La Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 21-bis legge 1975, n. 354/1975
E’ illegittimo costituzionalmente l’art. 21-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui, attraverso il rinvio al precedente art. 21, con riferimento alle detenute condannate alla pena della reclusione per uno dei delitti di cui all’art. 4-bis, commi 1, 1-ter e 1-quater, della legge n. 354 del 1975, non consente l’accesso all’assistenza all’esterno dei figli di età non superiore agli anni dieci oppure lo subordina alla previa espiazione di una frazione di pena, salvo che sia stata accertata la sussistenza delle condizioni previste dall’art. 58-ter della medesima legge.
Il fatto
Con ordinanza del 22 maggio 2017, il Magistrato di sorveglianza di Lecce e quello di Brindisi sollevavano, in riferimento agli artt. 3, 29, 30 e 31 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 21-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui tale disposizione, facendo rinvio all’art. 21 della medesima legge n. 354 del 1975, esclude dal beneficio dell’assistenza all’esterno dei figli di età non superiore agli anni dieci il detenuto condannato «per reato ostativo» che non abbia ancora espiato almeno un terzo della pena.
Le questioni di legittimità costituzionale erano state a loro volta sollevate dal giudice chiamato a decidere il reclamo presentato, ex art. 35-bis della legge n. 354 del 1975, da M. D.D., condannata alla pena di quattro anni e dieci mesi di reclusione per i delitti di cui agli artt. 73 e 74 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), con fine pena al 30 maggio 2021.
Il giudice a quo ricordava come la condannata, in quanto madre di tre figli (due gemelli di cinque anni e un figlio di tre anni), avesse chiesto all’amministrazione penitenziaria di essere ammessa all’assistenza all’esterno dei figli minori ai sensi dell’art. 21-bis della legge n. 354 del 1975, ma che tale istanza fu rigettata, in quanto M. D.D. non aveva ancora espiato un terzo della pena mentre per contro tale requisito era previsto dall’art. 21, comma 1, cui rinvia la disposizione da ultimo citata, per i detenuti condannati per uno dei reati elencati all’art. 4-bis, commi 1, 1-ter e 1-quater, della legge n. 354 del 1975.
Posto ciò, il difensore di M. D.D., nell’insistere per l’accoglimento del reclamo, deduceva l’illegittimità costituzionale del ricordato art. 21-bis.
Le argomentazioni prospettate nell’ordinanza di rimessione
Il Magistrato di sorveglianza di Lecce e Brindisi dubitava della legittimità costituzionale dell’art. 21-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui tale disposizione, facendo rinvio a quanto disposto al precedente art. 21 della medesima legge n. 354 del 1975, esclude dal beneficio dell’assistenza all’esterno dei figli di età non superiore agli anni dieci il detenuto condannato «per reato ostativo» che non abbia ancora espiato almeno un terzo della pena.
La disposizione censurata, al comma 1, prevede che le condannate e le internate possono essere ammesse a tale beneficio alle condizioni previste dal precedente art. 21 e quest’ultimo precetto normativo, in tema di accesso dei detenuti al lavoro all’esterno, al comma 1, dispone che, in caso di condanna alla pena della reclusione per uno dei delitti indicati nei commi 1, 1-ter e 1-quater, dell’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975, il beneficio può essere concesso dopo l’espiazione di almeno un terzo della pena in carcere e, comunque, di non oltre cinque anni. Nei confronti dei condannati all’ergastolo l’assegnazione al lavoro all’esterno può avvenire dopo l’espiazione di almeno dieci anni.
Secondo il rimettente, l’esclusione dal beneficio dell’assistenza all’esterno dei figli minori per la detenuta condannata «per reato ostativo» che non abbia ancora espiato almeno una parte di pena – esclusione derivante dal sistema normativo appena descritto – si sarebbe posto in contrasto con gli artt. 3, 29, 30 e 31 della Costituzione in quanto la disposizione censurata finirebbe per contenere un «automatismo di preclusione assoluta» all’accesso al beneficio e impedirebbe al giudice, laddove non sia ancora stata espiata una parte di pena, di bilanciare le esigenze di difesa sociale con l’interesse del minore, pregiudicando il diritto di quest’ultimo a mantenere un rapporto con la madre all’esterno del carcere (diritto, peraltro, già riconosciuto dalla Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176, e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007).
Secondo il giudice a quo, inoltre, la disposizione censurata si inserirebbe disarmonicamente in un sistema che già consente alle madri condannate per delitti ostativi di essere da subito ammesse, a prescindere dall’entità della pena da espiare, sia alla misura alternativa della detenzione domiciliare ordinaria, nelle ipotesi in cui è possibile disporre il rinvio obbligatorio o facoltativo dell’esecuzione della pena ai sensi degli artt. 146 e 147 del codice penale (art. 47-ter, comma 1-ter, della legge n. 354 del 1975), sia, in forza della sentenza della Corte costituzionale n. 76 del 2017, alla misura della detenzione domiciliare speciale (art. 47-quinquies, comma 1-bis, della legge n. 354 del 1975).
Le valutazioni giuridiche formulate dalla Consulta
Il giudice delle leggi riteneva la questione fondata alla stregua delle seguenti considerazioni.
Prima di entrare nel merito della questione sottoposta al suo vaglio giudiziale, i giudici di legittimità costituzionale evidenziavano prima di tutto come l’art. 21-bis della legge n. 354 del 1975 era stato introdotto dall’art. 5 della legge 8 marzo 2001, n. 40 (Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori), al fine di ampliare le possibilità, per la madre detenuta che non abbia ottenuto la detenzione domiciliare ordinaria o la detenzione domiciliare speciale, di provvedere alla cura dei figli, in un ambiente non carcerario, per un periodo di tempo predeterminato nel corso della giornata e, come emerge dai lavori preparatori della legge n. 40 del 2001 (ed in particolare dalla Relazione illustrativa al disegno di legge C-4426 presentato alla Camera dei deputati il 24 dicembre 1997) il legislatore, da un lato, aveva inteso ampliare le modalità che assicurano la continuità della funzione genitoriale, dall’altro, aveva ritenuto che i compiti di cura dei figli minori abbiano «lo stesso valore sociale e la stessa potenzialità risocializzante dell’attività lavorativa» e, per tale ragione, le condizioni alle quali è possibile ottenere il beneficio dell’assistenza all’esterno ai figli di età non superiore agli anni dieci coincidono con quelle previste per l’accesso al lavoro all’esterno.
L’art. 21-bis della legge n. 354 del 1975, quindi, rinvia al precedente art. 21, che prevede, per i condannati alla pena della reclusione per uno dei delitti indicati nei commi 1, 1-ter e 1-quater, dell’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario, che l’accesso al lavoro all’esterno sia subordinato alla previa espiazione di almeno un terzo della pena detentiva, e comunque di non oltre cinque anni, oppure almeno di dieci anni in caso di condannati alla pena dell’ergastolo.
Una volta individuate le coordinate normative che connotato questa disposizione legislativa, la Consulta rilevava come le sollevate questioni sulla disposizione in tema di accesso all’assistenza all’esterno ai figli in tenera età ponessero il seguente quesito: se sia costituzionalmente corretto che i requisiti previsti per ottenere un beneficio prevalentemente finalizzato a favorire, al di fuori della restrizione carceraria, il rapporto tra madre e figli in tenera età siano identici a quelli prescritti per l’accesso al diverso beneficio del lavoro all’esterno, il quale è esclusivamente preordinato al reinserimento sociale del condannato, senza immediate ricadute su soggetti diversi da quest’ultimo.
Dedotto ciò, la Corte costituzionale osservava che, per inquadrare correttamente le questioni sottoposte all’esame della Corte, occorreva premettere che l’art. 21, nella parte in cui regola l’accesso al beneficio per i condannati per uno dei delitti elencati all’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975, deve essere interpretato in base a quanto disposto dagli artt. 4-bis e 58-ter della medesima legge atteso che tali due ultime disposizioni consentono un accesso ai benefici penitenziari differenziato a seconda del titolo di reato per i quali i condannati scontano la pena, nonché a seconda della condizione in cui essi si trovano in punto di collaborazione con la giustizia.
Ebbene, nell’analizzare queste due ultime norme da essa richiamate, la Consulta osservava che se in base al citato art. 4-bis i condannati per i delitti elencati nel comma 1 del medesimo articolo (tra i quali è da annoverare la madre detenuta di cui si tratta nel giudizio a quo) possono accedere ai benefici previsti dall’ordinamento penitenziario solo qualora collaborino con la giustizia a norma dell’art. 58-ter della stessa legge, per parte sua, l’art. 58-ter prevede, tra l’altro, con riferimento alle persone condannate per taluno dei delitti indicati nei commi 1, 1-ter e 1-quater, dell’art. 4-bis, che l’aver scontato almeno la parte di pena detentiva prevista al comma 1 dell’art. 21 non costituisce presupposto necessario per l’accesso al lavoro all’esterno (e dunque, per quel che qui interessa, all’assistenza all’esterno ai figli minori) se, anche dopo la condanna, si sono adoperati per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero hanno aiutato concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati.
Dalla lettura congiunta di questi precetti normativi, si evidenziava dunque come l’operare congiunto delle tre disposizioni ricordate (cioè: gli artt. 21, 4-bis, comma 1, e 58-ter della legge n. 354 del 1975) comportasse, in definitiva, che l’accesso al lavoro all’esterno – e, di conseguenza, all’assistenza all’esterno dei figli minori – sia soggetto a requisiti differenziati, a seconda che il detenuto sia stato condannato per uno dei delitti elencati all’art. 4-bis, comma 1 (delitti cosiddetti di prima fascia), comma 1-ter (cosiddetti di seconda fascia) o comma 1-quater (cosiddetti di terza fascia), nonché a seconda della condizione in cui il detenuto si trovi in punto di collaborazione con la giustizia.
In particolare, rilevava sempre la Corte in questa pronuncia, i condannati per uno dei delitti elencati ai commi 1-ter (di “seconda fascia”) e 1-quater (di “terza fascia”) dell’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975, per accedere al beneficio, dovranno, alternativamente, scontare la parte di pena prevista dall’art. 21, oppure potranno ottenerlo immediatamente se collaborano attivamente con la giustizia ex art. 58-ter della legge n. 354 del 1975 mentre, stante il perentorio contenuto letterale della disposizione, i condannati per i delitti di cui al comma 1 dell’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975 (di “prima fascia”), se non collaborano con la giustizia non potranno accedere al beneficio neppure dopo aver scontato un terzo di pena (o dieci anni in caso di condanna all’ergastolo); se, invece, essi assicurino tale collaborazione seguendo le modalità previste dall’art. 58-ter, comma 1, della legge n. 354 del 1975, potranno accedervi senza dover previamente scontare una frazione di pena, secondo una soluzione interpretativa già individuata in sede di legittimità costituzionale (sentenza n. 504 del 1995; nello stesso senso, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 3 febbraio 2016, n. 37578, e sentenza 12 luglio 2006, n. 30434) fermo restando che, in base ad una interpretazione letterale delle ricordate disposizioni, debbono invece scontare una frazione di pena prima di accedere al beneficio i condannati per uno dei delitti di “prima fascia” che si trovino nelle condizioni previste dal comma 1-bis dell’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975 o, in altre parole, la previsione secondo cui è necessario scontare un terzo di pena, o dieci anni in caso di ergastolo, prima di poter accedere al beneficio del lavoro all’esterno (e, per ciò che qui interessa, all’assistenza all’esterno dei figli minori) si applica a quei condannati per uno dei delitti elencati all’art. 4-bis, comma 1, per i quali un’utile collaborazione con la giustizia risulti inesigibile a causa della limitata partecipazione al fatto criminoso accertata nella sentenza di condanna, ovvero risulti impossibile, per l’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità, operato con la sentenza irrevocabile; nonché nei casi in cui la collaborazione offerta dal condannato si riveli «oggettivamente irrilevante» (sempre che, in questa evenienza, sia stata applicata al condannato taluna delle circostanze attenuanti di cui agli artt. 62, numero 6, 114 o 116 cod. pen.), e comunque «siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva».
Dall’esame di queste norme in questi termini, pertanto, il giudice delle leggi perveniva alla conclusione secondo cui, qualunque sia la scelta della madre detenuta in punto di collaborazione con la giustizia, la disposizione censurata esibisse un contenuto normativo in contrasto con l’art. 31, secondo comma, Cost..
In particolare, si evidenziava innanzitutto come per le detenute per uno dei reati elencati all’art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975 l’accesso all’assistenza all’esterno dei figli minori fosse subordinato, quale requisito imprescindibile, a tale collaborazione, svolta secondo le indicazioni contenute nell’art. 58-ter ordin. penit. posto che, quand’anche la condannata abbia scontato una parte della pena, in assenza di collaborazione non potrà accedere al beneficio.
Più nel dettaglio, veniva altresì messo in evidenza come la situazione della detenuta, madre di figli di età non superiore agli anni dieci, ricadesse nelle valutazioni compiute da questa Corte nella sentenza n. 239 del 2014 essendosi in questa decisione, da un lato, affermato che l’incentivazione alla collaborazione con la giustizia, quale strategia di contrasto con la criminalità organizzata, può perseguirsi impedendo la fruizione di benefici penitenziari costruiti in funzione di un progresso individuale del condannato verso l’obbiettivo della risocializzazione, dall’altro, chiarito che la conclusione deve essere ben diversa quando una simile strategia non si limiti a produrre effetti sulla condizione individuale del detenuto, ma, impedendo a quest’ultimo l’accesso a un beneficio, finisca per incidere anche su terzi, e in particolare su soggetti, come i minori in tenera età, ai quali la Costituzione esige siano garantite le condizioni per il migliore e più equilibrato sviluppo psico-fisico, da un altro lato ancora, precisato che l’interesse del minore a beneficiare in modo continuativo dell’affetto e delle cure materne non forma oggetto di una protezione assoluta, insuscettibile di bilanciamento con contrapposte esigenze, pure di rilievo costituzionale, quali quelle di difesa sociale, sottese alla necessaria esecuzione della pena, con l’ulteriore precisazione secondo la quale, affinché l’interesse del minore non resti irragionevolmente recessivo rispetto alle esigenze di protezione della società dal crimine, «occorre che la sussistenza e la consistenza di queste ultime venga verificata […] in concreto […] e non già collegata ad indici presuntivi […] che precludono al giudice ogni margine di apprezzamento delle singole situazioni».
Orbene, ad avviso della Consulta, se queste considerazioni vengono riferite al caso dell’accesso all’assistenza all’esterno dei figli minori di cui all’art. 21-bis della legge n. 354 del 1975, la conclusione è obbligata dato che subordinare la concessione di tale beneficio alla collaborazione con la giustizia significa condizionare in via assoluta e presuntiva la tutela del rapporto tra madre e figlio in tenera età ad un indice legale del “ravvedimento” della condannata e, se pur sia possibile condizionare alla collaborazione con la giustizia l’accesso ad un beneficio, laddove quest’ultimo abbia di mira in via esclusiva la risocializzazione dell’autore della condotta illecita, una tale possibilità non vi è quando al centro della tutela si trovi un interesse “esterno”, e in particolare il peculiare interesse del figlio minore, garantito dall’art. 31, secondo comma, Cost., ad un rapporto quanto più possibile normale con la madre (o, in via subordinata, con il padre).
La Corte costituzionale, inoltre, evidenziava un ulteriore profilo di criticità costituzionale consistente nel fatto che, per identiche ragioni, la disposizione censurata si pone in contrasto con l’art. 31, c. 2, Cost. anche nella parte in cui condiziona alla collaborazione con la giustizia l’immediato accesso al beneficio per i condannati per uno dei delitti elencati all’art. 4-bis, commi 1-ter e 1-quater, della legge n. 354 del 1975 (cosiddetti di seconda o di terza fascia) giacché ciascuna delle ipotesi considerate finisce per subordinare l’accesso all’assistenza all’esterno al figlio minore ad una scelta in tema di collaborazione con la giustizia, in palese contrasto con quanto affermato dalla stessa Corte costituzionale nella sentenza n. 239 del 2014.
Si ravvisava tra l’altro un terzo profilo di criticità costituzionale dell’art. 21 bis della legge n. 354 del 1975, sempre in relazione all’art. 31, c. 2, Cost., anche per le conseguenze che determina in capo alle madri detenute per uno dei reati ex art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., la cui collaborazione con la giustizia sia impossibile, inesigibile o irrilevante stante il fatto che tali detenute debbono sempre scontare una parte di pena prima di accedere al beneficio e pertanto, l’amministrazione penitenziaria prima, e il giudice poi, si trovano, così, al cospetto di una presunzione assoluta e insuperabile, non essendo loro concesso di bilanciare in concreto, a prescindere da indici legali presuntivi, le esigenze di difesa sociale rispetto al migliore interesse del minore.
Ed allora quanto sin qui enunciato veniva stimato in contrasto con i principi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 76 del 2017, che aveva dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 47-quinquies, comma 1-bis, della legge n. 354 del 1975, nella parte in cui imponeva alle condannate per uno dei delitti di cui all’art. 4-bis della medesima legge di scontare una frazione di pena in carcere prima di poter accedere alla detenzione domiciliare speciale, cioè ad altra misura finalizzata a garantire il rapporto tra la madre detenuta e il figlio in tenera età in ragione del fatto che in tale sentenza si era affermato che se il legislatore, tramite il ricorso a presunzioni insuperabili, nega in radice l’accesso della madre a modalità agevolate di espiazione della pena, impedendo al giudice di valutare la concreta sussistenza, nelle singole situazioni, di esigenze di difesa sociale, bilanciandole con il migliore interesse del minore in tenera età, si è al cospetto dell’introduzione di un automatismo basato su indici presuntivi, il quale comporta il totale sacrificio di quell’interesse, tale sacrificio veniva ribadito pure nel caso di specie con riferimento all’accesso al beneficio dell’assistenza all’esterno ai figli di età non superiore agli anni dieci per le detenute per uno dei reati ex art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., la cui collaborazione con la giustizia sia impossibile, inesigibile o irrilevante, e ciò proprio in ragione del fatto che i requisiti legislativi previsti per l’accesso a un beneficio prevalentemente finalizzato a favorire, al di fuori della restrizione carceraria, il rapporto tra madre e figli in tenera età, non possono coincidere con quelli per l’accesso al diverso beneficio del lavoro all’esterno, il quale è esclusivamente preordinato al reinserimento sociale del condannato, senza immediate ricadute su soggetti diversi da quest’ultimo.
Tal che se ne faceva conseguire come l’art. 21-bis della legge n. 354 del 1975, operando invece un rinvio al precedente art. 21, e parificando i requisiti in discorso, si ponesse in contrasto con l’art. 31, secondo comma, Cost., poiché, salvo che sia stata accertata la sussistenza delle condizioni previste dall’art. 58-ter della medesima legge, con riferimento alle detenute condannate alla pena della reclusione per uno dei delitti di cui all’art. 4-bis, commi 1, 1-ter e 1-quater, non consente l’accesso all’assistenza all’esterno dei figli minori oppure lo subordina alla previa espiazione di una frazione di pena.
Infine, una volta stimate assorbite le questioni sollevate in riferimento agli altri parametri evocati dal rimettente, i giudici di legittimità costituzionale facevano notare come la presente pronuncia di accoglimento non pregiudicasse le esigenze di difesa sociale sottese alla previsione di limiti all’accesso al beneficio di cui all’art. 21-bis della legge n. 354 del 1975 per i condannati per taluno dei reati elencati all’art. 4-bis della medesima legge (siano essi la madre detenuta o, in via subordinata, il padre ex art 21-bis, comma 3) in quanto la concessione del beneficio resta pur sempre affidata al prudente apprezzamento del magistrato di sorveglianza, chiamato ad approvare il provvedimento disposto dall’amministrazione penitenziaria (ai sensi degli artt. 21, comma 4, e 69, comma 5, della legge n. 354 del 1975) proprio perché, in tale sede, infatti, l’autorità giudiziaria deve «tenere conto del tipo di reato, della durata, effettiva o prevista, della misura privativa della libertà e della residua parte di essa, nonché dell’esigenza di prevenire il pericolo che l’ammesso al lavoro all’esterno [nel caso di specie: all’assistenza all’esterno ai figli] commetta altri reati» (art. 48, comma 4, del d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, intitolato «Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà»).
Alla luce delle considerazioni sin qui esposte, dunque, la Consulta dichiarava l’illegittimità costituzionale dell’art. 21-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui, attraverso il rinvio al precedente art. 21, con riferimento alle detenute condannate alla pena della reclusione per uno dei delitti di cui all’art. 4-bis, commi 1, 1-ter e 1-quater, della legge n. 354 del 1975, non consente l’accesso all’assistenza all’esterno dei figli di età non superiore agli anni dieci oppure lo subordina alla previa espiazione di una frazione di pena, salvo che sia stata accertata la sussistenza delle condizioni previste dall’art. 58-ter della medesima legge.
Conclusioni
La sentenza in commento si palesa condivisibile in quanto si pone nell’ottica di garantire il minore nell’avere rapporti con le proprie madri, seppur condannate per gravi reati, al di fuori del circuito carcerario.
Con questa pronuncia, viene meno ogni rigido automatismo che non consentiva la possibilità di accedere all’assistenza all’esterno dei figli di età non superiore a 10 anni o permettendo ciò solo previa espiazione di una frazione di pena e per coloro che hanno collaborato con la giustizia a norma dell’art. 58 ter delle legge n. 354 del 1975.
Il rapporto tra genitrice e figlio, difatti, viene salvaguardato anche quando la madre si sia macchiata di gravi reati, e abbia deciso di non collaborare.
Al riguardo uno specifico problema sembra rimanere insoluto in questa decisione.
Se difatti il tema della prevenzione è stato affrontato nella pronuncia in esame in quanto nel decidere se concedere o meno questo beneficio, si osservava, come visto anche prima, che l’autorità giudiziaria dovesse pur sempre «tenere conto del tipo di reato, della durata, effettiva o prevista, della misura privativa della libertà e della residua parte di essa, nonché dell’esigenza di prevenire il pericolo che l’ammesso al lavoro all’esterno [nel caso di specie: all’assistenza all’esterno ai figli] commetta altri reati» (art. 48, comma 4, del d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230), rimane il problema dell’opportunità che una genitrice che abbia commesso gravi illeciti penali continui a mantenere contatti anche all’esterno con il proprio figlio nella misura in cui, sia chiaro, ciò sia gravemente pregiudizievole per il minore.
Del resto, se già l’art. 330, c. 1, c.c. prevede la decadenza della responsabilità genitoriale dei figli proprio nel caso in cui il genitore abusa dei relativi poteri con grave pregiudizio del figlio, forse non sarebbe peregrina l’idea di introdurre una norma che non consenta l’assistenza all’esterno ai figli, non solo nel caso in cui vi sia pericolo di recidivanza, ma anche quello in cui da ciò potrebbe determinare un grave pregiudizio per il figlio.
Se infatti si vuole proteggere l’interesse del figlio minore, garantito dall’art. 31, secondo comma, Cost., ad un rapporto quanto più possibile normale con la madre (o, in via subordinata, con il padre), va da sé che ciò è giusto che avvenga nella misura in cui tale rapporto sia funzionale al perseguimento di questo interesse mentre ciò non dovrebbe avvenire quando tale interesse verrebbe leso proprio attraverso l’incontro di un genitore che, non solo ha commesso gravi reati, ma non ha nemmeno deciso di emendarsi collaborando con la giustizia, ossia adoperarsi per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero aiutare concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati (così: art. 58 ter, c. 1, legge n. 354 del 1975).
Su tale tematica, estranea a quella affrontata dalla Consulta in questa pronuncia (e quindi non esaminabile da essa), si ribadisce come sarebbe opportuno che intervenisse il legislatore: almeno questo è l’auspicio di chi scrive.
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