Cassazione penale, sez.I, 3 ottobre 2007, n.38303
La vicenda in trattazione riguarda un caso portato dinnanzi al Tribunale di […] afferente il reato di molestie continuate di cui all’art.660 Cp, per avere l’imputato inviato svariati messaggi MMS – alcuni dei quali anche di contenuto sessuale – all’utenza cellulare di un soggetto minore, anziché all’amico al quale erano originariamente destinati.
Nel corso del dibattimento veniva accertato che l’invio dei messaggi al minore doveva in realtà ascriversi ad un erronea memorizzazione del numero di telefono cellulare dell’amico dell’imputato e, pertanto, l’imputato veniva assolto dal reato in imputazione per difetto del dolo richiesto dalla fattispecie di reato in contestazione.
Nel proporre ricorso per Cassazione, il P.G. lamentava l’erronea applicazione della legge penale al caso di specie, essendo comunque il fatto punibile ai sensi dell’art.82, co.1 Cp (c.d. aberratio ictus monolesiva), secondo il quale “quando per errore nell’uso dei mezzi di esecuzione del reato, o per un’altra causa, è cagionata offesa a persona diversa da quella alla quale l’offesa era diretta, il colpevole risponde come se avesse commesso il reato in danno della persona che voleva offendere…”.
I giudici di legittimità hanno tuttavia rigettato il ricorso precisando che la constatazione dell’elemento soggettivo nell’aberratio ictus monolesiva, deve effettuarsi con riguardo alla persona alla quale l’offesa era diretta e non anche a quella a cui è stata cagionata in concreto (in tal senso, si veda anche: Cass.pen.sez.I 27 aprile 1994, Fuggetti).
L’ascrivibilità del fatto reato all’agente a titolo di dolo, secondo quanto stabilito dagli artt.82 e 660 del Cp, conferma invero per la Suprema Corte un principio generale: “nella misura in cui la specifica identità del soggetto passivo o, comunque, la peculiarità dell’oggetto materiale risultino irrilevanti ai fini della tipicità, altrettanto irrilevante per l’affermazione del dolo sarebbe un errore concernente quella identità e quelle peculiarità”.
Secondo la Cassazione pertanto, “l’attribuzione all’agente dell’offesa alla persona diversa non può avvenire se non in applicazione delle norme comuni sul dolo, dal momento che, data l’indifferenza dei titolari specifici dei beni tutelati, è irrilevante che si volesse offendere A, se comunque si è offeso B”.
Gli ermellini hanno dunque prediletto una verificazione del dolo in forma concreta, in cui l’oggetto è costituito dal fatto storico realmente mirato dall’agente.
Come brillantemente esplicato dalla Corte: “gli articoli 43 e 47 del Cp., e lo stesso canone di colpevolezza, impongono una nozione di dolo come rappresentazione e volontà del fatto storico realizzato, per cui, in caso di mutamento inopinato del soggetto passivo, sarebbe tutt’al più possibile un’imputazione colposa del fatto realizzato, in concorso, se del caso, con un “tentativo” rispetto al fatto voluto”.
Qualora, sempre secondo la Corte, non si fosse tenuta in conto nel caso di specie “la specificità del soggetto effettivamente preso di mira” (e cioè un amico dell’imputato e non anche il minore), la disposizione di cui all’articolo 82 del Cp e la caratteristica circostanza di errore disciplinata da tale norma, andrebbero a legittimare una qualche forma di responsabilità oggettiva, in palese difformità a quanto stabilito dall’articolo 27 della Costituzione in tema di colpevolezza.
Inoltre, il carattere molestatorio dei messaggi inviati doveva ritenersi alquanto discutibile per la Corte, “avuto riguardo al vero destinatario degli stessi”.
Deve tuttavia rammentarsi che esiste altra recente partizione giurisprudenziale, secondo la quale invece, l’art.82 del c.p. stabilisce che l’errore investe l’oggetto materiale del reato – l’altra cosa o l’altra persona – piuttosto che il bene o il soggetto a cui l’offesa era originariamente indirizzata, e quindi il dolo sussiste in ogni caso essendo indifferente la mutata direzione della volontà (Cass.pen.sez.I, 6 aprile 2006, M.M.). .(Si veda anche: Dir.pen.e proc.n.12/07).
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