SOMMARIO 1. Lo Stato e le sue trasformazioni: sintesi di un graduale processo. 2. Stato: eredità concettuale e spinte trasformative. 3. Politica: tra agito e sociologia. 4. I diritti umani a confronto con le sfide della globalizzazione: tra bilanciamento e relazione. 5. L’evoluzione della democrazia in raffronto ai modelli classici e post-classici. 6. Dallo Stato sociale allo Stato penale: la democrazia a confronto con le istanze giustizialiste. 7. Autonomia cognitiva e sicurezza: la misura della libertà. Elementi conclusivi.
1. Lo Stato e le sue trasformazioni: sintesi di un graduale processo
Prendendo a modello l’impianto concettuale dello Storico e Politologo Maurizio Ricciardi, risulta essere fisiologico partire dal presupposto empirico di come la realtà stessa dello Stato postcoloniale sia la lapalissiana dimostrazione di un incessante mutamento dello Stato moderno, nell’alveo di un processo di globalizzazione.
Difatti, diverse caratteristiche che si ritenevano superate e comunque incompatibili con la forma costituzionale, democratica, razionale dello Stato si stanno rivelando anche in quegli Stati che non provengono da un’esperienza prettamente coloniale. E’ indubbia, dunque, la graduale trasformazione di uno Stato moderno, emergendone la concettualizzazione di Stato globale. In quest’ultimo l’origine non rappresenta un principio di legittimazione, come ne emerge da una narrazione – anche di natura eziologica e di formulazione – del contratto sociale. Si evidenzia una discontinuità sia simbolica che storica, arrecante una cesura tra origine e funzionamento dello Stato, alla quale corrisponde parallelamente una trasformazione delle fonti di legittimazione dello Stato medesimo. Conseguentemente, nello Stato globale la sovranità da monopolio esclusivo diviene una pratica diffusa di una serie di strutture sociali, nella loro molteplicità(1) .
Dunque, la globalizzazione conduce ad un sostanziale mutamento del tempo storico in cui lo Stato si esplica ed agisce, modificandone l’identificazione stessa dello Stato in relazione alle esperienze che del medesimo si sono verificate. Un processo che a sua volta genera numerose distorsioni, tali da far sì che la storia non sia più la primaria fonte di legittimazione bensì lo strumento primo di una delegittimazione dell’azione statale; quest’ultima tesa a sminuirne il senso stesso dell’azione, facendola apparire anacronistica, sino a porre in dubbio che essa sia storicamente necessaria ed imprescindibile(2) .
A seguito di tali premesse di sintesi e tenuto conto delle incessanti e repentine trasformazioni geopolitiche, lo Stato sembra essere sempre più “in affanno” nel riannodare i fili della propria storia e nel rappresentare contemporaneamente un principio di autorità che possa essere superiore ad altre istituzioni(3) . Dunque, ne è evidente la problematica coniugazione tra storia e geografia statale che rimanda immediatamente ad una altrettanto complessa genealogia dello Stato: si palesa il «carattere contingente e opinabile del concetto»(4) .
In un alveo di “fluidità interpretativa” (a cui si attribuisce una chiara connotazione di contigenza), la geografia non può più essere limitata e ricondotta alle sole e diversificate manifestazione nazionali, espressive del concetto di Stato (sempre all’interno dello schema genealogico).
Pertanto, «non si tratta di comparare, e in ultima analisi di accordare, una pluralità delle forme concrete assunte dallo Stato, al fine di riaffermare, grazie alla teoria della finzione, il ruolo centrale dello Stato e del discorso politico che intorno a quel ruolo si è sviluppato»(5) .
«In quanto persona ficta lo Stato è in grado di assumere obbligazioni che nessun governo e nessuna singola generazione di cittadini può mai sperare di assolvere. Arriverei al punto di affermare che, nella condizione presente del diritto contrattuale [contract law], non c’è nessun altro modo di adempiere tali obbligazioni se non invocando l’idea dello Stato come persona in possesso, secondo l’espressione di Hobbes, di un’eterna vita artificiale. Dobbiamo riconoscere che una ragione per cui probabilmente gli Stati stanno rimanendo attori potenti nel mondo contemporaneo è che essi sopravvivranno a tutti noi»(6) .
Difatti, è essenziale esaminare la portata concettuale di Stato, nelle sue ampie differenziazioni e molteplici espressioni di continuità, con la formulazione – oramai del tutto classica – dello Stato moderno; con lo scopo di realizzare uno strumento efficace e storicamente coerente, in linea con le evoluzioni e le trasformazioni avutesi nelle discipline politiche del sociale, aventi queste ultime come oggetto di studio lo Stato (ergendo lo stesso ad oggetto disciplinare).
Un iter, nel quale si sancisce l’obiettivo primario di “edificare” un concetto di Stato univoco; oltre la moltiplicazione territoriale e la frammentarietà della analisi empiriche, storiche, antropologiche e politologiche circa le diverse esperienze statali.
A tal proposito, Mauro Calise e Theodor Lowi hanno espresso nel loro Dizionario interattivo dei molteplici concetti di scienza politica la necessità di un «bringing concepts back in»(7) . Altrettanto, sempre nel dizionario succitato, si evidenzia l’assenza di una precisa definizione del termine “Stato”, divenendo meramente un crocevia di concetti e non assumendo un proprio significato che possa identificarlo con precisione. Un crocevia che genera un concetto disciplinare (oseremmo dire multidisciplinare), frutto di sistematizzazioni congiunte, e frequentemente contraddittorie, che però «stabiliscono i modi legittimi di fare riferimento alla Stato tanto nel discorso scientifico quanto in quello pubblico»(8) .
Allo stesso tempo, lo Stato – oltre ad essere la summa di concettualizzazioni – è anche un soggetto “normativizzante” di specifici processi di disciplinamento sociale: un soggetto, però, sottovalutato in forza di una evidenziazione – con sempre maggiore continuità – dei limiti intrinseci al suo stesso concetto. Ciò nonostante, nel campo del diritto, si è rintracciata una “via d’uscita” consistente nella possibilità di passare dal concetto di Stato a quello di costituzione.
A tal proposito, Hasso Hofman sostiene che «il concetto di Stato ha in gran parte perso la sua forza creatrice di sistemi; a vincere è il concetto di costituzione»(9) . Un processo interpretativo, di cui le scienze sociali ne sono state le antesignane, che ha rintracciato e teorizzato un «disincanto sociologico» nei confronti dello Stato che, divenendo un sistema decentrato in seno ad un complessivo e più ampio sistema sociale, conferma una peculiare modestia del medesimo Stato tale da riconoscerne una sua indiscutibile parzialità(10) . Questa tendenza ha però trovato sintesi anche in altre discipline, oltre la sociologia, come con Alessandro Passerin d’Entreves che ha rilevato «la dissoluzione del concetto di Stato nella moderna scienza politica»(11) come un fatto non episodico, bensì una tendenza storica di lungo periodo. Inoltre ne è degna di menzione anche la posizione di David Easton che consigliava di evitare completamente l’uso del termine Stato in favore di un meno impegnativo riferimento al sistema politico(12) .
Con ciò in premessa, è necessario – accanto alla precedente analisi sulla genealogia dei declini e delle rinascite di un concetto di Stato – individuare un significato univoco, condiviso su scala globale; tentando di costruire una nuova epistemologia dello Stato così come ha fatto Otto Hintze dopo la prima guerra mondiale, registrando lucidamente le trasformazioni intervenute in quella che lui definisce «la storia e il sistema dello Stato e della società»(13) ed individuando un cambio di paradigma (quest’ultimo essenziale per indagare l’esperienza storica dello Stato in Occidente).
Dunque, la sociologia assume nella contemporaneità un ruolo di scienza dell’indagine e di strumento di legittimazione dello Stato; investendone la sovranità dello Stato stesso, i suoi fondamenti nonché gli attributi della sua “assolutezza” (14). Un ruolo da “difendere” anche dinanzi all’attuale perdita da parte dello Stato delle sue attribuzioni sociali: una perdita che non corrisponde però all’abbandono delle pratiche di disciplinamento che ne avevano accompagnato la costituzione ed il governo.
In tale quadro d’insieme, il modello sociale dello Stato tende la mano ad un disciplinamento senza compensazione oltreché alla costituzione del sociale senza riconoscimento dei soggetti che ne costituiscono la parte primaria ed attiva. Ciò rende inevitabile l’assunto che lo Stato, con la sua attribuzione sociale, genera degli effetti normativi sulla realtà sociale, orientandone un complesso insieme di pratiche, di discorsi e di retoriche, con il fine ultimo di porre in essere decisioni collettivamente vincolanti (e si potrebbe asserire anche con un determinato “grado” di consensualità).
Difatti, Pierre Bourdieu ha scritto: «Lo Stato è un principio di ortodossia, di consenso sul senso del mondo»(15) . Un’ortodossia che ai fini dell’indagine sul concetto di Stato globale deve essere presa in considerazione, non potendo comunque essere considerata l’esito di uno sviluppo teleologicamente orientato ai fini del compimento del senso della storia all’interno della globalizzazione.
Sempre in tale focus, i termini che formano il sintagma «Stato globale» stabiliscono un campo di tensione all’interno del quale non si determina in alcun modo uno sviluppo certo e significativo. Diversamente da quanto sostenuto da Martin Shaw, lo Stato globale non è semplicemente l’articolazione per quanto complessa «dello Stato occidentale globalizzato»(16) ed esso non può ritenersi essere incaricato di globalizzare la rivoluzione democratica che avrebbe caratterizzato la modernità. Altrettanto, non può ritenersi un “incubatore” dei contenuti universali della globalizzazione, in un’evoluzione degli stessi sia naturale/fisiologica che conflittuale. «In questo modo, infatti, il sostantivo Stato viene subordinato a un processo di globalizzazione immaginato in maniera non molto differente dalla più classica storia universale. Lo Stato globale non è lo Stato globalizzato, ma segnala una persistenza dello Stato che sconta nel suo concetto contraddizioni che rilevano alcune trasformazioni irreversibili e di conseguenza una nuova e diversa posizione dello Stato all’interno del sistema sociale»(17) .
In conclusione, si assiste ad una graduale trasformazione della portata concettuale e di senso del termine Stato, sotto le spinte – sostanzialmente – della globalizzazione e di un mutamento del sistema sociale (e della più generale realtà sociale); comportandone una differente posizione dello Stato anche nei termini della sua stessa sovranità ed autorità oltreché in raffronto al retroterra sociale.
Infine, a riguardo del concetto di autorità (in particolar modo di autorità tradizionale) e come mero input concettuale (in un’ottica multiprospettica), lo studioso Alec Ross scrive: «con il decollare della tecnologia della catena di blocchi, il suo impatto sarà quello dell’economia della condivisione e di altre forze di disintermediazione digitale: imporrà la riscrittura del patto tra grandi aziende, cittadini e governo. Sta portando economie di frontiera sul terreno di gioco globale, distruggendo al tempo stesso mediatori e autorità tradizionali»(18) .
2. Stato: eredità concettuale e spinte trasformative
In virtù del termine di Stato e della sua eredità concettuale, è da tenere presente che risulta essere un comune e grave errore ritenere che lo stesso possa essere l’unico indicatore dell’ordine della società contemporanea; bensì è più appropriato ed opportuno ritenere che la forma organizzativa di tipo capitalistico della società trova le sue fondamenta su un ordine normativo più ampio e complesso rispetto ad un ordine fattuale proposto ed imposto dallo Stato. Ciò, conseguentemente, ne determina una crescente obsolescenza dello Stato nazione dinanzi al frastagliato e diversificato quadro della società globale (quest’ultima con un suo specifico ordine) (19)di natura capitalistica.
Pertanto, è indubbio, a causa di tali mutamenti, che la nazione non costituisce più l’unico punto di riferimento normativo realmente adeguato e sufficiente di fronte alla dimensione tensiva tra popolo e nazione. Accanto a ciò, però, non si può giungere all’opposto paradosso che il capitalismo sia unicamente globale e che la produzione normativa assuma solamente una veste sovranazionale e cosmopolitica: lo Stato, pertanto, si trova in una fase mediana nella quale risulta ancora essere un “garante” del quadro normativo nazionale ma in contemporanea ne diviene un soggetto del capitalismo globale e dell’ordine giuridico transnazionale(20) .
Lo Stato, quindi, è in bilico tra le tensioni prettamente nazionali e particolari e le tensioni squisitamente sovranazionali e globali; generando un’inevitabile confusione di ruoli, di rappresentatività e di potestà nella produzione del diritto positivo. A sua volta, il diritto positivo è in bilico sulla corda della contraddizione tra le necessità proprie dell’ordinamento normativo e la sua organizzazione. Una posizione assunta che scaturisce dalla possibilità di usare le «risorse normative provenienti dai processi di disciplinamento e di governamentalizzazione per garantire la legittimità delle sue pretese sovrane»(21) ; comportando indirettamente la continuità dello Stato globale, grazie all’uso di strumenti normativi che non produce e per i quali non pone in essere alcuna forma di legittimazione.
I processi di disciplinamento e di governamentalizzazione, però, non minano irreversibilmente le fondamenta dello Stato e la sua correlata sovranità, in quanto sussistono molteplici forme empiriche di Stato senza che le medesime possano porre un veto alla costruzione di un concetto complessivo di Stato (anche nella sua valenza globale).
Come delineato dal Ricciardi, si registrano tre elementi comprovanti il passaggio dallo Stato moderno allo Stato globale:
– lo Stato globale non è in mera soluzione progressiva rispetto allo Stato moderno. Lo Stato globale, inoltre, non può avere come presupposto fondativo, unico ed assoluto l’origine dello Stato moderno;
– la succitata discontinuità storica ne implica uno spartiacque tra origine e funzionamento dello Stato, determinandone una modifica della legittimità statale;
– la sovranità muta dinanzi alle nuove istanze: da monopolio di un agente a pratica di strutture sociali.
Le contraddizioni sovra riportate, secondo il Ricciardi, emergono con chiarezza nella «figura solo apparentemente intermedia» dello Stato postcoloniale. Quest’ultimo assume, quindi, un significato universale, trasversale, vasto e che allo stesso tempo conduce – rispetti agli odierni e molteplici concetti politici e sociali – all’esigenza di ridefinire e rideterminare complessivamente il concetto di postcoloniale(22).
A tal proposito il Ricciardi scrive:
La realtà dello Stato postcoloniale retroagisce invece sul concetto di Stato moderno evidenziando: a) caratteristiche dello Stato moderno che si ritenevano superate e comunque incompatibili con la sua forma costituzionale, democratica, razionale; b) linee di tendenza della statualità moderna presenti, se pure con una diversa intensità, anche negli Stati che non provengono da un’esperienza coloniale se non, spesso, come colonizzatori. In altri termini lo Stato postcoloniale non è rappresentabile solo come un ritardo nello sviluppo della statualità moderna, ma ne ridetermina il concetto nel momento in cui essa è costretta in una spazialità politica che sovverte le distinzioni tra centro e periferia, tra sviluppo e sottosviluppo. Nello Stato globale postcoloniale non è tanto la contrapposizione tra il carattere nazionale dello Stato e la collocazione internazionale a essere messa al centro dell’analisi, quanto piuttosto la complessa connessione amministrativa che, grazie ai sistemi di governance, lo collega agli altri Stati. Lo Stato globale postcoloniale è in qualche misura sempre messo a confronto con la propria insufficienza, perché al suo interno i processi di costituzionalizzazione rimandano alla necessità di altrettanto specifiche pratiche di disciplinamento amministrativo, perché non arriva mai a normalizzare la situazione(23) .
Uno Stato postcoloniale che immediatamente mostra la sua intrinseca insufficienza nell’incapacità di garantire effettiva formalità ed universalità al diritto, nell’alveo di un rapporto duale indefinito ed indeterminato con numerose agenzie spesso non statali – governative o non governative – e la popolazione (24), esposto anche con forme aggressive di politicizzazione.
«Questa oscillazione tra il politico e il sociale si trasferisce oggi nella società mondo», come scritto dallo studioso Teubner(25) ; minandone anche ogni accezione di assolutezza, unicità ed esclusività di uno Stato postcoloniale. Si generano della «forme di sovranità condivisa»(26) .
In sintesi, negli Stati postcoloniali si verificano quei processi che a loro volta sono presenti negli Stati che furono colonizzatori; facendo sì che lo Stato divenga una struttura sociale, rinunciataria di ogni pretese ad essere un agente sovrano unico ed esclusivo. Difatti, lo Stato postcoloniale prende a sé alcuni tratti tipici dello Stato globale contemporaneo «perché interrompe la possibilità dell’analogia grazie alla quale processi locali o temporalmente determinati vengono normalmente attribuiti alla storia dello Stato nel suo complesso» (27).
Ecco che nel processo di evoluzione dello Stato emergono degli elementi cardine che perdurano/resistono nel tempo, a dimostrazione di un’innata ortodossia dello Stato di cui ne parla il Bourdieu (28). Pertanto, lo Stato diviene «un luogo di circolazione della parola ufficiale, del regolamento, della regola, dell’ordine, del mandato, della nominazione» (29), in cui poter rintracciare ciò che al suo interno si ripete nel corso del tempo (anche ciò che ne è elementare, basilare, costitutivo).
Difatti, nella sua analisi della democrazia statunitense, Tocqueville scrive a tal proposito che «dopo averne studiato la storia, ci si sente profondamente convinti di questa verità: che non c’è opinione, abitudine, legge, direi quasi avvenimento, che non possa essere facilmente spiegato dal “punto di partenza”»(30) .
Pertanto, il «punto di partenza» assume un significo finalistico, teleologico attraverso il quale impedire il verificarsi di dinamiche politiche e sociali disgreganti oppure indicarne le patologie costitutive di uno Stato (vedasi l’accentramento amministrativo francese), contro le quali sia necessario approntare le opportune forme preventive della profilassi (da intendersi quest’ultima di natura specificatamente politica).
In contrapposizione alla teoria del punto di partenza ed alla sua essenza costitutiva, Niklas Luhmann introduce un concetto di evoluzione nel quale è la forma attuale – l’evoluto – a rideterminare anche le caratteristiche del processo storico. Una sistematizzazione che entra immediatamente in contrasto con gli Stati moderni e con l’eterogeneità dello loro forme elementari, le quali trovano significato e sintesi in un quadro unitario più ampio che tenga presente dell’evoluzione storica dello Stato nel corso del tempo.
Quindi, la storia dello Stato moderno può esplicarsi sostanzialmente su due filoni: quello inerente la teoria che afferma la piena e assoluta sovranità di ogni Stato a partire dalla sua stessa fondazione e quello reale che palesa le difficoltà e le parzialità della sovranità statale. Due filoni che non possono non raccordarsi in virtù dell’assunto che senza un patto originario, un potere costituente e una rappresentazione non vi sarebbero potuti essere quei processi reali di unificazione e costituzionalizzazione dello Stato. Con tale approccio esperienziale, è indubbio però che lo Stato globale abbia rinunciato alla sua natura più propriamente ipotetica e classica; determinando una cesura tale che non possa assumersi completamente l’origine della statualità moderna come decisiva per il concetto di Stato globale ed in contemporanea contribuendo a sancire lo Stato globale come un «attore critico» (31) tendente ad una privatizzazione del pubblico (scaturita a sua volta dalla preponderanza degli esecutivi sui legislativi) e alla creazione di governance eminentemente tecnico-amministrative nazionali e sovranazionali.
Nonostante ciò, però, il concetto di Stato globale non ha raggiunto una maturità tale da risolvere pienamente la questione della sovranità nella governance; non giungendo perfino a stabilire una cancellazione della sovranità come necessaria e funzionale. A tal proposito, è utile premettere che i sistemi di governance, nonostante la loro ampia diffusione e la capacità di stabilire vincoli organizzativi e procedurali, non posso considerarsi il fondamento di legittimità di «un monopolio della violenza»; determinando dunque una crisi dei processi istituzionali e ideologici all’origine dello Stato moderno e precisamente degli Stati in cui i succitati sono stati assunti come reali. Mentre la strutturazione delle colonie, da un punto di vista statale, è avvenuta attraverso l’uso della violenza come strumento di istituzionalizzazione dei sistemi burocratici.
In tale focus concettuale, una soluzione pacifica alle diverse teorizzazioni e concettualizzazioni è rintracciabile nel considerare la narrazione dell’origine dello Stato – secondo il contrattualismo classico di Hobbes e Rousseau – come un elemento non indicante più il mero mito fondativo di uno Stato costituito sul consenso originario dei suoi cittadini; bensì sancendo l’esistenza di uomini naturalmente liberi, come presupposto necessario ed ineliminabile dello Stato moderno e della sua fondazione.
Un libertà naturale che trova piena giustificazione e legittimazione anche nell’antropologia della modernità. «È la crisi di questa antropologia, che immagina il soggetto dello Stato e lo rende reale, che si manifesta anche come crisi della sovranità» (32). Ecco che l’antropologia diviene la chiave di volta e di svolta per trovare soluzioni idonee a contrastare i frequenti deficit di statualità (afferente anche ad un ritardo di statualità degli Stati postcoloniali) sia dal punto di vista dell’organizzazione amministrativa ed istituzionale sia da quello economico. Tutto ciò anche in relazione ad una struttura sociale spesso multietnica, multilinguistica, multireligiosa e più in general plurale. Un’antropologia di Stato che problematizza il rapporto tra Stato come istituzione e l’unità politica che storicamente rappresenta; giungendo infine a trattare la complessa e tortuosa nozione di identità: precisamente dall’identità individuale o di gruppo sino alla possibile identità politica che legittima l’azione statale(33) .
In conclusione, in un’ottica circolare e di connotazione primariamente sociale, esiste indubbiamente una forte sopravvalutazione del nesso, sempre più stringente, tra rendimento delle politiche amministrate e consenso; ma ancor più allarmante, in una prospettiva di cambiamento, è l’incapacità – anche da parte dello Stato – di saldare qualsivoglia progetto di innovazione ad un coerente schema di interessi. Non è solo un problema di comunicazione politica, piuttosto si tratta della difficoltà, o meglio della scarsa disponibilità, ad assumere impegni concreti sul terreno dell’equità e dell’inclusione (senza essere mera espressione di «un monopolio della violenza») (34).
3. Politica: tra agito e sociologia
Nell’opera di Francesco Giacomantonio Sociologia dell’agire politico. Bauman, Habermas, Žižek , si pone l’accento sui processi di globalizzazione e sulla loro azione di erosione e di indebolimento delle relazioni tra i cittadini, da un alto, e delle istituzioni e dei partiti, dall’altro.
Dunque, una dimensione della vita sociale fortemente intaccata ed intravista sostanzialmente sotto l’aspetto relazionale ed istituzionale; in particolare, l’autore succitato afferma che «i primi (ergo, i cittadini) hanno dovuto prendere atto che i secondi (in sintesi, gli “apparati” istituzionali e partitici) non sono in grado di rispondere alle domande sociali: il grado di legittimazione delle istituzioni pubbliche è stato ulteriormente [sminuito] dal ruolo crescente che attori non istituzionalizzati sono venuti ad assumere nel contesto della globalizzazione. La crisi di legittimità, del welfare, l’affermazione dell’individualismo e il declino delle ideologie hanno determinato, nel corso dei decenni, la crescita dei movimenti sociali a scapito dei partiti, poiché la progressiva rilevanza che i primi assumono è connessa alle difficoltà che i secondi via via attraversano, in seguito alla decadenza ideologica e alla mancanza di fiducia nei contesti istituzionali e organizzativi della politica» (35).
Pertanto da tali parole, ne emerge la necessità di valutare e comprendere l’odierno agire politico: fortemente complesso, avente una specifica connotazione sociale, non riducibile né alla pura logica della razionalità né alla mera passionalità ed irrazionalità emotiva. Una comprensione che può assumere forza solo attraverso una sociologia dell’agire politico – come delineato dal Giacomantonio – che affonda le sue radici nel pensiero di Bauman . Habermas e Žižek. Un agire politico che ha davanti a sé la sfida di una libertà individuale in aumento ma per paradosso di un altrettanto incremento dell’insicurezza collettiva; palesandone concretamente la mancanza di tre forme di sicurezza: quella esistenziale, quella della certezza e quella personale.
Tutto ciò nell’alveo di una società liquida, in cui il cittadino globale – così come intuito da Bauman (36)- vive in una condizione di solitudine e di «sfiducia tormentosa»; all’interno di un modus vivendi in cui sussiste «la consapevolezza dell’incontrollabilità delle scelte e la correlata tendenza a sfuggire le responsabilità, sia una forte difficoltà nella costruzione dell’identità personale a causa delle molteplicità dei ruoli che gli individui sono costretti a svolgere nella società contemporanea». Mentre per Habermas, una corretta costruzione/impostazione dell’agire politico richiede simultaneamente un approccio dialettico, inclusivo ed anche dialogico; restituendo, dunque, «un contegno intellettuale» alla politica e all’agire politico. Come esplicitato dal Giacomantonio, potremmo intuire nel pensiero di Habermas un «illuminismo politologico, in cui il ruolo chiave è giocato dall’elemento della comunicazione e da quello del diritto». Con Žižek, invece, si recuperano alcuni aspetti categoriali della psiconalisi e del marxismo, con i quali vi è un intus-legere della società contemporanea tale da diagnosticare l’insostenibilità del sistema capitalistico e la necessità di ripensare orizzonti ideali e politici alternativi oltreché la depoliticizzazione della sfera economica, accettata come uno stato oggettivo ed immodificabile delle cose (37). Pertanto, quest’ultimo auspica l’introduzione di un pensiero alternativo che possa curare dal malanno della paralisi politica, irretita dalla logiche di potere, e restituire un’idea di agire politico «coraggioso, propositivo, attivamente attento e aperto al confronto e alla discussione, che la fase storica attuale sembra, da tempo, aver generalmente rimosso».
Difatti, alle succitate problematiche, si è aggiunta la gravosa crisi finanziaria ritenuta sempre da Žižek come «la spia di una nuova dimensione politico-sociale-esistenziale, in cui la centralità dell’elemento economico travalica definitivamente i confini del politico, del culturale, dell’estetica, del sociale e rende difficilissimo pensare al di là della produzione, dell’apparenza, della libertà assoluta. È come se elementi di totalitarismo e liberismo si fossero paradossalmente fusi e sperimentassimo in molti ambiti delle società avanzate una sorta di spettro inquietante, il “totaliberismo”. Non si tratta solo del fatto che l’economia sia divenuta potenzialmente “totalitaria”, ma che sia divenuta “totalitaria” una certa idea di libertà, non autenticamente umana, la libertà senza autonomia».
Una libertà senza autonomia è in sintesi una libertà dai soli tratti economici, la quale si rivolge ai soggetti non in virtù della loro cittadinanza bensì in relazioni ai loro consumi: i cittadini divengono dei clienti da soddisfare ed a cui rivolgersi, svincolati anche da legami familiari, religiosi, politici, culturali e territoriali. Eppure tali libertà non determinano un automatismo per l’ottenimento di spazi di autonomia ovvero la capacità di aver cura, di raggiungere un buon governo di sé e di autodeterminarsi in conformità di una “legislazione universale” (come ampiamente delineato da Kant). Sono le scelte a determinare e ad inserire l’uomo in percorsi che possano garantire identità (ma non necessariamente soggettività), comportandone un’autodeterminazione e quindi una responsabilità.
Ed ecco che la libertà (nel suo senso più ampio) e l’economia si situano in un legame ambiguo e conflittuale; in relazione al quale è da tener presente che il totaliberismo ne è «il loro frutto velenoso», che porta a sua volta alla deistituzionalizzazione e alla desocializzazione. Nel primo caso, «per deistituzionalizzazione s’intende l’indebolimento e la quasi scomparsa di tutte quelle norme codificate e garantite dai meccanismi giuridici, uno degli effetti principali della diffusione del pensiero neoliberale. La cultura globale è scissa dalle istituzioni sociali, le quali sono soltanto meri strumenti di gestione». Mentre, nel secondo caso, «per desocializzazione s’intende la scomparsa di quei ruoli, norme e valori sociali attraverso cui si costruiva il mondo vissuto. Questa condizione costituisce una diretta conseguenza della deistituzionalizzazione della politica e dell’economia; mentre un sistema di produzione veniva necessariamente concepito come un sistema di rapporti sociali di produzione, l’economia di mercato e tutte le sue più recenti logiche interne (competitività internazionale, proliferazione di nuove tecnologie, movimento speculativo dei capitali) sono sempre più dissociate dai loro rapporti sociali di produzione»(38) .
In questo quadro – erosivo, frammentato, disgregato e disgregativo – si sancisce un allarmante frantumarsi di qualsivoglia “cultura politica”, ovvero di quell’insieme di orientamenti soggettivi nei confronti della politica che connotano una popolazione e che si esplicano in una determinata conoscenza della realtà politica nonché nei sentimenti verso la politica e nei legami su precisi valori politici (39). Comunque un morbo, di cui Giacomantonio tenta di rintracciarne una cura efficace, che lo si affronta non rinnegando libertà e capitalismo o rimpiangendo il vetero-marxismo. Orbene, «un buon punto di partenza potrebbe consistere nello svincolarsi dall’egocentrismo e dall’utilitarismo, il che significa imparare a essere migliori più che ad avere il meglio».
A riguardo di quanto sovra riportato, secondo un punto di vista circolare e parallelo, è degna di nota il fenomeno di diffusione dell’idea di autonomismo e di pluralismo istituzionale. Difatti, lo studioso Antonini nell’Enciclica Quadragesimo anno del 1931 (Pio XI) ha notato che la stessa mirava, infatti, a proteggere dalle pretese dell’assorbimento nello statualismo tutta una tradizione di privato sociale che aveva garantito all’Italia benessere sociale e una certa protezione delle classi deboli» (40).
In conclusione, ritornando su un piano generale, «per un’autentica cultura politica, indispensabile per l’agire politico, oltre al recupero della responsabilità morale, è fondamentale la categoria dell’immaginazione sociale e politica (C. Wright Mills). Una buona immaginazione permette agli uomini di progettare e modificare positivamente la realtà» (41).
Solo una cultura politica, ben radicata e formalizzata, può impostare un autentico sviluppo civico di una società; anche a beneficio di una coscienza umana, continuamente “messa alla prova” dagli strumenti tecnologici e informatici del presente.
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4. I diritti umani a confronto con le sfide della globalizzazione: tra bilanciamento e relazione (42)
Un ulteriore focus da affrontare è la questione dei diritti umani all’interno del processo di globalizzazione: la nozione dei diritti umani, senza un substrato contraddistinto da un bilanciamento tra diritti e democrazia e senza un effettivo ordine politico, può dare spazio a pratiche di implementazione che, mediante i criteri anche dell’autogoverno, contribuiscono a generare delle politiche imperialistiche, ovvero ad una condotta platonista degli enti, deputati a proteggere i diritti umani sulla testa dei titolari degli stessi. A tal proposito, è utile tener presente che i diritti umani appartengono alla situazione morale della persona umana, con la consapevolezza che gli stessi sono l’unica condizione di autonomia dei soggetti che intraprendono, tra loro, un discorso/una relazione o si impegnano a sentirsi gli uni gli altri.
La situazione politica può essere fondamentale per ovviare alle situazioni intrinseche alla situazione morale; ergo un “lasciapassare” i cui criteri di condotta ad oggi risultano essere ancora estremamente vaghi ed indeterminati cognitivamente (indeterminatezza sia pratica che volitiva), mancando di una piena forza motivazionale.
Ad ogni modo, la situazione politica si impone con lo scopo di un’istituzionalizzazione dei principi morali; tuttavia, essa non può tradire il contenuto essenziale della situazione morale, contenuto che è dato da due proprietà: la discorsività e l’autonomia. Queste ultime si realizzano mediante il principio dell’autogoverno, o più precisamente, della deliberazione democratica: in tal caso, il cittadino ha l’obbligo di osservare le norme ed in particolar modo le norme alla cui produzione ha potuto contribuire mediante deliberazione.
Pertanto, va a crearsi un circolo virtuoso tra diritti e democrazia (sia all’interno di una comunità politica effettiva, uno Stato sia all’interno di una governance, espressione di un più ampio dominio di fatti e diffuso e non di un’amministrazione politica e istituzionale); in cui quest’ultima simula istituzionalmente la situazione normativa intersoggettiva morale nella quale quei diritti hanno origine.
A fronte di quanto succitato, comunque la governance, proprio per il suo carattere non istituzionale, non consente la completa instaurazione del circolo virtuoso democratico e tradisce, dunque, la vigenza e la stessa efficacia della situazione morale.
Nella governance globale, a titolo esemplificativo, i diritti umani, cui viene negata l’istituzionalizzazione cosmopolitica, rischiano di svolgere un ruolo meramente ideologico; sospinti dalle emergenti regressioni localistiche che pongono in discussione la salda connessione tra diritti umani e diritti fondamentali. Naturalmente, uno Stato che non riconosca al cittadino anche l’essere umano, come soggetto giuridico in senso proprio, mina gli stessi diritti fondamentali del cittadino; corrodendone le fondamenta della nozione di diritto dell’uomo: «una cittadinanza senza diritti dell’uomo perde il proprio senso profondo e si trasforma in un meccanismo di riproduzione autopoietica del sistema politico, priva ormai di aperture di senso rispetto ad altri territori sociali»(43) .
Un quadro ancor più aggravato da una globalizzazione in cui la sfera delle relazioni diviene eminentemente il prodotto di un’accelerazione ed intensificazione delle trasmissioni ed in cui la condizione umana si caratterizza altrettanto per essere quella dell’emittente e/o del ricevente o del fruitore delle informazioni; sotto l’egida di una globalizzazione, a sua volta ed ulteriormente, contraddistinta da una radicalizzazione della manipolazione tecnica dell’ambiente di vita e che induce a diffondere l’idea dell’altro come un conosciuto non conoscente, rispetto a conoscenti non conosciuti.
Pertanto,
La realtà organica materiale ed esteriore del proprio corpo, si fa accessibile ad altri soggetti e può essere condizionata dai loro comportamenti, senza che per il primo abbia un’uguale accessibilità della corporeità dei secondi, che talora, addirittura, gli è impossibile raggiungere e interpellare, anche solo per conoscere meglio la propria esteriorità. Tutto ciò abbassa la soglia e riduce l’ambito della reciprocità e simmetria delle relazioni umane, spingendo verso l’emergenza di ulteriori forme di disuguaglianza, di dominio(44) .
In un contesto sociale comune, da ritenersi il presupposto essenziale della convivenza civile, costantemente messo a rischio anche dall’esponenziale assenza di dialogo e della più ampia convivenza sociale (che genera a sua volta forme di colloquio e corresponsabilità), il diritto umano assume maggiormente un ruolo nevralgico anche ai fini di una corretta e libera informazione (ergo, un diritto al libero accesso all’informazione ed ai mezzi di informazione). Una libertà di informazione che trova le sue basi nella centralità del dialogo e nella correlata libertà di espressione, all’interno della costituenda situazione morale: la libertà non ha modo di esistere se non vi è anche la libertà di constatare che libertà stessa sussiste. Conseguentemente, «i mezzi d’informazione, dunque, devono essere sottratti all’arbitrio dei potentati capitalistici, ai monopoli privati e, in gran parte, anche al gioco ed al giogo del mercato, per risultare, invece, integrati entro una sfera pubblica degna di questo nome, nella quale il diritto di informare sia assicurato a tutti e sia egualmente distribuito»(45) .
In tale analisi, è necessario precisare laconicamente l’assunto che il primo diritto umano è il diritto di parola, nell’alveo di una rapporto dialettico tra l’esercizio pieno di un diritto fondamentale e i limiti imposti al diritto stesso. Dunque, lo stesso rientra nel “catalogo” delle libertà fondamentali che seppur sia incardinato su capisaldi invalicabili, si arricchisce costantemente grazie alla continuativa necessità di rendere equilibrato il rapporto con i limiti e le emergenti istanze; sempre in vista di un bilanciamento tra la pienezza e l’effettività del diritto ed il rispetto delle contestuali esigenze di tutela di cui gli ordinamenti democratici ne sono nunzi(46).
5. L’evoluzione della democrazia in raffronto ai modelli classici e post-classici
In una contemporaneità investita dal fenomeno della globalizzazione, è necessario comprendere chiaramente il significato del termine “democrazia” ed il contestuale uso.
Un termine indubbiamente divenuto strumento anche di retorica politica e di presunzione ideologica, sino a giungere – a titolo esemplificativo – negli Stati Uniti all’utilizzo generalizzato del termine democracy da parte dei leader politici per esaltare il proprio regime e per discriminare sul piano internazionale le strutture istituzionali dei cd. “Stati Canaglia” (altresì chiamati rogue states). Un termine che, dal suo significato originario di ispirazione ateniese, ha assunto una diversa connotazione e senso, in tempi di espansione globale del potere politico, economico e militare: dai modelli di agorà e di ecclesia si giunge alla presenza di partiti politici non più concretamente rappresentativi del dèmos e trasmettenti fedelmente le esigenze e le aspettative di quest’ultimo dinanzi ai vertici del potere statale.
Tenuto conto di ciò, è utile anche riconoscere la sussistenza della “dottrina pluralistica” della democrazia, affermatasi in Occidente dopo la seconda guerra mondiale ma ormai in declino. Una teorizzazione che affonda le sue radici nella figura Joseph Schumpeter(47) , sostenendo che la democrazia si fonda su tre principi: il pluralismo elitario teso alla conquista, il carattere alternativo della sua programmazione e strutturazione, la presenza di una competizione elettorale libera e pacifica per la scelta di un élite governativa (in cui i partiti perdono la capacità di essere dei canali di rappresentanza politica volontariamente sostenuti dai propri militanti ed elettori, irrobustiti però anche da ingenti forme di autofinanziamento(48) ).
Un tesi sostenuta anche da Robert Dahl, John Plamenatz, Raymond Aron, Giovanni Sartori (49), i quali hanno sostenuto la necessità di affidare il governo del potere ad una ristretta classe dirigente (tesa sostanzialmente al soddisfacimento degli interessi privati (50)), contrassegnata da competenze specifiche e scelta dal popolo «incompetente» che le affida il potere di comando ed alla quale deve ubbidire disciplinatamente.
Negli ultimi decenni, però, tale teoria si è rivelata di scarsa applicazione a causa anche di una “rivoluzione” tecnologico-informatica e del potere di corporations internazionali che hanno permesso la diffusione su scala mondiale dell’economia di mercato; di cui anche il diritto internazionale ne subisce le influenze e le ingerenze. Parimenti la sovranità politica degli Stati nazionali si è infiacchita, la funzione dei Parlamenti ha subito una forte limitazione dalla burocrazie pubbliche e private ed il potere esecutivo ha assunto un ruolo sempre più egemonico, alterando quest’ultimo la divisione dei poteri (elemento caratteristico del Rechtsstaat eurocontinentale e del rule of law anglo-americano).
Ergo, si va ad instaurare e a radicare la cosiddetta “nuova classe capitalistica transnazionale”; la cui funzione – in virtù della posizione egemonica assunta – è in sintesi quella di investire il proprio potere e contestualmente il proprio denaro entro circuiti finanziari informali (anche occulti), attraverso i quali procedono alla distribuzione di risorse finanziarie, vantaggi e privilegi di varia natura. In questo modo contribuiscono ad alimentare la solidarietà e gli interessi sui quali essi stessi si reggono, aventi una dimensione sovranazionale(51) .
Pertanto, dalla cornice interpretativa esposta, ne emerge un “doppio Stato”, così come teorizzato da Alan Wolfe(52) e Norberto Bobbio (53): uno “Stato invisibile”, una sorta di substrato di formalità democratiche, che convive con uno “Stato visibile”. In particolar modo, Bobbio indica uno specifico ambito di invisibilità del potere, intessuto da un intreccio fra la politica nazionale e l’economia mondiale (54). Un “doppio Stato” che, secondo Danilo Zolo, si è evoluto nella cd. “tele-oligarchia post-democratica” (55): «una post-democrazia nella quale la grande maggioranza dei cittadini non “sceglie” e non “elegge”, ma ignora, tace e obbedisce», in cui l’opinione pubblica – all’interno di uno Stato – non possiede fonti di informazione indipendenti da un sistema “telecratico” nazionale ed internazionale (56)incentrato frequentemente su una «comunicazione “subliminale” che stimola le pulsioni acquisitive in una chiave politica fortemente conservatrice e ispirata ai valori dell’economia capitalistica ormai dominante a livello globale» (57).
Un potere comunicativo, ed in particolar modo televisivo, che – secondo il Bobbio – ha generato dunque un potere del mezzo televisivo tale da causare un’inversione del rapporto fra i cittadini controllori e i cittadini controllati: le ristrette minoranze dei funzionari di partito e degli eletti perseguono un controllo delle masse degli elettori e non viceversa (58).
Parimenti, come intuito da Kelsen, il Parlamento – privato di funzioni autonome – si sostituisce fattivamente alla presunta volontà del “popolo sovrano”, mentre la sovranità popolare ne diviene una “maschera totemica”(59) .
A riguardo invece dell’analisi di Bobbio, lo stesso aveva anche redatto un catalogo delle “promesse non mantenute” della democrazia moderna, fra cui la paralisi dell’autodeterminazione popolare; l’autonomia intellettuale delle persone minacciata dall’industria culturale; l’eguaglianza sociale osteggiata dalle forme capitalistiche della produzione; la trasparenze delle decisioni politiche vanificata dall’intervento partitico(60) .
Mentre Niklas Luhmann ha sostenuto come il consenso politico dei cittadini sia diventato gradualmente sempre più debole; in virtù principalmente di una procedura elettorale – basata sui principi della generalità del suffragio, dell’eguaglianza del voto e della sua segretezza – oramai indirizzata a neutralizzare e rendere puramente formale il ruolo degli elettori, scevra di ogni “volontà popolare” ed auto-obbligante nei confronti delle decisioni delle élite di governo.
Dunque un consenso democratico (ergo, il consenso politico dei cittadini) oramai divenuto una mera finzione, una formula ritualistica di giustificazione ideologica della politica.
Ad oggi, però, le analisi di Kelsen, Bobbio e Luhmann, nonostante l’intrinseco valore e l’indubbia acutezza, possono dirsi insufficienti rispetto alle sfide di un mondo globalizzato, di una società globale e di un potere politico internazionale concentrato; all’interno di un perdurante annichilimento della capacità evolutiva delle istituzioni democratiche (61).
6. Dallo Stato sociale allo Stato penale: la democrazia a confronto con le istanze giustizialiste
L’economia di mercato ha arrecato una grave crisi allo Stato democratico nella sua forma del Welfare State, coinvolgendo interamente le istituzioni liberaldemocratiche occidentali. A stretto giro, è necessario affrontare il tema della sicurezza, il cui stesso termine è sempre meno associato ai legami di appartenenza sociale, alla solidarietà, all’assistenza o ancor meglio alla garanzia democratica di trascorrere una vita lontana dall’indigenza, dalla morte precoce e/o da malattie gravemente invalidanti. Dunque un concetto il cui significato sta mutando gradualmente: da un’interpretazione tesa ad un riconoscimento dell’identità delle persone e della loro partecipazione alla vita sociale ad una nella quale la sicurezza viene intesa come una difesa – di natura anche poliziesca – degli individui da possibili atti di aggressione oltreché come repressione o punizione di condotte.
A tal proposito Zygmunt Bauman, in Liquid Fear, ha sostenuto che, nell’epoca della globalizzazione, la sicurezza all’interno degli Stati è intravista come “incolumità individuale” sulla base dell’assunzione – spesso a priori e/o fondata su dati parziali – di un incremento della criminalità (62). Dunque, una “cultura del controllo” incentrata sulla difesa, sulla militarizzazione territoriale e sulla trasformazione delle politiche penali e di repressione: una trasformazione per la quale Loïc Wacquant ha coniato l’espressione “dallo Stato sociale allo Stato penale”(63) .
Uno Stato penale connaturato sostanzialmente dall’ideologia penale della Zero tolerance, che si è affermata negli Stati Uniti e che la deriva della globalizzazione ha poi rapidamente diffuso in molti Paesi occidentali; sfociando in ultima istanza ad un capillare controllo del territorio, ad una repressione inflessibile dei comportamenti devianti di soggetti marginali rispetto ai modelli di conformismo sociale e pertanto sommariamente ritenuti i principali responsabili di disordini e di insicurezze sociali.
A titolo esemplificativo, basterebbe riflettere che dal 1980 ad oggi negli Stati Uniti la popolazione penitenziaria si è più che triplicata, raggiungendo nel 2007 la cifra di oltre 2.300.000 detenuti. Inoltre vi sono oltre quattro milioni di cittadini sottoposti alle misure alternative della probation e della parole, portando ad avere oltre sei milioni di persone sottoposte a una qualche forma di misura penale per “ridurre la paura” nel “Paese della libertà”(64) .
Tutto ciò in un emergente fenomeno di privatizzazione delle carceri, il cd. correctional business, in cui viene meno il modello di carcere come luogo di “rieducazione” e di “risocializzazione” del reo a fronte di logiche tese ad una massimizzazione del profitto e all’annientamento dei soggetti devianti secondo una fervore giustizialista che esalta le virtù terapeutiche del carcere e la pena di morte come metodo punitivo(65) .
7. Autonomia cognitiva e sicurezza: la misura della libertà. Elementi conclusivi
Dinanzi alla deriva “post-democratica” che investe l’Occidente risulta essere alquanto complesso poter rintracciare una sintesi efficace, adeguata ed esaustiva.
Una sintesi che può comunque trovare almeno un punto di partenza nella considerazione che i movimenti progressisti – di fronte agli irreversibili processi di globalizzazione – devono tracciare una netta distanza con il codice delle certezze marxiste, ma senza abbandonare la visione generale del mondo di cui ne è proprio. A tal proposito Bobbio ha scritto che il marxismo ha insegnato a vedere la storia umana dal punto di vista degli oppressi e a mettere da parte il moralismo politico per una scelta realista e conflittualistica(66) . A ciò si aggiunge l’obiettivo di salvaguardare valori e diritti umani: anzitutto i diritti sociali e i “nuovi diritti” come – ne sono ad esempio – il diritto alla vita, il diritto all’ambiente, il diritto all’acqua, il diritto alla pace.
Quindi, cercare strenuamente di tutelare e difendere lo status dei diritti soggettivi e la loro funzione di protezione; confrontandosi con il tentativo neo-liberale di eliminare nella totalità il Welfare State e superando l’utopica e retorica idea dell’uguaglianza sociale (odiernamente erosa da un’intrinseca esigenza sociale di diseguaglianza e di anticonformismo) oltreché il mito cosmopolita dell’unificazione politica del mondo (rispetto all’istituto della cittadinanza ed al concetto di identità etnica).
In sostanza, emerge un bisogno di libertà “negativa”, ergo di una libertà a non essere “bloccati” da costrizioni esterne di qualsivoglia natura, secondo la formulazione teorica di Isaiah Berlin (67); sostenuta da una “autonomia cognitiva”, così come teorizzato da Zolo. Per autonomia cognitiva, si intende la capacità del soggetto di gestire, controllare, interpretare, definire e filtrare le comunicazioni che riceve, all’interno di società informatizzate nelle quali i diritti di libertà e politici risulterebbero essere svuotati di senso e contenuto in assenza dell’autonomia cognitiva. In mancanza della suddetta autonomia, il cittadino non è in grado di produrre un’opinione indipendente dai processi di autolegittimazione delle élites politiche e dall’azione pervasiva e persuasiva dei mezzi di comunicazione di massa.
Naturalmente, così come delineato da Zolo, l’autonomia non implica un recidere i legami di appartenenza e di identità ad un gruppo sociale e culturale.
«Non c’è autonomia e libertà senza radici nella particolarità di un territorio, senza identificazione intellettuale, sentimentale ed emotiva con una storia, una cultura, una lingua, un destino comune. E non c’è sicurezza ma dispersione e solitudine senza solidarietà, condivisione, un senso di omogeneità, una qualche spontanea intimità nei rapporti sociali. Solo chi dispone di solide radici identitarie riconosce l’identità altrui, rispetta la differenza, cerca il dialogo con gli altri, rifugge da ogni fondamentalismo e dogmatismo (…)»(68) .
In conclusione, le radici sono il sostrato imprescindibile ed immancabile per garantire autonomia e libertà nell’agito del soggetto all’interno delle società e delle istituzioni; mentre la solidarietà e la condivisione sono le necessarie misure per l’esplicarsi di una soppesata sicurezza sociale e collettiva.
Mentre l’identità è lo strumento primo per difendersi dalla forza omologante della globalizzazione e dal più ampio rischio dell’anonimato(69) , nell’alveo di una societas connotata da precarietà, ibridazione ed incertezza.
NOTE
(1)Cfr. M. RICCIARDI, Dallo Stato moderno allo Stato globale. Storia e trasformazione di un concetto, in «Scienza & Politica. Per una storia delle dottrine», vol. XXV, n. 48, 2013, p. 75.
(2)Cfr. W. REINHARD, La storia come delegittimazione (Discorso tenuto in occasione dell’attribuzione di un importante premio storico, Monaco, 23 novembre 2001), in «Scienza & Politica. Per una storia delle dottrine», vol. XIV, n. 27, 2002. In versione telematica: https://scienzaepolitica.unibo.it/article%20/view/2895.
(3)Cfr. i tre saggi di M. SPARKE, Political Geography: Political Geographies of Globalization (1) – Dominance, in «Progress in Human Geography», vol. 28, n. 6, 2004, pp. 777–794; Political Geography: Political Geographies of Globalization (2) – Governance, «Progress in Human Geography», vol. 30, n. 2, 2006, pp. 1–16; Political Geography – Political Geographies of Globalization III: Resistance, in «Progress in Human Geography», vol. 32, n. 3, 2008, pp. 423–440.
(4)Q. SKINNER, The Sovereign State: A Genealogy, in H. KALMO – Q. SKINNER (eds), Sovereignty in Fragments: The Past, Present and Future of a Contested Concept, Cambridge University Press, Cambridge 2010, pp. 27 e 46.
(5)M. RICCIARDI, Dallo Stato moderno allo Stato globale, p. 78.
(6)P. PERULLI, Il dio contratto. Origine e istituzione della società contemporanea, Giulio Einaudi Editore, Torino 2012.
(7)M. CALISE – T.J. LOWI, Hyperpolitics. An Interactive Dictionary of Political Science Concepts, The University of Chicago Press, Chicago – London 2010.
Con tale terminologia, inoltre, si riprende la formula letterale Bringing the State Back in, usata per affermare il concetto di un’autonomia di Stato come istituzione.
Per approfondire su quest’ultimo argomento: B. EVANS – D. RUESCHEMEYER – T. SKOCPOL (eds), Bringing the State Back in, Cambridge University Press, Cambridge – New York 1985.
(8)M. RICCIARDI, Dallo Stato moderno allo Stato globale, p. 79.
(9)H. HOFMANN, La libertà nello Stato moderno. Saggi di dottrina della Costituzione, Guida Editori, Napoli 2009, p. 55.
Cfr. M. RICCIARDI, Dallo Stato moderno allo Stato globale, p. 80.
(10)H. WILLKE, Ironie des Staates. Grundlinien einer Staatstheorie polyzentrischer Gesellschaft, Suhrkamp Insel, Frankfurt am Main 1992; H. WILLKE, Governance in a Disenchanted World. The End of Moral Society, Edward Elgar Publishing, Cheltenham, Northampton (MA) 2009.
(11)A. PASSERIN D’ENTRÈVES, La dottrina dello Stato. Elementi di analisi e di interpretazione, G. Giappichelli Editore, Torino 2009 3, p. 92.
(12)D. EASTON, The Political System. An Inquiry into the State of Political Science, in «Political Science Quarterly», New York 1953, p. 106.
(13)M. RICCIARDI, Otto Hintze, lo stato e il problema della pratica storica, in «Contemporanea», vol. XIII, 2010, pp. 163 – 171.
(14)Cfr. M. RICCIARDI, Dallo Stato moderno allo Stato globale, p. 81.
(15)P. BOURDIEU, Sur l’État. Cours au collège de France 1989-1992, Editions Seuil, Paris 2012, p. 19.
(16)M. SHAW, Theory of the Global State. Globality as Unfinished Revolution, The Cambridge University Press, Cambridge 2000, p. 255.
(17)M. RICCIARDI, Dallo Stato moderno allo Stato globale, p. 81.
(18)A. ROSS, Il nostro futuro. Come affrontare il mondo dei prossimi vent’anni, Feltrinelli Editore, Milano 2016, p. 152 – 153.
(19)Per approfondire: M. RICCIARDI, The Stalemate of Sovereignty: Talcott Parsons and the Eve of a Global Social System, in F. FASCE – M. VAUDAGNA – R. BARITONO (eds), Beyond the Nation: Pushing the Boundaries of U.S. History from a Transatlantic Perspective, Otto Editore, Torino 2013, pp. 205-224.
(20)S. PICCIOTTO, Regulating Global Corporate Capitalism, The Cambridge University Press, Cambridge 2011.
(21)M. RICCIARDI, Dallo Stato moderno allo Stato globale, p. 82.
(22)G.C. SPIVAK, Critica della ragione postcoloniale. Verso una storia del presente in dissolvenza, Meltemi Editore, Roma 2004.
(23)Cfr. il capitolo sul Colonial Constitutionalism in R. SAMADDAR, The Materiality of Politics. The Technologies of Rule, in «Anthem South Asia Studies», Anthem Press, London 2007.
(24)P. CHATTERRJEE, Sovereign Violence and the Domain of the Political, in T.B. HANSEN – F. STEPPUTAT (eds), Sovereign Bodies. Citizens, Migrants, and States in the Postcolonial World, Princeton University Press, N.J. – Oxford 2005, pp. 82-100.
(25)G. TEUBNER, Costituzionalismo societario: alternative alla teoria costituzionale stato-centrica, in G. TEUBNER, La cultura del diritto nell’epoca della globalizzazione, Feltrinelli Editore, Roma 2005, p. 110.
(26)R. SAMADDAR, The Materiality of Politics, p. 156.
(27)M. RICCIARDI, Dallo Stato moderno allo Stato globale, p. 85.
(28)TUONG VU, Studying the State through State Formation, in «World Politics», vol. 62, n. 1, 2010, pp. 148-175.
(29)M. RICCIARDI, Dallo Stato moderno allo Stato globale, p. 85.
(30)A. TOCQEVILLE, La democrazia in America, in A. TOCQUEVILLE, Scritti politici, UTET, Torino 1968, vol. II, p. 45.
(31)S. SASSEN, Territory, Authority, Rights. From Medieval to Global Assemblages, Princeton University Press, Princeton – Oxford 2006, pp. 76-82.
(32)M. RICCIARDI, Dallo Stato moderno allo Stato globale, p. 87.
(33)M. RICCIARDI, Dallo Stato moderno allo Stato globale, p. 88.
(34)F. GIROTTI, Welfare State. Storia, modelli e critica, Carocci Editore, Roma 2004 4, p. 353.
(35)Per approfondire: F. GIACOMANTONIO, Sociologia dell’agire politico. Bauman, Habermas, Žižek, Studium, Roma 2014.
(36)Per approfondire: Z. BAUMAN, La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli Editore, Milano 2000.
(37)Per approfondire: S. ŽIŽEK, Il soggetto scabroso. Trattato di ontologia politica, Raffaello Cortina, Milano 2003.
(38)http://mimesis-scenari.it/2016/02/23/linsidia-del-totaliberismo/.
(39)Per approfondire: A. ALMOND, Cultura civica e sviluppo politico, Il Mulino, Bologna 2005, p. 256.
(40)Cfr. A, VITTORIA, Il Welfare oltre lo Stato. Profili di storia dello Stato sociale in Italia, tra istituzioni e democrazia, in «L’Economia Sociale», G. Giappichelli Editore, Torino 2012, p. 65.
Cfr. R. ANTONINI, The perception of subtitled humor in Italy, in «International Journal Humor Research», 2005.
Quest’ultimo contributo è anche in versione telematica: http://academic.csuohio.edu/kneuendorf/frames/subtitling/Antonini.2005.pdf.
(41)https://www.avvenire.it/agora/pagine/spettro-del-totalitarismo.
(42)Per confrontare ed approfondire: AA. VV., Diritto, politica e realtà sociale nell’epoca della globalizzazione. Atti del XXIII Congresso nazionale della Società italiana di Filosofia giuridica e politica, in G. TORRESETTI, Macerata 2002, p. 362 e ss.
Anche in versione telematica: http://eum.unimc.it/it/monografie/158-diritto-politica-e-realta-sociale-nellepoca-della-globalizzazione
(43)M. LA TORRE, I diritti umani nella globalizzazione, in G. TORRESETTI, Diritto, politica e realtà sociale nell’epoca della globalizzazione. Atti del XXIII Congresso nazionale della Società italiana di Filosofia giuridica e politica, Macerata 2002, p. 364.
(44)M. LA TORRE, I diritti umani nella globalizzazione, p. 364.
(45)M. LA TORRE, I diritti umani nella globalizzazione, p. 364.
(46)Per confrontare ed approfondire: http://www.iusinitinere.it/liberta-despressione-diritto-fondamentale-indice-democrazia-3022.
(47)Per approfondire: J. SCHUMPETER, Capitalism, Socialism and Democracy, Allen and Unwin, London 1987.
(48)Per approfondire: D. ZOLO, Il ‘doppio Stato’ e l’autoreferenza del sistema dei partiti, in D. Zolo, Complessità e democrazia, G. Giappichelli Editore, Torino 1987, pp. 137-53.
(49)Per approfondire: R. DAHL, Democracy and Its Critics, Yale University Press, New Haven 1989; J. PLAMENATZ, Democracy and Illusion, Longman, London 1973; R. ARON, Démocratie et totalitarisme, Gallimard, Paris 1965; G. SARTORI, Democrazia e definizioni, il Mulino, Bologna 1957.
(50)Per approfondire: L. SKLAIR, The Transnational Capitalist Class, Blackwell, Oxford 2001; L. SKLAIR, The end of capitalist globalization, in M.B. STEGER, Rethinking Globalism, Rowman and Littlefield, Maryland 2004, pp. 39-49; L. SKLAIR, The globalization of human rights, in «Journal of Global Ethics», vol. 5, n. 2, 2009, pp. 81-96; L. GALLINO, Con i soldi degli altri. Il capitalismo per procura contro l’economia, Einaudi, Torino 2009, pp. 123-40.
(51)N. LUHMANN, Politische Planung, Westdeutscher Verlag, Opladen 1971, pp. 9-45, 53-89.
(52)A. WOLFE, The limits of Legitimacy: Political Contradictions of Contemporary Capitalism, The Free Press, New York 1977.
(53)N. BOBBIO, Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino 1984, pp. 16-8, 75-100.
(54)Per approfondire: D. ZOLO, Complessità e democrazia, pp. 137-42.
(55)Per approfondire: C. CROUCH, Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari 2003.
(56)Cfr. http://www.juragentium.org/topics/wlgo/it/tramonto.htm#2.
(57)Cfr. http://www.juragentium.org/topics/wlgo/it/tramonto.htm#2.
(58)N. BOBBIO, L’utopia capovolta, La Stampa, Torino 1990, p. XV.
(59)H. KELSEN, General Theory of Law and State, Harvard University Press, Cambridge 1945.
(60)Cfr. D. ZOLO, Il principato democratico. Per una teoria realistica della democrazia, Feltrinelli, Milano 1992, pp. 121-34.
(61)Cfr. http://www.juragentium.org/topics/wlgo/it/tramonto.htm#2.
(62)Z. BAUMAN, Liquid Fear, Polity Press, Cambridge 2006; Z. BAUMAN, Globalization. The Human Consequences, Columbia University Press, New York 1998.
(63)L. WACQUANT, Le prisons de la misère, Editions Raisons d’agir, Paris 1999.
(64)Per approfondire: L. RE, Carcere e globalizzazione. Il boom penitenziario negli Stati Uniti e in Europa, Laterza, Roma-Bari 2006.
(65)Cfr. http://www.juragentium.org/topics/wlgo/it/tramonto.htm#2.
(66)N. BOBBIO, Politica e cultura, Einaudi, Torino 1955, p. 281.
(67)I. BERLIN, Two Concepts of Liberty, in I. BERLIN, Four Essays on Liberty, Oxford University Press, Oxford 1969.
(68)Cfr. http://www.juragentium.org/topics/wlgo/it/tramonto.htm
(69)Per approfondire: http://tesi.cab.unipd.it/42877/1/Stocco_Ilaria_2013.pdf.
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