e la responsabilità dei governanti, l’espansione qualitativa e quantitativa dei compiti pubblici, il monopolio da parte di un’autorità centrale legalmente costituita dei mezzi di dominio e amministrazione (la coercizione, il controllo della forza a scopo militare e ad uso interno) del sistema fiscale e delle decisioni di carattere regolativo, distributivo e redistributivo. Questa organizzazione del potere richiede un corpo amministrativo che agisce in accordo con un ordinamento di regole legali soggetto al cambiamento solo attraverso la legislazione, mentre il rapporto fra centro e periferia degli Stati disegna una gerarchia istituzionale piramidale.(…) Weber tratteggia con ulteriore precisione il suo tipo ideale di burocrazia sottolineando principalmente:

·              la capacità di norme astratte e universali, emanate da un’autorità definita e disciplinata a sua volta da norme giuridiche, di governare le decisioni e le azioni. Le regole sono stabili, esaustive e possono essere apprese;

·              la chiara identificazione delle aree di competenza e la divisione delle responsabilità;

·              la regolarità e la formalizzazione delle procedure operative, al cui interno le attività sono distribuite come obblighi formali;

·              l’impersonalità delle relazioni sociali, che rispecchia quella del mercato capitalista;

·              la natura gerarchica delle relazioni sociali e fra gli uffici, che prendono la forma di una piramide di autorità, i cui flussi vanno dall’alto verso il basso;

·              la composizione sociale, formata da dipendenti selezionati sulla base della sola qualificazione tecnica e il cui rapporto con l’organizzazione è disciplinato dalla ‘carriera’ e da norme di garanzia, che definiscono una parte significativa del suo rapporto con la politica, proteggendo la burocrazia da arbitri e invasioni di campo;

·              la proprietà dei mezzi di produzione in capo all’amministrazione.

Con la crescita dimensionale, le organizzazioni tendono ad assumere una forma strutturale di tipo burocratico, che si presenta come soluzione razionale ed efficiente ai problemi di integrazione e coordinamento delle attività in presenza di una loro elevata divisione e differenziazione, permettendone la prevedibilità e la pianificazione. Questo spiega perché il modello burocratico si diffonda tanto nello Stato, quanto nella produzione economica, divenendo il paradigma organizzativo della modernità: nella società capitalista, la burocrazia rappresenta l’analogia organizzativa della ‘macchina’ industriale”.

[38] La burocrazia, in quanto modello organizzativo, comporta alcune caratteristiche sia strutturali che            comportamentali: 1) un’azione razionalmente orientata allo scopo; 2) l’applicazione imparziale o neutrale di     regole astratte; 3) il controllo e la produzione di regole specialistiche; 4) un’organizzazione formale gerarchica.

 Cfr a tale riguardo M. Weber, op. cit., pag. 213 indicata da F. Raniolo, Network organizzativi e governance democratica, op. cit., pag. 7.

[39] F. Raniolo, op. cit., pag. 7 e segg. nonchè M. Cammelli, La pubblica amministrazione, cit., pag. 73 e segg. ed AA. VV, La pubblica amministrazione in Italia, cit., pag. 17 e segg.

[40] F. Raniolo, op. cit., pag. 27.

[41] F. Raniolo,op. cit., pag. 9.

[42] F. Raniolo,op. cit., pag. 8.

[43] F. Raniolo, op. cit., pag. 10.

[44] AA. VV., La pubblica amministrazione in Italia, cit., pag.25.

[45] S. Sepe in AA. VV., Lineamenti di storia dell’amministrazione italiana (1861-2002), cit., pag. 16.

[46] “ E’ un processo complesso che solo apparentemente è guidato dalle medesime parole d’ordine ( New public management, Reinventing Government ) ma che, invece, pescando dalla medesima cassetta degli attrezzi ha prodotto assemblaggi diversificati nei diversi contesti nazionali. Nel caso italiano, il particolare mix modernizzatore può essere riassunto (…) con le seguenti parole chiave: a) decentramento; b) politiche autonomistiche; c) pluralismo organizzativo; d) managerialismo; e) contrattualismo. “ Così AA. VV., La pubblica amministrazione in Italia, cit., pag. 13 e dottrina ivi indicata.

[47] F. Raniolo, Network organizzativi e governance democratica, op. cit., pag. 11 e segg.

[48] Cfr. S. Belligni, Miss Governance, I presume, in Meridiana, n.50-51, pag. 181 citato in F. Raniolo, op. cit., pag. 22.

[49] Secondo F. Raniolo, op. cit., pag. 3 queste parole “riflettono la curvatura dello Stato moderno che, dopo una fase di espansione, che ha coinciso con l’affermazione dello Stato sociale ed interventista, è entrato in una fase recessiva”.

[50] E. D’Albergo, Politica e amministrazione nell’analisi sociologica…, op  cit., pag. 112 rileva che “le alternative al modello di government burocratico vengono ricercate entro modelli caratterizzati da un maggiore grado di cooperazione e dall’interazione tra lo Stato e gli attori non statuali all’interno di reti decisionali pubblico/private” secondo quanto sostiene R. Mayntz, La teoria della governance, sfide e prospettive, in Rivista Italiana di Scienza Politica, n. 1, 1999, pag. 3.

[51] M. Cammelli, La pubblica amministrazione, cit., pag. 129.

[52] M. Cammelli, op. cit., pag. 74.

[53] M. Cammelli, op. cit, pag. 129.

[54] M. Cammelli, op. cit, pag. 128.

[55] F. Raniolo, op. cit., pag. 26.

[56] M. Cammelli, La pubblica amministrazione, cit., pag. 74.

[57] M. Cammelli, op. cit., pag. 129.

[58] M. Cammelli, op. cit, pag. 127.

[59] Cfr., a tal riguardo, F. Raniolo, op. cit., pag. 11.

[60] Cfr. AA. VV., Lineamenti di storia dell’amministrazione italiana (1861-2002), cit., pag. 179.

[61] M. Cammelli, La pubblica amministrazione, cit., pag. 125.

[62] C. Mosca, Un ‘ponte’ tra lo Stato e le comunità, in Amministrazione civile, ottobre 2001, pag. 13. Vedasi anche S. Cassese, Gli uffici territoriali del governo nel quadro della riforma amministrativa, in Instrumenta, n.14, 2001, pag. 537 e segg.

[63] Cfr. a tal riguardo G. Amato e G. Marongiu, (a cura di), L’amministrazione della società complessa, Bologna, il Mulino, 1982.

[64] C. Mosca, Il Prefetto Rappresentante dello Stato (parte prima), in Amministrazione Pubblica, n.34, 2003,

pag. 4.

[65] F. Raniolo, op. cit., pag. 11.

[66] Al riguardo vedasi L. Bobbio, I governi locali nelle democrazie contemporanee, cit., pag. 132 e segg. nonché F. Raniolo, op. cit., pag. 30 e segg.

[67] Il pluralismo organizzativo, inteso, soprattutto, come processo di differenziazione dei tipi di apparati, è dipeso, in primo luogo, dall’incremento significativo delle funzioni pubbliche esercitate in un contesto nazionale caratterizzato da spinte strategiche verso il decentramento. Dal punto di vista della diversificazione tipologica, ad una diminuzione dell’utilizzo della forma dell’ente pubblico economico a favore della creazione di società per azioni a prevalenza pubblica, ha corrisposto un incremento di strutture quali agenzie amministrative nazionali e  ed una vasta gamma di organizzazioni regionali. E’ quanto viene sottolineato da AA. VV., La pubblica amministrazione in Italia, cit., pag. 14.

La differenziazione tipologica delle organizzazioni pubbliche e la loro conseguente frammentazione risale agli inizi della storia amministrativa unitaria quando, però, il fenomeno era originato dall’esigenza di rispondere a nuove istanze sociali a fronte di un arroccamento burocratico dei ministeri. Oggi, invece, “il potere pubblico sta cercando di rimodulare le proprie forme istituzionali di azione al fine di ridurre quel sovraccarico di domande che, concentrandosi sul centro del sistema, lo ha reso particolarmente inefficace” in AA. VV., La pubblica amministrazione in Italia, cit., pag. 15. A tal riguardo vedasi S. Sepe in AA. VV., Lineamenti di storia dell’amministrazione italiana (1861-2002), cit., pagg. 19, 20 e 22 nonché pag. 119 e segg. Sull’ampliamento delle funzioni pubbliche cfr. M. Cammelli, La pubblica amministrazione cit., pag. 30 e segg. e sul pluralismo organizzativopag. 64 e segg.

[68] AA. VV., La pubblica amministrazione in Italia, cit., pag. 15.

[69] M. S. Giannini, Diritto amministrativo, Milano, Giuffrè, 1993, pag. 232 e segg. sostiene che “con l’avvento dello Stato pluriclasse, l’amministrazione pubblica scoppiò. Si vuol dire con quest’espressione che mentre nel precedente tipo di Stato valeva la regola che l’area delle amministrazioni pubbliche dovesse essere quanto più limitata possibile (…) nel giro di pochi decenni accadde che quasi ogni attività umana trovò corrispondenza in una qualche pubblica amministrazione“.

[70]  In AA. VV., La pubblica amministrazione in Italia, cit., pag. 17 ci si riferisce “in particolare agli enti pubblici non economici, alle autorità indipendenti e alle agenzie amministrative”.

[71] AA. VV., Lineamenti di storia dell’amministrazione italiana (1861-2002), cit., pag. 180.

[72] “Il modello divisionale tipicamente diffuso nel settore privato prevede un’ampia autonomia del capo-divisione, una piena responsabilità delle risorse umane e finanziarie e un forte orientamento al risultato, cioè al cliente/utente”: così in AA. VV., La pubblica amministrazione in Italia, cit., pag. 17. Cfr. anche E. Gualmini, L’amministrazione nelle democrazie contemporanee, Roma-Bari, Editori Laterza, 2003.

[73] Cfr. G. Rebora, Un decennio di riforme, Guerini e Associati, Milano, 1999.

[74] AA. VV., La pubblica amministrazione in Italia, cit., pag. 17 e pag. 59 e segg.

[75] AA. VV., La pubblica amministrazione in Italia, cit., pag. 67.

[76] Ai sensi dell’art. 3 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300 il quale li prevedeva in via alternativa alle direzioni generali. Con il decreto legislativo n. 287/2002 è stata conferita la facoltà ai Dicasteri di optare per il modello organizzativo dipartimentale o per quello configurato in direzioni generali.

[77] In tal senso si esprime anche l’art. 1 del decreto del Presidente della Repubblica 3 aprile 2006, n. 180, regolamento recante disposizioni in materia di prefetture-uffici territoriali del Governo.

[78] Secondo le Linee-guida per l’attuazione del nuovo modello organizzativo-Prefetture-U.T.G., pag. 4 dell’allegato B del decreto del Ministro dell’Interno 4 agosto 2005, l’organizzazione per processiè una lean organization, un’organizzazione piatta che, operando secondo il principio di semplicità, cerca di conseguire “la migliore risposta alla complessità dell’ambiente esterno e dei rapporti umani all’interno dell’organizzazione“ in virtù “della semplicità della struttura organizzativa, con la riduzione al minimo dei livelli gerarchici e la semplificazione di norme e regole“. E, ancora, a pag. 7, viene rilevato che “il modello dell’organizzazione per processi, fondato sui principi di semplicità, autonomia, flessibilità e governo attraverso la cultura permette di rispondere alla complessità della realtà contemporanea in modo molto più efficace rispetto ai tradizionali modelli gerarchico-funzionali. Ciò in quanto le unità di livello operativo sono progettate intorno ai processi e non ai compiti, con il superamento della rigidità delle mansioni e una tendenziale polifunzionalità degli operatori i quali hanno la responsabilità dei processi in modo integrale dall’inizio alla fine e detengono le competenze necessarie a gestirne in autonomia e senza interruzioni tutte le fasi, favorendo così la capacità di ascolto, di risposta e di relazione diretta con il cittadino e l’ambiente di riferimento”.   

[79] Secondo le previsioni dell’art. 15 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300 e dell’art. 2 del decreto del Presidente della Repubblica 7 settembre 2001, n. 398, i dipartimenti sono quattro: Dipartimento per gli affari interni e territoriali, Dipartimento della pubblica sicurezza- peraltro già istituito dall’art. 4 della legge 1 aprile 1981, n. 121-, Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione, Dipartimento dei vigili del fuoco, del soccorso pubblico e della difesa civile. Le strutture dipartimentali sono state elevate a cinque dal d.P.R. 18 marzo 2006 n. 154 con l’istituzione del Dipartimento per le politiche del personale dell’amministrazione civile e per le risorse strumentali e finanziarie.

[80] Decreti del Presidente della Repubblica 7 settembre 2001, n. 398, per gli uffici centrali, e 21 marzo 2002, n. 98 per gli uffici di diretta collaborazione del Ministro dell’Interno.

[81] Fra gli altri, degni di nota sono il decreto legislativo 21 gennaio 2004, n. 29 nonché i decreti del Presidente della Repubblica 17 maggio 2001, n. 287 e 3 aprile 2006, n. 180.  

[82] Secondo il disposto dell’art. 11 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300 come novellato dall’art. 1 del decreto legislativo 21 gennaio 2004, n. 29.

[83] Per gli uffici periferici sono “previste due distinte tipologie di unità organizzative di livello operativo: le Aree Funzionali e i Servizi. Entrambe le tipologie di unità sono organizzate per gestire processi. Pertanto, a ciascuna Area Funzionale ed a ciascun Servizio corrispondono ruoli organizzativi di management di processo (…). Le Aree gestiscono di regola processi operativi o finali il cui output è quindi destinato ad un cliente esterno (…). I Servizi gestiscono di regola processi strumentali o di supporto, il cui output è quindi destinato ad un cliente interno“: così in Linee-guida, cit., pag. 11 e segg. A ciascuna delle Aree Funzionali, indicate nell’allegato A al decreto legislativo 19 maggio 2000, n. 139, corrisponde una missione istituzionale che è parte del core business del Ministero dell’Interno, missioni istituzionali attribuite al Ministero dell’Interno dall’art. 14 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300.

[84]Secondo gli artt. 1 e 2 del decreto legislativo n. 139/2000 la carriera prefettizia è “unitaria in ragione della natura delle specifiche funzioni dirigenziali attribuite ai funzionari che ne fanno parte“ e viene rimodulata in tre sole qualifiche dirigenziali (prefetto, viceprefetto, viceprefetto aggiunto).

[85] In tal senso F. Raniolo, op. cit., pag. 11 già indicato supra.

[86] Prevista dall’art. 14 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 e dall’art. 8 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 286.

[87] Secondo l’art. 16 del decreto legislativo 19 maggio 2000, n. 139 e gli artt. 5 e 6 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 286.

[88] Ai sensi dell’allegato B, pag. 19 del decreto del Ministro dell’Interno 4 agosto 2005 rimangono attribuiti al prefetto le funzioni inerenti alla responsabilità politica di autorità provinciale di pubblica sicurezza; i compiti di garanzia della funzionalità degli enti locali nonché quelli di intervento sostitutivo nei servizi di interesse statale esercitati dai Comuni, compreso il servizio elettorale; la gestione delle emergenze e l’adozione delle ordinanze di necessità e di urgenza; la determinazione a promuovere giudizi o a transigere; l’adozione dei provvedimenti di espulsione dello straniero nonché dei provvedimenti di acquisto della personalità giuridica delle associazioni, delle fondazioni e delle altre istituzioni di carattere privato.

[89] Vedasi C. Meoli, Il ruolo del Prefetto dopo le riforme amministrative e costituzionali, in Amministrazione Pubblica, n.39-40, 2004, pag. 49 e segg.

[90] Per le coordinate teoriche, vedasi ampiamente L. Bobbio, I governi locali nelle democrazie contemporanee, cit., pag. 132 e segg. nonché il rilevante contributo di F. Raniolo, Network organizzativi e governance democratica,  cit., pag. 30 e segg.

[91] Cfr. M. Cammelli, La pubblica amministrazione, cit., pag. 87 e segg. e AA. VV., Lineamenti di storia dell’amministrazione italiana (1861-2002), cit., pag. 159 e segg.

[92] Indicazioni in tal senso sono presenti da tempo nella nostra legislazione a cominciare dalla legge n. 15 marzo 1997 n. 59, c.d. Bassanini, che, all’art. 3, comma 1 lett. c), postula l’individuazione di meccanismi e procedure per il raccordo e la cooperazione fra i diversi livelli di governo sul territorio. Decisivo rilievo ha, poi, l’attribuzione in capo al prefetto, quale organo di rappresentanza dello Stato in sede periferica, delle funzioni di raccordo, supporto e collaborazione con le Regioni e gli enti locali, alla luce dell’art. 12, comma 1 lett. h) della stessa legge n. 59.

[93] Cfr. M. T. Sempreviva, I poteri di coordinamento e di raccordo nel nuovo assetto della prefettura-UTG, in Itinerari interni, n. 13, 2005, pag. 13.

[94] L. Bobbio, I governi locali nelle democrazie contemporanee, cit., pag. 132.

[95] La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 341, già nel 1996 definiva il principio della leale collaborazione con le autonomie territoriali come un fattore permanente di composizione unitaria del disegno autonomistico. Il criterio è, ora, affermato nell’art. 2, comma 4, lett. d) della legge 5 giugno 2003, n. 131, recante, com’è noto, disposizioni per l’adeguamento dell’Ordinamento alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3.

[96] C. Mosca, Il Prefetto Rappresentante dello Stato (sesta parte), in Amministrazione Pubblica, 43-44, 2005, pag. 3 e segg.

[97] Ibidem.

[98] Istituiti dall’art. 17 del decreto legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito nella legge 12 luglio 1991, n. 203, soppressi con l’art. 16 del decreto del Presidente della Repubblica 17 maggio 2001, n. 287 e sostituiti dalle Conferenze permanenti.

[99] Cfr. F. Raniolo, Network organizzativi e governance democratica, op. cit., pag. 5.

[100] Su tale argomento vedasi M. T. Sempreviva, Le nuove funzioni del Prefetto a garanzia dell’unitarietà della Repubblica, in Itinerari interni, n. 9, 2004, pag. 37 e segg.

[101] I diritti civili e sociali sono espressamente richiamati nel nuovo testo dell’art. 120 Cost. alla luce della revisione del Titolo V operata con legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 assieme all’eventuale intervento sostitutivo in caso di violazione dei livelli essenziali delle prestazioni degli stessi diritti civili e sociali. “I diritti sociali così come significativamente descritti o richiamati dai dettati costituzionali sono fondati sul valore di una liberazione del cittadino dal bisogno, dalla difficoltà di trovare lavoro e di essere assistito sotto il profilo sanitario, igienico e dei servizi in generale il che consente poi allo stesso cittadino di poter esercitare i diritti di libertà con effettività e non sul solo piano potenziale e teorico“: così C. Mosca, Il Prefetto Rappresentante dello Stato (parte terza), in Amministrazione Pubblica, 37-38, 2004, pag. 3.

[102] Ibidem.

[103] AA. VV., La pubblica amministrazione in Italia, cit., pag. 13.

[104] C. Mosca, Un ‘ponte’ tra lo Stato e le comunità, in Amministrazione civile, ottobre 2001, pag. 12.

[105] Frequente, ad esempio, l’utilizzo di Collegi per l’esercizio della governance prefettizia: fra gli altri, a livello territoriale, il Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, il Centro di coordinamento soccorsi, il Consiglio territoriale per l’immigrazione, il Comitato per l’euro, la Conferenza permanente sopra descritta ed altri organismi.

[106] Vedasi, a tal riguardo, F. Raniolo, Network organizzativi e governance democratica, op. cit., pag. 4. Secondo l’Autore “esistono due logiche fondamentali alla base del funzionamento delle istituzioni: l’imposizione le cui disposizioni ad obbedire, quando non si fondano sulla semplice paura o sull’utilità attesa, richiedono la credenza nella legittimità; e l’accordo, i patti, la stipulazione, appunto, che richiede la partecipazione di tutti gli interessati“.

[107] Cfr. F. Raniolo, op.cit., pag. 5. L’Autore classifica le Amministrazioni, come detto, in impositive e stipulative e, poi, riferendosi alla diverse finalità che riflettono la vocazione funzionale, in orientate-norma (nomocratiche) e orientate-scopo (teleocratiche). Incrociando le modalità relazionali con le finalità degli apparati, otteniamo le seguenti forme di amministrazione:

 

                                                                                        MODALITA’           

                                                                 Impositive                                                  Stipulative

 

                                                                  Amministrazione                            Amministrazione

                        Orientate-norma           razionale-legale                                  regolativa

                                                             (Stato liberale)                                (Stato regolatore)

FINALITA’

                                                           Amministrazione                            Amministrazione

                        Orientate-scopo              ricettiva                                          cooperativa

                                                             (Stato sociale)                                 (Stato osmotico)

 

Dall’Autore viene richiamata la teoria degli ordinamenti sociali descritta da M. Weber, Economia e società, Ed. Comunità, Milano, 1986.

[108] C. Mosca, Il Prefetto Rappresentante dello Stato (quarta parte), in Amministrazione Pubblica, n.39-40, 2004, pag. 6.

[109] Secondo l’ottica economico-finanziaria di A. La Spina e G. Majone, Lo Stato regolatore, cit., pag. 55 “Stato gestore e Stato regolatore hanno avuto in Europa e negli Stati Uniti retroterra storici, culturali e istituzionali diversi: Stato-nazione, etico, centralizzato, assolutista il primo; Stato federale e concezione dello Stato come male minore, i cui interventi siano per quanto possibile da limitare, il secondo (…). Pertanto mentre Stato regolatore e welfare-state possono convivere, a seconda di come viene concepito il secondo, e quindi le politiche sociali, quella dello Stato gestore e quella dello Stato regolatore si atteggiano come forme necessariamente antitetiche di governance”.

[110] AA. VV., Lineamenti di storia dell’amministrazione italiana, cit., pag. 202.

[111] D. Osborne e T. Gaebler, Dirigere e governare, Milano, Garzanti citato da F. Raniolo, Network organizzativi e governance democratica, op. cit., pag. 2.

[112]  Ibidem.

[113]  Ibidem.

[114] A. Panebianco in G. Pasquino, (a cura di), Burocrazie pubbliche, Bologna, il Mulino, 1986, pag. 408.

[115] Artt. 143, 144 e 145 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267.

[116] Artt. 141 e 142 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267. Il controllo sugli organi appare preordinato alla “tenuta” dell’ordinamento. Secondo I. Portelli in AA. VV., Lineamenti di storia dell’amministrazione italiana (1861-2002), cit., pag. 185 negli anni Novanta del secolo scorso (durante il periodo c.d. di mani pulite che, com’è noto, con le proprie iniziative giudiziarie, decimò le rappresentanze politiche in numerose amministrazioni locali) ”a causa delle gravi crisi locali, il commissariamento di centinaia di enti locali si rese indispensabile in modo da consentire il riassestamento del sistema dei partiti e la tenuta del contesto istituzionale e delle libertà civili“. Nello stesso arco temporale, tra gli enti locali commissariati, prevalentemente per insanabili crisi amministrative connesse a gravi problemi giudiziari e di ordine pubblico, vi furono molte delle più grandi città e province, tra cui Roma, Milano, Torino, Venezia, Genova, Napoli, Caserta, Salerno, Bari, Reggio Calabria, Catania e Palermo. Vedasi anche I. Portelli, Aspetti della ricomposizione del corpo prefettizio in Italia, in Instrumenta, n. 18, 2002, pag. 956 e segg.

[117] Cfr. a tal riguardo C. Gelati, Collocazione, natura e forme dei livelli intermedi esistenti tra lo Stato, nelle sue varie forme, e il Comune-Gli attuali sviluppi in Italia,in Instrumenta, n.3, 1997, pag. 905 e segg.

[118] Cfr. G. Amoroso, Il ruolo e la fisionomia dell’Ufficio territoriale del Governo, in Amministrazione Pubblica, n.14-15, 2000, pag. 54 e segg.

[119] Rilevanti notazioni, anche con riguardo all’art. 2 T.U.L.P.S., in G. Amoroso, Il ruolo e la fisionomia dell’Ufficio territoriale del Governo, cit., pag. 55.

[120] Cfr. G. Calesini, Leggi di pubblica sicurezza ed illeciti amministrativi, Roma, Laurus Robuffo, 1997, pag. 73.

[121] M. Di Raimondo, Commento al Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza, Roma, Laurus Robuffo, 2000, pag. 92.

[122] Tale attribuzione è stata riconfermata dall’art. 5 del decreto legge n. 343/2001, convertito con modificazioni dalla legge n. 401/2001, pur in uno scenario ordinamentale profondamente mutato per il conferimento alle regioni di significative competenze al riguardo, anche alla luce del novellato art. 117, comma 3 Cost. che prevede potestà legislativa concorrente in materia. Vedasi R. Serafini, La gestione dell’emergenza nella legislazione regionale di protezione civile, in Itinerari interni, n. 10, 2004, pag. 177 nonché M. A. Cerniglia e R. Serafini, Riflessioni sul potere d’ordinanza, in Itinerari interni, n. 6, 2003, pag. 183.

[123] Cfr. a tal riguardo, R. Serafini, La gestione delle emergenze, cit., pag. 179.

[124] Appare utile richiamare le strategie, già indicate nella nota 5, mutuate dalla teoria dei giochi: l’arranging, il brokerage, la facilitation ed infine la mediazione in senso stretto.

[125] F. Raniolo, Network organizzativi e governance democratica, op. cit., pag. 3.

[126] Cfr. AA. VV., La pubblica amministrazione in Italia, cit., pag. 66 e segg.

[127] Cfr. R. Mayntz, Sociologia dell’amministrazione pubblica, Bologna, il Mulino, 1982.

[128] AA. VV., La pubblica amministrazione in Italia, cit., pag. 40.

[129] Ibidem.

[130] AA. VV., La pubblica amministrazione in Italia, cit., pag. 41.

[131] La fine degli anni Settanta, in cui fu approvata la riforma sanitaria del 23 dicembre 1978 n. 833 istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale, “segnò l’acme dell’espansione del sistema pubblico. Da quel momento, infatti, iniziò il progressivo arretramento dello Stato dalla gestione diretta di pubblici servizi. Dapprima in maniera lenta e incerta, successivamente in modo più incisivo, si avviò il processo di uscita dallo Stato di alcuni grandi servizi a rete (trasformazione delle ferrovie e, all’inizio degli anni Novanta, delle poste da aziende di Stato in enti pubblici e quindi in società per azioni), nonché la privatizzazione delle banche in mano pubblica. La riduzione dei confini ‘geografici’ del sistema amministrativo (…) produsse la prima, vera inversione di tendenza rispetto alla tradizionale espansione degli apparati pubblici”. Così viene sostenuto in AA. VV., Lineamenti di storia dell’amministrazione italiana (1861-2002), cit., pag. 164.

[132] A. La Spina e G. Majone, Lo Stato regolatore, cit., pag. 17 rilevano che “le politiche di nazionalizzazione sembravano offrire prove ineludibili dell’insuccesso dello Stato ‘positivo’, interventista, gestore diretto. In un Paese dopo l’altro le imprese in mano pubblica cominciarono ad essere criticate perché non in grado di raggiungere tanto i loro obiettivi sociali così come quelli economici perché insufficientemente esposte al controllo dell’opinione pubblica e, infine, per la loro tendenza ad essere ‘catturate’ da interessi politici e sindacali”.

[133] AA. VV., La pubblica amministrazione in Italia, cit., pag. 41.

[134] Secondo AA. VV., La pubblica amministrazione in Italia, cit., pag. 42 si tratta di un arretramento dello Stato il quale, però, non ha “smesso di occuparsi del welfare, dell’istruzione, della sanità, dell’ambiente, dell’occupazione, della politica industriale (…) semplicemente è diminuito il coinvolgimento diretto mentre si è accresciuto il ruolo di regolatore (…).”

[135] Ibidem.

[136] L. Bobbio, I governi locali nelle democrazie contemporanee, cit., pag 47 osserva che “il principio di sussidiarietà capovolge l’impostazione tradizionale degli Stati unitari (…). La nozione di sussidiarietà ha funzione di regolare due diversi tipi di rapporti:

·         il rapporto tra la società (le sue associazioni, i suoi gruppi primari tra cui in primo luogo la famiglia) e i pubblici poteri. Qui la sussidiarietà implica che i pubblici poteri possono agire solo nei confronti dei problemi che gli individui e i gruppi sociali non sono in grado di risolvere autonomamente (la cosiddetta sussidiarietà orizzontale);

·         il rapporto all’interno dei pubblici poteri, tra livelli di governo diversi, sovranazionali, nazionali e locali (la cosiddetta sussidiarietà verticale)”.

[137] Secondo D. Sorace, Diritto delle pubbliche amministrazioni, Bologna, il Mulino, 2000, l’insieme delle attività esercitate dalle pubbliche amministrazioni può essere ricondotto a quattro gruppi : a) la regolazione dei comportamenti individuali e collettivi; b) la produzione di beni e servizi per la collettività; c) le funzioni ausiliarie ( il controllo e la consulenza ); d) le c.d. funzioni strumentali mediante le quali vengono acquisite le risorse necessarie.

[138] S. Sepe in AA. VV., Lineamenti di storia dell’amministrazione italiana (1861-2002), cit., pag. 19.

[139] Ibidem.

[140] AA. VV., La pubblica amministrazione in Italia, cit., pag. 19.

[141] A. La Spina e G. Majone, Lo Stato regolatore, cit., pag. 23 affermano che “l’attività regolatrice dello Stato, inteso come un Terzo super partes munito di poteri normativi e autoritativi, dal quale ci si attende un impiego di tali poteri efficace e pubblicamente giustificabile, in quanto sorretto da buone ragioni, risponde ad esigenze che appartengono a tutte le società politiche o almeno a tutte le società politiche liberal-democratiche”.

[142] AA. VV., La pubblica amministrazione in Italia, cit., pag. 88. Sull’argomento, fra gli altri, G. Giraudi e M. S. Righettini, Le autorità amministrative indipendenti, Roma-Bari, Editori Laterza, 2001; G. Giraudi, La regolazione: il concetto, le teorie, le modalità. Verso una tipologia unificante, in Rivista italiana di politiche pubbliche, n. 1, 2004, pagg. 57-86. Vedasi, altresì, AA. VV., Lineamenti di storia dell’amministrazione italiana (1861-2002), cit., pag. 176 e segg.. A. La Spina e G. Majone, Lo Stato regolatore, cit., pag. 49 affermano che “il passaggio dallo Stato gestore allo Stato regolatore ha attratto l’attenzione di svariati studiosi, soprattutto in America, mentre con riferimento all’Europa manca ancora un’analisi sistematica delle conseguenze politiche, giuridiche e istituzionali di tale nuovo stile di intervento pubblico”.

[143] A. La Spina e G. Majone, Lo Stato regolatore, cit., pag. 54.

[144] A. La Spina e G. Majone, Lo Stato regolatore, cit., pag. 51 e segg. fanno notare che “il passaggio dal governo diretto a quello indiretto, o proxy government” è una delle cause “dell’accresciuta rilevanza dello Stato regolatore, o più precisamente di ciò che Hood e James hanno chiamato la sua ‘faccia interna’. Gli aspetti più noti di tale tendenza sono la decentralizzazione e la regionalizzazione amministrative; la suddivisione di entità burocratiche prima monolitiche in unità dotate di fini specifici e di un proprio budget; la delega della responsabilità di erogazione dei servizi a soggetti privati, for profit oppure not for profit o anche a organismi non ministeriali operanti all’esterno del potere esecutivo tradizionalmente inteso; un’offerta competitiva ovvero altre soluzioni contrattuali o quasi-contrattuali in cui le risorse finanziarie e il potere di scelta sono devoluti agli acquirenti i quali, a vantaggio del loro gruppo di utenti, compreranno i servizi dall’offerente che garantisce il miglior rapporto qualità/prezzo”.   

[145] A. La Spina e G. Majone, Lo Stato regolatore, cit., pag. 21 sottolineano che “lo Stato gestore è stato bersaglio di non infondate critiche. Così le sue politiche sociali sono state accusate di aver mancato, proprio in virtù del loro universalismo, gli obiettivi egualitari dichiarati, favorendo piuttosto i ceti medi; l’elefantiasi dei suoi apparati amministrativi, anch’essa correlata all’orientamento universalistico, è stata vista come fonte di inefficienze e del peggioramento qualitativo dei servizi, oltre che di enormi costi finanziari; questi ultimi sarebbero stati, infine, a loro volta responsabili di una crisi fiscale dovuta alla crescente difficoltà di reperire le risorse necessarie a sostenere l’enorme mole delle attività statali”.

[146] Interessanti considerazioni sulla natura e sulle caratteristiche dell’attività regolativa delle Autorità indipendenti si rinvengono in G. Vesperini, La Consob e l’informazione del mercato mobiliare, Milano, Cedam, 1993, pag. 263 e segg.

[147] Sulla terzietà del corpo prefettizio vedasi C. Mosca, Il sistema prefettorale di amministrazione generale, in Amministrazione Pubblica, 19-20-21, 2001, pag. 3 e segg.

[148] C. Mosca, La terzietà, in Notiziario ANFACI, 1-2-3, 2006, pag. 1.

[149] Ibidem.

[150] Ibidem.

[151] Cfr. G. Vesperini, La Consob, cit., pag. 264.

[152] F. Raniolo, Network organizzativi e governance democratica, op. cit., pag. 27. Il libro-bianco della Commissione dell’Unione Europea su “La Governance europea”, Bruxelles, 2001, indica cinque principi per la good governance applicabili ad ogni livello di governo: apertura-trasparenza, partecipazione, responsabilità, efficacia e coerenza.

[153] Su questo argomento, vedasi, fra gli altri, I. Portelli, Federalismo amministrativo e Uffici territoriali del Governo, in  Amministrazione Pubblica, n.14-15, 2000, pag. 72 e segg.

[154] C. Mosca, Il Prefetto Rappresentante dello Stato (parte prima), in Amministrazione Pubblica, n. 34, 2003, pag. 4.

[155] La citazione nel testo è riferita ad E. Vittorini, Conversazione in Sicilia, Torino, Einaudi, 1966, pag. 28.

Sammartino Claudio

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