Di particolare interesse si palesa la sentenza della Corte di Appello di Ancona, pronunziata all’udienza dello scorso 9 luglio, n. 2513/13, ma le cui motivazioni sono state pubblicate proprio in questi giorni.
L’importanza della sentenza deriva anche dal fatto storico, che il processo era conseguenza della famosa operazione WU-DU del novembre 2008 promossa dalla Procura della Repubblica di Ferrara, che coinvolse numerosissimi commercianti di semi in tutta Italia e sollevò il velo sulla tematica dell’istigazione, induzione e proselitismo all’uso di sostanze stupefacenti, condotte sanzionate dall’art. 82 dpr 309/90.
La vicenda si può sintetizzare nel senso che ad E.R., all’epoca titolare di un negozio di semi di cannabis (e di articoli da giardinaggio) a Pesaro e residente in un paese dell’entroterra a circa una quarantina di chilometri, venne arrestato perchè, durante la perquisizione svolta presso l’abitazione, fu rinvenuto nel possesso di un quantitativo di gr. 23 di hashish e gr. 2 di marijuana; fu così prospettata la violazione dell’art. 73 dpr 309/90.
La perquisizione domestica faceva seguito all’intervento già operato nell’esercizio commerciale, in relazione alla cui attività era stata contestata, dal PM, l’ipotesi di reato di cui all’art. 82 dpr 309/90.
La complessiva accusa – mossa dalla Procura di Pesaro a carico del giovane – venne così a consistere sia del reato di detenzione a fine di spaccio di sostanze stupefacenti (art. 73 dpr 309/90), sia di istigazione all’uso di stupefacenti (art. 82).
Dopo un non breve periodo, sia carcerario, che di arresti domiciliari, E.R., pur rimesso in libertà, venne condannato dal GUP di Pesaro alla pena di anni 1 e mesi 6 di reclusione per entrambi i reati.
La Corte di Appello di Ancona – con la sentenza in commento – ha, invece, disatteso totalmente il giudizio di responsabilità reso in primo grado, riformando la sentenza di condanna e mandando, ovviamente, assolto E.R. con formula piena in relazione ad entrambe le accuse.
Esaurito questo necessario excursus in fatto, si deve sottolineare che gli aspetti salienti di questa pronuncia della Corte territoriale paiono due.
Il primo attiene indubitabilmente alla circostanza che i giudici di appello hanno ritenuto fondata l’osservazione, svolta con i motivi di appello, che censura il convincimento manifestato dal GUP in ordine al fatto che sia il peso complessivo dello stupefacente, che quello netto riguardante il THC, costituirebbero elementi di incompatibilità con l’asserito uso personale dello stupefacente ritrovato e sequestrato.
In realtà, il primo giudice avrebbe dovuto – a corretto parere della Corte – operare ben altro tipo di valutazione, utilizzando pienamente i paradigmi offerti sia dall’art. 73 comma 1 bis dpr 309/90, che dalla giurisprudenza vigente.
Al giudice di prime cure, infatti, la Corte distrettuale rimprovera la scelta di non tenere in doveroso conto una serie di dati che, invece – se considerati – permettono di pervenire ad una soluzione diametralmente opposta a quella dell’affermazione di responsabilità.
Da un lato, si segnalano le dichiarazioni del giovane (il quale ha sempre sostenuto di fare un consumo strettamente personale senza cedere ad altri), indi, l’assenza di sintomi fattuali significativi, che potessero indurre al sospetto di spaccio (bilancini, involucri separati, elenchi con nomi di clienti etc.), inoltre, rileva, la dimostrata carenza di contatti dell’indagato con ambienti delinquenziali in genere in uno con sia l’assenza di carichi pendenti, che con l’incensuratezza dell’indagato, da ultimo assume valore, anche, anche la sua buona condizione economica.
L’accusa, dunque, non poteva reggersi su basi esclusivamente presuntive ed il GUP di Pesaro – secondo la Corte di Appello di Ancona –, condannando l’imputato, avrebbe, quindi, operato quella valutazione assolutamente incompleta, di cui già si è detto, venendo, così, meno ad un preciso dovere di prendere in esame tutte le prove.
Soprattutto, la sentenza evidenzia l’apoditticità del valore attribuito in primo grado al rilievo ponderale concernente il principio attivo contenuto nella sostanza, il quale, in realtà – come si legge in sentenza – non appare affatto eccedente in maniera significativa la soglia di mg. 500, che costituisce la cd. QUANTITA’ MASSIMA DETENIBILE (tabellarmente stabilita).
Sul punto, chi scrive non può non manifestare una viva soddisfazione, perchè, finalmente, la giurisprudenza comincia a prendere coscienza della radicale distinzione ontologica e giuridica che intercorre fra la citata Q.M.D. e la D.M.D. (DOSE MEDIA DROGANTE).
Quest’ultimo parametro, che risulta elemento costitutivo dell’istituto della Q.M.D. (in quanto la moltiplicazione della D.M.D. nella misura pari a mg. 25, per il coefficiente stabilito ex lege e pari a 20 determina il risultato di mg. 500) viene (e deve venire) usato esclusivamente per identificare il numero di dosi di stupefacente potenzialmente ricavabili in relazione a condotte finalizzate univocamente alla cessione a terzi.
In relazione a condotte puramente detentive, invece, unico paradigma utilizzabile correttamente, come avvenuto nella fattispecie deve essere ritenuto proprio quello della Q.M.D. .
Si deve, inoltre, notare, come la sentenza in commento prenda atto dell’inadempimento dell’accusa rispetto all’onere di provare (non solo con ricorso ad inammissibili presunzioni) la volontà da parte del giovane di cedere a terzi – anche in minima parte – lo stupefacente solo detenuto.
Tale situazione processuale, dunque, ha legittimato l’assoluzione richiesta dalla difesa è stata accolta.
Il secondo profilo della sentenza riguarda l’istigazione di cui all’art. 82 dpr 309/90.
In proposito la Corte ha riconosciuto il valore della nota sentenza delle SUU del 7 ottobre 2012 n. 47604 che ha escluso che la vendita di semi di cannabis, anche se accompagnata da messa in commercio di depliant o di strumenti per la coltivazione, costituisca tale reato ed ha aderito a tale indirizzo.
Una motivazione di questo genere appare, quindi, particolarmente tranciante e n on necessita ulteriori dissertazioni.
Vi è, però, da rilevare che, assai perspicuamente, il Collegio esclude che si possa porre il problema – alternativo e differente rispetto alla contestazione del reato di cui all’art. 82 dpr 309/90 – dell’eventuale applicazione dell’art. 414 c.p. – in relazione all’art. 73 dpr 309/90 – posto che una simile ipotesi di reato, nel caso di specie non è stata affatto contestata.
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