Detenuto in ospedale psichiatrico oltre il termine di legge: Italia condannata

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La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo si è espressa su un caso italiano in cui si discuteva della legittimità del periodo di detenzione patito da un cittadino italiano, ricoverato dapprima in un ospedale psichiatrico giudiziario, e successivamente, in una REMS, oltre il termine indicato da una legge entrata in vigore successivamente all’adozione della misura di sicurezza.
La Corte ha ritenuto, all’unanimità, violati sia l’art. 5 par. 1 (Privazione della libertà – Rimedi giuridici – Illegittimità accertata dalla Corte, e riconosciuta dai giudici nazionali, della detenzione in un ospedale psichiatrico oltre il periodo previsto da una legge interna introdotta dopo l’imposizione della misura) che l’art. 5 par. 5 (Assenza di un rimedio per ottenere un risarcimento per il periodo di detenzione illegale) della Convenzione EDU, che tutelano il diritto alla libertà ed alla sicurezza.

CEDU – Sez. I – Sent. n. 19358/17 del 06/06/2024

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Indice

1. Premessa

La vicenda cui si riferisce questa sentenza, e che viene dettagliatamente descritta nel prossimo paragrafo, mostra almeno due elementi in controluce, che è bene portare in primo piano, per sfuggire alla tentazione di confondere la persona con il colpevole, e di far percepire la vicenda come un caso isolato, mentre si inserisce pienamente in un contesto più ampio.
La persona, protagonista di questa vicenda, viene da subito riconosciuta come incapace e con chiara incapacità di discernimento, al punto che anche in presenza di reati tabellari gravi, viene destinata ad una misura di sicurezza. Parliamo di una persona indiscutibilmente fragile e con difficoltà profonde nella capacità di discernimento al punto che viene anche immediatamente escluso il dolo, come elemento incompatibile con la persona.
Questa persona, indiscutibilmente fragile, viene proiettata ed inserita – anche questo va ricordato – nel contesto prima di un ospedale psichiatrico giudiziario, e poi in una REMS (residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza). In totale vi trascorre oltre otto anni.
Quando esce, commette nuovi reati, ed al momento della sentenza della CEDU è detenuta nuovamente, questa volta in carcere.
Il primo punto su cui interrogarci è quindi principalmente su quale sia stato il trattamento che questa persona abbia ricevuto e vellutata la sua efficacia in concreto. E quindi, e non solo di conseguenza, se questa persona – a parere di chi scrive sin qui tre volte vittima più che colpevole – oggi sia effettivamente compatibile con il regime carcerario e se possa essere considerata effettivamente colpevole.
Il lungo rimpallo di competenze-incompetenze di cui si leggerà, mal si concilia con il sistema giudiziario di un paese civile. Questo ontologicamente. Sembra più uno scarica barile o una sorta di palla avvelenata in cui nessuno vuole assumersi la responsabilità in concreto di prendere atto di un obbligo di civiltà.
Questo anche e soprattutto se consideriamo gli indiscutibilmente scarsi mezzi economici e sociali a disposizione di una persona nel contesto e nello stato descritto pocanzi.
La disattenzione e sottovalutazione delle persone neurodiverse e fragili, nel contesto giudiziario, che assume come in questo caso apici di violenza sulla persona – apparentemente inconsapevolmente, più per omissione che per azione in concreto – è talmente storicizzato che davvero sarebbe il momento di porvi definitivamente rimedio.

2. In fatto

Il richiedente è nato nel 1970. Attualmente è detenuto nel carcere di Firenze.
Il 25 febbraio 2003 il ricorrente è stato condannato in prima istanza dal tribunale di Firenze Firenze per detenzione illegale di armi e ricettazione.
Con sentenza del 20 ottobre 2004, la Corte d’Appello di Firenze lo ha assolto per incapacità di discernimento e di mancanza di dolo al momento della commissione dei reati.
Ritenendolo pericoloso, gli ha applicato la misura di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario per per un periodo iniziale di due anni.
Il 28 febbraio 2007 il Magistrato di sorveglianza di Milano ha disposto l’esecuzione della misura di sicurezza mediante il ricovero del ricorrente presso l’ospedale psichiatrico di Reggio Emilia.
Il ricorrente si è ricoverato il 21 marzo 2007.
Negli anni successivi la misura di sicurezza è stata prorogata più volte. In data imprecisata, il ricorrente è stato trasferito nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino.
Nel frattempo, il decreto legge n. 52 del 31 marzo 2014, convertito in legge n. 81 del 30 maggio 2014 (“Legge n. 81/2014”), ha introdotto un limite temporale per le misure di sicurezza che coinvolgono libertà personale, una durata massima pari alla pena massima pena applicabile in caso di condanna.
Con ordinanza del 10 dicembre 2014, il GIP di Firenze ha preso atto delle informazioni inviate dalla Procura della Repubblica secondo cui la durata massima della non era ancora stata raggiunta nel caso del ricorrente e ha prorogato la misura fino al 25 maggio 2015. La misura è stata successivamente ulteriormente prorogata con ordinanze dell’8 aprile 2015 e del 22 aprile 2016. Secondo tale dispositivo la misura doveva terminare il 21 novembre 2016.
Il 5 maggio 2016 il ricorrente è stato trasferito presso la REMS di Volterra.
L’8 luglio 2016 la Procura della Repubblica ha preso atto che nel caso del ricorrente la durata della misura di sicurezza – corrispondente al massimo della pena applicabile per i reati di cui era accusato – era di otto anni.
Notando che la misura era stata applicata il 28 febbraio 2007 precedente, ha osservato che il termine era scaduto. Ha quindi chiesto al al GIP di Pisa di ordinare la liberazione del ricorrente.
Con decisione del 14 luglio 2016, il GIP di Pisa, basandosi sulla sentenza della Corte di Cassazione n. 23392 del 2015, ha ritenuto che la norma di massimo introdotta dalla legge n. 81/2014 non si applicava retroattivamente e ha dichiarato il reclamo inammissibile.
In data imprecisata, il ricorrente ha presentato istanza al Tribunale di sorveglianza di Firenze (nella sigla adottata dalla corte, TAP) con un appello contro tale decisione. Con ordinanza del 20 settembre 2016, il TAP ha affermato che la questione della durata massima della pena detentiva è di competenza del pubblico ministero al quale ha trasmesso le memorie, e ha dichiarato il ricorso
irricevibile.
Il 21 settembre 2016 ha presentato istanza di scarcerazione alla Procura di Pisa. Il pubblico ministero si è dichiarato incompetente e ha trasmesso il caso al GIP.
Il ricorrente si è quindi rivolto al tribunale di Firenze come giudice dell’esecuzione.
Con ordinanza del 26 ottobre 2016, il tribunale ha ritenuto che la regola della pena massima introdotta dalla legge n. 81/2014 dovesse essere applicata retroattivamente al fine di evitare una ingiustificata disparità di trattamento tra persone sottoposte a misure di sicurezza in tempi diversi.
Ha osservato che, nel caso del ricorrente, la fine di tale periodo è avvenuta il 28 febbraio 2015, con la conseguenza che, da tale data o, al più tardi, dal dal 31 marzo 2015 (vale a dire dall’attuazione definitiva della riforma delle misure di sicurezza), la sua detenzione era illegittima.
Ha quindi ordinato l’immediato rilascio del ricorrente, che è avvenuto lo stesso giorno.

3. Procedimento di risarcimento per ingiusta detenzione

Il 21 gennaio 2017 il ricorrente ha presentato un’azione di risarcimento ai sensi dell’articolo 314 del Codice di procedura penale (“CPP”).
Egli ha sollevato una questione di costituzionalità sostenendo che, anche se si riferiva solo alle pene e non alle misure di sicurezza, le sue disposizioni dovrebbero applicarsi anche a queste ultime.
Con sentenza dell’8 giugno 2017, la Corte d’appello di Firenze ha respinto il ricorso.
Ha ritenuto che l’articolo 314 del CPC fosse, in linea di principio, applicabile anche alle misure di sicurezza, ma ha ritenuto che non fosse dovuto alcun indennizzo se, come nel caso in questione, la detenzione era diventata ingiusta a causa di una legge introdotta dopo l’imposizione della misura.
Il ricorrente ha presentato ricorso in Cassazione. Con sentenza del 20 marzo 2018, la Corte di Cassazione ha ritenuto che la procedura di riparazione prevista dall’art. 314 del Codice di procedura penale non era applicabile alle misure di sicurezza definitive e ha respinto il ricorso del ricorrente.
A seguito della condanna per nuovi reati commessi dopo la sua liberazione, il ricorrente è detenuto nel carcere di Firenze dal 2020.
L’articolo 314 del Codice di procedura penale prevede il diritto alla riparazione per ingiusta detenzione preventiva in due casi distinti: all’esito del procedimento penale nel merito (la cosiddetta “ingiustizia sostanziale”, prevista dal paragrafo 1 dell’articolo in questione) o nel caso in cui venga accertato che l’imputato è stato in custodia cautelare al di fuori dei casi previsti dalla legge (c.d. ingiustizia “formale”, prevista dal paragrafo 2 del suddetto articolo).
Con la sentenza n. 310 del 1996, la Corte Costituzionale ha dichiarato tale disposizione incostituzionale nella misura in cui non era ugualmente applicabile nel caso di una pena ingiusta a causa dell’illegittimità dell’ordine di esecuzione.
Gli articoli 312 e 313 del CPC regolano la procedura per l’applicazione delle misure di sicurezza provvisorie.
La Corte di cassazione, nelle sentenze n. 5001 del 2009 e n. 11086 del 2013, ha interpretato questa disposizione nel senso che la misura di cui all’articolo 312 del CPC è equiparata alla custodia cautelare e ha interpretato questa disposizione nel senso che il diritto alla riparazione dell’articolo 314 del Codice di procedura penale è applicabile anche alle misure di sicurezza ordinate in via provvisoria.

4. Ammissibilità

Il Governo ha sostenuto che il ricorrente aveva perso lo status distatus di vittima a seguito dell’ordinanza del tribunale di Firenze del 26 ottobre 2016 che ordinava la sua liberazione.
Il ricorrente non era d’accordo. Egli ha spiegato di aver dovuto attendere diversi mesi prima del suo rilascio e che non aveva ottenuto un’adeguata riparazione per il periodo di detenzione, che si era rivelato illegittimo.
La Corte ribadisce che una decisione o una misura favorevole è in linea di principio sufficiente a togliere al ricorrente lo status di “vittima” solo se le autorità nazionali hanno riconosciuto, esplicitamente o nella sostanza, e poi rimediato alla violazione della Convenzione.
La Corte ritiene che la questione se il ricorrente avesse la possibilità di ottenere un risarcimento è strettamente legata alla sostanza del ricorso del ricorrente ai sensi dell’articolo 5 § 5. Pertanto, la Corte ritiene che la questione della possibilità di ottenere un risarcimento sia strettamente legata alla sostanza del ricorso. Essa ritiene pertanto opportuno unire tale obiezione al merito.
Il Governo ha inoltre sollevato un’eccezione di mancato esaurimento delle vie di ricorso interne.
Il Governo ha spiegato che il ricorrente non aveva esercitato alcuni rimedi interni che gli avrebbero consentito di ottenere un risarcimento per la detenzione a cui era stato illegittimamente sottoposto. Ha quindi sostenuto che la richiesta di risarcimento per ingiusta detenzione ai sensi dell’articolo 314 del codice di procedura penale non era stata accolta perché lo stesso non aveva proposto un’azione di responsabilità contro i magistrati ai sensi della legge n. 117/88 e per non aver chiesto una riduzione di pena ai sensi dell’articolo 314 del Codice di procedura penale.
Il ricorrente ha contestato le argomentazioni del Governo. Ha sostenuto che i rimedi indicati non erano efficaci e ha sostenuto di aver, in ogni caso, presentato un ricorso ai sensi dell’articolo 314 del Codice Penale.
La Corte ritiene ancora una volta che la questione dell’esistenza di un rimedio risarcitorio effettivo è strettamente legata al contenuto del reclamo ai sensi dell’articolo 5 § 5, e ritiene pertanto opportuno unire il motivo al merito.
Infine, il Governo ha osservato a più riprese che il ricorrente non ha impugnato le ordinanze del 10 dicembre 2014, dell’8 aprile 2015 e del 22 aprile 2016 che prorogavano la sua detenzione, il che ha contribuito al suo rinvio del suo rilascio. Nella misura in cui questo argomento può essere qualificabile come un’eccezione di non esaurimento, la Corte ritiene che debba essere respinta.
A questo proposito, la Corte ricorda che se un ricorrente ha a disposizione più rimedi interni a sua disposizione, egli ha diritto, ai fini dell’esaurimento delle vie di ricorso interne, di scegliere quella che è suscettibile di portare a una soluzione positiva alla sua doglianza principale. In altre parole, quando è stato utilizzato un rimedio, non è richiesto il ricorso a un altro rimedio il cui scopo è praticamente lo stesso.
Nel caso in esame, il ricorrente si è rivolto al tribunale di Firenze in qualità di giudice dell’esecuzione, che ha portato all’accertamento dell’illegittimità della detenzione e il rilascio del ricorrente.
Non si può quindi criticare il fatto di non aver perseguito altre strade.
Tuttavia, la mancanza di diligenza può essere presa in considerazione ai fini dell’equa soddisfazione.

5. Sul motivo

A. Presunta violazione dell’articolo 5 § 1 della Convenzione
La Corte ribadisce che qualsiasi privazione della libertà deve non solo rientrare in una delle eccezioni di cui alle lettere da a) a f) dell’articolo 5 § 1, ma anche essere “legittima”.
Per quanto riguarda la “legittimità” della detenzione, la Convenzione fa riferimento essenzialmente alla normativa nazionale e sancisce l’obbligo di rispettare le sue norme sostanziali e procedurali.
Richiedendo che ogni privazione della libertà sia effettuata “per vie legali”, l’articolo 5 § 1 richiede, in primo luogo, che ogni arresto o detenzione sia effettuato “in conformità con la legge”.
La detenzione deve avere una base giuridica nel diritto interno.
Tuttavia, queste parole non si non si riferiscono solo al diritto interno. Esse riguardano anche una qualità compatibile con lo Stato di diritto, un concetto insito in tutti gli articoli della Convenzione.
Su quest’ultimo punto, la Corte sottolinea che in materia di privazione della libertà è particolarmente importante soddisfare il principio generale della certezza del diritto.
Di conseguenza, è essenziale che il diritto interno definisca chiaramente le condizioni in cui una persona può essere privata della libertà e che la legge stessa sia prevedibile nella sua applicazione, in modo da soddisfare il criterio di “legalità” stabilito dalla Convenzione, secondo il quale una legge deve essere sufficientemente precisa da consentire a una persona sottoposta a processo di prevedere, in misura ragionevole in base alle circostanze del caso, le conseguenze probabili le conseguenze che potrebbero derivare da un determinato atto di una legge.
Spetta in primo luogo alle autorità nazionali, e in particolare ai tribunali, interpretare e applicare il diritto interno. Ciò premesso, poiché per l’articolo 5 § 1, l’inosservanza del diritto interno comporta una violazione della Convenzione, la Corte può e deve verificare se il diritto interno è stato violato.
La Corte ha affermato che qualsiasi difetto in un provvedimento di detenzione non rende la detenzione stessa illegittima ai fini dell’articolo 5, paragrafo 1.
Un periodo di detenzione è in linea di principio “legittimo” se si basa su una decisione giudiziaria. La successiva constatazione da parte di un tribunale superiore che il giudice ha violato il diritto interno nel prendere la decisione non può non può influire sulla validità della detenzione nel frattempo patita.
Nel valutare se l’articolo 5 § 1 della Convenzione sia stato o meno violato, è necessario operare una distinzione fondamentale tra provvedimenti di detenzione manifestamente invalidi – per esempio, quelli emessi da un tribunale al di fuori della sua al di fuori della sua giurisdizione o nei casi in cui la parte interessata non è stata debitamente notificata all’interessato la data dell’udienza – e provvedimenti di trattenimento che sono prima facie validi ed efficaci finché non sono stati annullati da un tribunale superiore.
Nel caso in esame non è contestato che la detenzione del ricorrente fosse stata inizialmente imposta in conformità con la legislazione nazionale e che, fino all’entrata in vigore della legge n. 81/2014, era legittima e giustificata ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 1, lettera e) della Convenzione. D’altra parte, la privazione della libertà non aveva più una valida base giuridica a partire dal 28 febbraio 2015, quando il periodo massimo di detenzione previsto dalla legge n. 81/2014 – che nel suo caso ammontava a otto anni – era scaduto.
A tal proposito, la Corte osserva che la Legge n. 81/2014 ha introdotto una durata massima delle misure di sicurezza detentive.
Rileva inoltre che nella sentenza del 26 ottobre 2016 il Tribunale di Firenze, al quale il ricorrente si è rivolto dopo vari altri approcci, ha ritenuto che questa disposizione fosse applicabile nel caso di specie, che il massimo era stato raggiunto il 28 febbraio 2015 e che, di conseguenza, la detenzione del ricorrente era illegittima a partire da quella data o, al più tardi, dal 31 marzo 2015, data fissata per l’attuazione della riforma delle misure di sicurezza.
La Corte ritiene che gli argomenti avanzati dal Governo, che riguardavano essenzialmente l’interpretazione della legge n. 81/2014, non siano tali da indurre la Corte a discostarsi dalle conclusioni del giudice nazionale in merito all’illegittimità della detenzione.
Essa ritiene pertanto che l’illegittimità – riconosciuta dai tribunali nazionali – sia accertata nel caso di specie  e conclude che vi è stata una violazione dell’articolo 5 § 1 della Convenzione.
B. Presunta violazione dell’articolo 5 § 5 della Convenzione
La Corte ribadisce che l’articolo 5 § 5 è rispettato quando una persona soffre la privazione della libertà in circostanze contrarie ai paragrafi 1, 2, 3 o 4. Il diritto al risarcimento di cui al paragrafo 5 presuppone quindi che si sia verificata una violazione di uno di questi altri diritti accertata da un’autorità nazionale o dalla Corte.
La Corte ricorda inoltre che, per constatare una violazione dell’articolo 5 § 5, deve essere stabilito che la constatazione di una violazione di uno degli altri paragrafi dell’articolo 5 non poteva, prima della sentenza pertinente della Corte, né può dopo tale sentenza, dare origine a una richiesta di risarcimento dinanzi ai tribunali nazionali
Il risarcimento dovuto in caso di detenzione contraria alle disposizioni dell’articolo 5 deve essere disponibile non solo in teoria ma anche in pratica alla persona interessata.
Nel caso di specie la Corte ha riscontrato una violazione dell’articolo 5 § 1 della Convenzione. Il ricorrente può quindi invocare l’articolo 5 § 5. Inoltre, la Corte osserva che il ricorrente non ha ottenuto alcun risarcimento per il periodo di detenzione illegale a cui è stato sottoposto, cosa che il Governo non ha contestato. Resta da verificare se egli avesse avuto la possibilità di ottenere tale risarcimento dinanzi ai tribunali nazionali.
Per quanto riguarda il ricorso ai sensi dell’articolo 314 del codice di procedura penale, la Corte ha osservato che il ricorrente aveva intrapreso questa via e che non aveva portato a una riparazione. A questo proposito, osserva anche che contrariamente a quanto sostenuto dal Governo, ciò è dipeso dal fatto che i tribunali nazionali avevano ritenuto che considerato la disposizione del 314 cpp fosse inapplicabile alle misure di sicurezza definitive.
Il fatto che la procedura non abbia permesso al ricorrente di ottenere un risarcimento non era quindi dovuto a un uso scorretto di tale rimedio.
Inoltre la Corte ricorda che, in base alla sua consolidata giurisprudenza, si tollera che la fase finale di un rimedio possa essere raggiunta dopo la presentazione del ricorso, ma deve avvenire prima che la Corte si sia pronunciata sulla ricevibilità del ricorso.
Nel caso di specie, il ricorrente ha presentato istanza ai sensi dell’articolo 314 del codice di procedura penale il 21 gennaio 2017 (cioè prima della presentazione del ricorso) ed è stato dichiarato irricevibile il 20 marzo 2018, ossia prima della decisione della Corte sulla ricevibilità.
Per quanto riguarda l’argomento secondo cui il ricorrente avrebbe potuto intentare un’azione di responsabilità civile  contro i magistrati ai sensi della legge legge n. 117/1988, la Corte aveva già respinto tale motivo sulla base del fatto che il che il Governo non aveva prodotto alcun esempio per dimostrare che l’azione in questione fosse stata intentata con successo in circostanze simili.
Il Governo non ha fornito alcun elemento che suggerisca di discostarsi da tale conclusione, dal momento che le sentenze da esso citate non riguardavano circostanze simili a quelle del presente caso.
Infine, per quanto riguarda la possibilità di ottenere una riduzione di pena ai sensi dell’articolo 657 del Codice di Procedura Penale, il Governo non ha fornito nessun esempio dell’applicabilità di tale disposizione in un caso come quello in questione. L’interpretazione estensiva che ha proposto a questo proposito è ingiustificata e il riferimento all’articolo 35 ter della Legge sull’Amministrazione Penitenziaria – che si riferisce solo alle violazioni dell’articolo 3 della Convenzione – non appare pertinente.
Alla luce delle considerazioni che precedono, la Corte conclude che il ricorrente non aveva alcun rimedio per ottenere riparazione per la violazione che aveva subito dell’articolo 5 § 1 della Convenzione. Essa ha pertanto respinto le obiezioni preliminari del Governo e ha ritenuto che vi sia stata una violazione dell’articolo 5 § 5 della Convenzione.

6. Nel merito

La Corte unisce le obiezioni del Governo relative alla mancanza dello status di vittima e al mancato esaurimento delle vie di ricorso interne e le respinge.
Dichiara il ricorso ammissibile.
Ritiene che vi sia stata una violazione dell’articolo 5 § 1 della Convenzione.
Ritiene che vi sia stata una violazione dell’articolo 5 § 5 della Convenzione.

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Michele Di Salvo

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