Deve essere annullata la sentenza di patteggiamento di una pena determinata tenendo conto dell’aggravante della clandestinità

Laface Nadia 30/12/10

 

  1. Sentenza della Corte di Cassazione 40836/2010.

  2. Convenzione CEDU art. 3.

  3. Giurisprudenza della Corte Europea.

  4. Corte di Cassazione, sentenza n. 20514 del 28/04/2010.

 

1. La sesta sezione della Corte di Cassazione ha annullato una sentenza di patteggiamento di una pena determinata tenendo conto dell’aggravante della clandestinità di cui all’art. 61 n. 11 bis cod. pen., atteso che tale ultima disposizione è stata dichiarata costituzionalmente illegittima con la sentenza n. 249 del 2010 della Corte Costituzionale.

Come è noto, infatti, la Corte Costituzionale ha rilevato che “ …La condizione giuridica dello straniero non deve essere considerata – per quanto riguarda la tutela dei diritti inviolabili – come causa ammissibile di trattamenti diversificati e peggiorativi, specie nell’ambito del diritto penale, che più direttamente è connesso alle libertà fondamentali della persona, salvaguardate dalla Costituzione con le garanzie contenute negli artt. 24 e seguenti, che regolano la posizione dei singoli nei confronti del potere punitivo dello Stato…Non potrebbe essere ritenuta ragionevole e sufficiente, d’altra parte, la finalità di contrastare l’immigrazione illegale, giacché questo scopo non potrebbe essere perseguito in modo indiretto, ritenendo più gravi i comportamenti degli stranieri irregolari rispetto ad identiche condotte poste in essere da cittadini italiani o comunitari. Si finirebbe infatti per distaccare totalmente la previsione punitiva dall’azione criminosa contemplata nella norma penale e dalla natura dei beni cui la stessa si riferisce, specificamente ritenuti dal legislatore meritevoli della tutela rafforzata costituita dalla sanzione penale…Tutto ciò si pone in contrasto con il principio di eguaglianza, sancito dall’art. 3 Cost., che non tollera irragionevoli diversità di trattamento…La Corte ha già affermato che la stessa fattispecie di indebito trattenimento nel territorio nazionale, che pur implica la specifica inosservanza di un provvedimento espulsivo individualizzato, si limita a sanzionare una condotta illecita e «prescinde da una accertata o presunta pericolosità dei soggetti responsabili».

Quest’ultimo aspetto assume particolare interesse, anche con riferimento alle problematiche aperte, su questo fronte, in vari Paesi europei.

In effetti, ai sensi dell’articolo 235 del Codice penale (Espulsione o allontanamento dello straniero dallo Stato)Il giudice ordina l’espulsione dello straniero ovvero l’allontanamento dal territorio dello Stato del cittadino appartenente ad uno Stato membro dell’Unione europea, oltre che nei casi espressamente preveduti dalla legge, quando lo straniero sia condannato alla reclusione per un tempo superiore ai due anni. Il trasgressore dell’ordine di espulsione o allontanamento pronunciato dal giudice è punito con la reclusione da uno a quattro anni”; e, ancora, dispone
l’articolo 312 del Codice penale (Espulsione o allontanamento dello straniero dallo Stato) che “ Il giudice ordina l’espulsione dello straniero ovvero l’allontanamento dal territorio dello Stato del cittadino appartenente ad uno Stato membro dell’Unione europea, oltre che nei casi espressamente preveduti dalla legge, quando lo straniero o il cittadino di Stato dell’Unione europea sia condannato ad una pena restrittiva della libertà personale per taluno dei delitti preveduti da questo titolo. Il trasgressore dell’ordine di espulsione od allontanamento pronunciato dal giudice è punito con la reclusione da uno a quattro anni”.

2. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha introdotto delle eccezioni, escludendo, ai sensi dell’art. 3 della Convenzione, l’applicabilità della espulsione in talune ipotesi. In particolare, è stato rilevato che l’espulsione verso il paese di origine di uno straniero può costituire violazione dell’art. 3 Convenzione CEDU, relativo al divieto di tortura, quando vi siano circostanze serie e comprovate che depongono per un rischio reale che lo straniero subisca in quel paese trattamenti inumani e degradanti contrari all’art. 3 della Convenzione.

L’art. 3 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, così recita: “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”.

La Corte Europea, interpretando il citato articolo 3 della Convenzione, ha sancito che “Il divieto è assoluto e, secondo il diritto internazionale, non può esserci alcuna giustificazione per azioni contrarie alle disposizioni che proibiscono la tortura o altri trattamenti inumani”.

Come è noto, le norme della Convenzione, anche se non hanno una efficacia diretta nel nostro ordinamento, hanno un rango superiore a quello della legge ordinaria e devono

essere rispettate dal nostro Legislatore e dalle nostre Autorità Giurisdizionali, giusto

quanto disposto dall’articolo 117, primo comma, della Costituzione. Così, infatti, si esprime la sentenza della Corte Costituzionale n. 348 del 2007: “la Convenzione europea non crea un ordinamento giuridico sopranazionale e non produce quindi norme direttamente applicabili negli Stati contraenti. Essa è configurabile come un trattato internazionale multilaterale …da cui derivano “obblighi” per gli Stati contraenti, ma non l’incorporazione dell’ordinamento giuridico italiano in un sistema più vasto, dai cui organi deliberativi possano promanare norme vincolanti … per tutte le autorità interne degli Stati membri”, con la conseguenza che “il giudice comune non ha, dunque, il potere di disapplicare la norma legislativa ordinaria ritenuta in contrasto con una norma CEDU, poiché l’asserita incompatibilità tra le due si presenta come una questione di legittimità costituzionale, per eventuale violazione dell’articolo 117, primo comma, della Costituzione, di esclusiva competenza del giudice delle leggi”. Con riferimento alle decisioni della Corte europea la sentenza continua, precisando che “tra gli obblighi internazionali assunti dall’Italia con la sottoscrizione e la ratifica della CEDU vi è quello di adeguare la propria legislazione alle norme di tale trattato, nel significato attribuito dalla Corte specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione”; conclude, poi, precisando che “quanto detto sinora non significa che le norme CEDU, quali interpretate dalla Corte di Strasburgo, acquistano la forza delle norme costituzionali e sono perciò immuni dal controllo di legittimità costituzionale di questa Corte. Proprio perché si tratta di norme che integrano il parametro costituzionale, ma rimangono pur sempre ad un livello subcostituzionale ,è necessario che esse siano conformi a Costituzione. … Tale controllo deve sempre ispirarsi al ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi internazionali, quale imposto dall’articolo 117, primo comma, della Costituzione, e la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della Costituzione.”.

Se, quindi, l’art. 3 della Convenzione Europea trova, in siffatta maniera, ingresso nel nostro Ordinamento formando un vero e proprio diritto vivente in materia di diritti umani, la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo non può che rappresentare la bussola orientativa anche per il giudice nazionale.

3. E veniamo a tale giurisprudenza.

Causa Trabelsi c. Italia – Sezione Seconda – sentenza 13 aprile 2010 (ricorso n. 50163/08)- Divieto di trattamenti disumani o degradanti – sotto il profilo del rischio di tortura nel caso di espulsione in Tunisia – violazione dell’art. 3 CEDU – sussiste.
L’esecuzione di un ordine di espulsione di uno straniero verso il Paese di appartenenza costituisce violazione dell’art. 3 cedu, quando vi sono circostanze serie e comprovate che depongono per un rischio effettivo che l’individuo subisca trattamenti disumani o degradanti.
In data 1° aprile 2003, il sig. Trabelsi era stato arrestato e posto in detenzione provvisoria con l’accusa di appartenere ad un gruppo fondamentalista islamico in Italia, nonché per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
In data 15 luglio 2006 il ricorrente era stato condannato dal Tribunale di Cremona a 10 anni di carcere con ordine di espulsione a fine pena, mentre la Corte d’Assise d’appello di Brescia, con sentenza confermata dalla Corte di Cassazione, aveva ridotto a 7 anni la condanna, annullando la parte relativa all’immigrazione clandestina.
Il 18 novembre 2008, su richiesta del ricorrente, in applicazione dell’articolo 39 del Regolamento della Corte europea dei diritti dell’uomo, il Presidente della Decima Sezione aveva espresso al Governo italiano l’auspicio che non si procedesse all’espulsione del ricorrente verso la Tunisia fino a nuovo ordine, nell’interesse delle parti e della corretta conduzione del procedimento dinanzi alla Corte e visti i rischi di trattamenti contrari all’articolo 3 CEDU in Tunisia.
Con il ricorso alla Corte EDU, il sig. Trabelsi, premesso che diversi cittadini tunisini rimpatriati con l’accusa di terrorismo sono risultati non più reperibili, ricordava che le inchieste condotte da Amnesty International e dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America hanno svelato la sussistenza della pratica della tortura in Tunisia.
Il ricorrente contestava, inoltre, la tesi secondo cui la situazione relativa al rispetto dei diritti umani in Tunisia sarebbe nel tempo migliorata e denunciava la non attendibilità delle assicurazioni rilasciate dalle autorità tunisine al Governo italiano.
In particolare, il sig. Trabelsi adiva la Corte per la violazione dell’art. 3 (divieto di trattamenti disumani o degradanti), dell’art. 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) e dell’art. 34 (ricorsi individuali) CEDU.
La Corte, per quanto riguarda la condizione dei detenuti nelle carceri tunisine, ha richiamato la precedente sentenza del 28 febbraio 2008, Saadi c. Italia (ricorso n. 37201/06), con cui aveva riconosciuto il rischio di tortura connesso al rimpatrio dei condannati per terrorismo internazionale, sulla base di testi, documenti internazionali e fonti di informazione attestanti la pratica di trattamenti disumani.
In tale ipotesi, infatti, si era rilevato che l’esistenza di testi interni e l’accettazione di trattati internazionali che garantiscono, normalmente, il rispetto dei diritti fondamentali non fosse sufficiente, da solo, a garantire una protezione adeguata contro il rischio di cattivi trattamenti, quando fonti affidabili rivelano l’esistenza di pratiche poste in essere dalle autorità, o da queste tollerate, palesemente contrarie ai principi della Convenzione.
Ribadendo i principi enunciati nella precedente sentenza Saadi, la Corte ha affermato che gli Stati parti della Convenzione, nel valutare l’eventualità dell’adozione di un provvedimento di espulsione, non possono mettere in bilanciamento il rischio che il soggetto da espellere sia sottoposto a trattamenti disumani e degradanti nel Paese di destinazione con la pericolosità sociale del medesimo individuo.
In definitiva, con la decisione in esame e con la giurisprudenza che l’ha preceduta, la Corte europea istituisce un nuovo meccanismo di controllo sul rispetto dei diritti umani da parte di Stati terzi. Tale meccanismo presenta precise caratteristiche strutturali tali che, ad una valutazione esercitata dallo Stato parte sulla esistenza di un rischio nello Stato terzo, corrisponde una verifica condotta dalla Corte europea sulla adeguatezza della valutazione effettuata dallo Stato parte. Tale doppia valutazione, peraltro, rimane applicabile soltanto in relazione ad alcune disposizioni della Cedu, riguardanti il diritto alla vita e il divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti.

4. Sulla base della giurisprudenza della Corte europea, in ultimo, la Suprema Corte di Cassazione si è pronunciata conformemente, enunciando il seguente principio di diritto (Corte di Cassazione, Sentenza n. 20514 del 28/04/2010 ): Allorché la Corte europea ha stabilito che l’esecuzione di provvedimenti di espulsione o comunque di trasferimento forzoso verso un determinato Paese (nella specie, la Tunisia) integri la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea per i diritti dell’uomo, in considerazione del rischio di attuazione di pene o trattamenti inumani o degradanti, è compito di ogni organo giurisdizionale nazionale, competente a deliberare decisioni che comportano trasferimenti di persone verso quel Paese, individuare ed adottare, in caso di ritenuta pericolosità della persona, un’appropriata misura di sicurezza, diversa dall’espulsione, e ciò fino a quando non sopravvengano fatti innovativi idonei a mutare la suddetta situazione di allarme.

Laface Nadia

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