Detenzione a fini di spaccio: vanno valutati gli elementi durante il rinvenimento delle sostanze

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La Corte di Cassazione, con sentenza n. 24329 del 20 giugno 2024, ha chiarito che, in relazione alla detenzione a fini di spaccio, vanno valutati gli elementi durante il rinvenimento delle sostanze stupefacenti.

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Corte di Cassazione – Sez. III Pen. – Sent. n. 24329 del 20/06/2024

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Indice

1. I fatti

La Corte di appello di Bologna ha accolto l’appello del Pubblico Ministero e, in riforma della sentenza del Tribunale di Bologna, ha condannato l’imputato alla pena di mesi otto di reclusione ed € 1.000 di multa, in relazione al reato di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. 309/1990 perché deteneva a fini di spaccio un totale di n. 47 involucri contenenti 33,44 grammi di cocaina e 1,30 grammi di marijuana.
La Corte territoriale, investita dell’impugnazione del Pm avverso la sentenza di assoluzione del Tribunale perché il fatto non costituisce reato, ha cambiato rotta ritenendo provata la finalità di uso non meramente personale degli stupefacenti in ragione del frazionamento e modalità di detenzione.
Avverso tale decisione, è stato proposto dall’imputato ricorso per Cassazione affidato a due motivi: 1) la motivazione sarebbe illogica perché fondata su meri sospetti che sarebbero elevati a rango di prova. La Corte territoriale avrebbe reso una motivazione non plausibile né condivisibile secondo cui le modalità della detenzione (parte con sé e parte in casa) erano compatibili con l’attività di spaccio, così come non sarebbe condivisibile l’affermazione secondo cui la suddivisione in involucri sarebbe indicativa di tale finalità; 2) violazione di legge in relazione all’art. 75 d.P.R. 309/1990 per mancata riqualificazione nell’illecito amministrativo.
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2. Detenzione a fini di spaccio o per uso personale? L’analisi della Cassazione

La Corte di Cassazione, nel dichiarare inammissibile il ricorso perché manifestamente infondato, osserva che il percorso logico argomentativo del primo giudice è stato censurato dai giudici territoriali muovendo dal corretto presupposto giuridico secondo cui “la valutazione in ordine alla destinazione della droga (se al fine dell’uso personale o della cessione a terzi), ogni qualvolta la condotta non appaia indicare l’immediatezza del consumo, è effettuata dal giudice di merito secondo parametri di apprezzamento sindacabili nel giudizio di legittimità solo sotto il profilo della mancanza o della manifesta illogicità della motivazione e, nell’ambito di tale valutazione, il possesso di quantitativo di droga superiore al limite tabellare previsto dal d.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1-bis, lett. a), se non costituisce prova decisiva dell’effettiva destinazione della sostanza allo spaccio, può legittimamente concorrere a fondare, in presenza di altri elementi, la prova della destinazione dello stupefacente a terzi“.
In altri termini, ad avviso della Cassazione, la Corte d’appello ha correttamente riqualificato il fatto basandosi sugli elementi a sua disposizione valutando la destinazione degli stupefacenti a terzi con elementi fattuali consoni a far giungere a tale conclusione.
Oltre alle dosi rinvenute nell’autovettura e nell’abitazione dell’imputato, dagli atti di indagine risulta anche il rinvenimento di un bilancino che presentava tracce di polvere bianca, ritenendo implausibile la versione resa dall’imputato secondo cui lo stupefacente era stato rinvenuto sotto un cespuglio, luogo da questi conosciuto ove gli spacciatori nascondevano lo stupefacente, e portato con sé da utilizzare per uso personale.

3. La decisione della Cassazione

Alla luce di quanto finora esposto, la Corte di Cassazione sottolinea che la sentenza in questione contiene una motivazione che pone rimedio alla decisione di primo grado che aveva ritenuto di escludere la finalità di spaccio in ragione della “non impossibile credibilità della tesi difensiva che, all’evidenza, era manifestamente illogica“.
Accanto al dato ponderale, quindi, hanno assunto rilievo le circostanze dell’azione.
Per questi motivi, la Suprema Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Riccardo Polito

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