Dichiarazione di paternità: il rifiuto del test del DNA

Chiara Schena 03/10/24
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La dichiarazione giudiziale di paternità è un tema centrale del diritto di famiglia, poiché mira a garantire al figlio il riconoscimento dei diritti nei confronti del genitore biologico, soprattutto nei casi in cui questo non abbia riconosciuto il figlio alla nascita. Il recente intervento della Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 21979/2024, offre uno spunto di riflessione su come la giurisprudenza italiana affronti questa complessa materia, soprattutto alla luce del rifiuto del presunto padre di sottoporsi al test del DNA, elemento centrale nelle cause di accertamento della paternità. Per chi desidera approfondire in modo pratico ed efficace i nuovi strumenti a disposizione degli operatori del diritto, si consiglia il “Formulario Commentato della Famiglia e delle Persone dopo la Riforma Cartabia”.

Corte di Cassazione -sez. I civ.- ordinanza n. 21979 del 05-08-2024

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Indice

1. Fatti di causa: il riconoscimento della paternità


La vicenda processuale analizzata trae origine da un’azione legale promossa da una madre per conto del figlio minore, finalizzata a ottenere il riconoscimento giudiziale di paternità nei confronti del presunto padre biologico. Il figlio non era stato riconosciuto dal padre alla nascita, e la madre chiedeva non solo l’accertamento del legame biologico, ma anche un rimborso parziale delle spese sostenute per il mantenimento fino a quel momento e un contributo economico futuro per il mantenimento del minore.
Il convenuto, presunto padre, si è costituito in giudizio negando sia il legame biologico che la fondatezza delle richieste avanzate dalla madre. Tra le sue difese, vi era anche la pretesa che il processo dovesse essere interrotto in quanto, durante lo svolgimento del giudizio, il figlio aveva raggiunto la maggiore età. Secondo il convenuto, questo fatto avrebbe modificato i presupposti per proseguire l’azione. Per chi desidera approfondire in modo pratico ed efficace i nuovi strumenti a disposizione degli operatori del diritto, si consiglia il “Formulario Commentato della Famiglia e delle Persone dopo la Riforma Cartabia”.

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2. La questione dell’interruzione del giudizio: l’art. 300 c.p.c.


Uno dei temi affrontati dalla Corte di Cassazione riguarda la richiesta di interruzione del giudizio basata sull’art. 300 del Codice di procedura civile, che prevede l’interruzione del processo in caso di eventi che influiscano sulla capacità processuale delle parti. Il presunto padre sosteneva che il raggiungimento della maggiore età da parte del figlio avrebbe dovuto interrompere automaticamente il processo.
La Corte, tuttavia, ha rigettato questa interpretazione, affermando che l’interruzione del processo non è automatica, ma deve essere formalmente dichiarata in udienza dal procuratore della parte o notificata alle altre parti coinvolte. In assenza di una dichiarazione formale o di una notifica, il processo può proseguire regolarmente. Questo principio è volto a garantire la stabilità del procedimento, evitando che una parte possa sfruttare eventi non formalmente portati all’attenzione del giudice per ritardare o interrompere il giudizio.

3. Il consenso del minore ultraquattordicenne come requisito essenziale


Un aspetto rilevante della controversia riguarda il consenso del minore ultraquattordicenne per la prosecuzione dell’azione di dichiarazione giudiziale di paternità. L’art. 273 del Codice civile stabilisce che, per i figli che abbiano compiuto i 14 anni, è necessario il loro consenso esplicito affinché l’azione possa proseguire. Questo consenso costituisce un vero e proprio requisito di legittimazione attiva, senza il quale l’azione non potrebbe essere portata avanti.
Nel caso in esame, il figlio aveva inizialmente negato il consenso, ma lo aveva successivamente fornito in una fase avanzata del procedimento. La Corte di Cassazione ha confermato un orientamento giurisprudenziale consolidato, secondo il quale il consenso del minore può essere prestato in qualsiasi fase del processo, purché sussista al momento della decisione. Il mancato consenso iniziale non preclude, quindi, la possibilità di proseguire il giudizio, a condizione che il consenso venga fornito entro la conclusione del procedimento. Questa interpretazione mira a bilanciare il diritto del figlio alla verità biologica con la necessità di rispettare la sua autonomia decisionale.
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4. Il rifiuto del test del DNA: un elemento di valutazione decisivo


Uno degli aspetti più delicati affrontati dalla Corte riguarda il rifiuto del presunto padre di sottoporsi al test del DNA. La giurisprudenza italiana ha ormai consolidato il principio per cui il rifiuto di sottoporsi a un esame genetico in una causa di accertamento di paternità costituisce un elemento di elevato valore indiziario. L’art. 116, secondo comma, del Codice di procedura civile consente al giudice di valutare il rifiuto come una conferma indiretta della paternità, soprattutto in assenza di giustificazioni valide.
Nel caso esaminato, il rifiuto del presunto padre di sottoporsi al test è stato considerato dalla Corte un elemento determinante per affermare il legame di paternità. Questo rifiuto, infatti, è stato valutato in combinazione con altri elementi probatori, tra cui testimonianze e documenti che indicavano una relazione tra il convenuto e la madre del minore. La Corte ha sottolineato che la consulenza biogenetica rappresenta uno strumento essenziale per accertare la verità biologica, e il diniego ingiustificato di sottoporvisi può condurre all’accoglimento della domanda del ricorrente.

5. Conclusioni


L’ordinanza n. 21979/2024 della Corte di Cassazione ribadisce alcuni principi fondamentali in materia di dichiarazione giudiziale di paternità. Innanzitutto, il rifiuto di sottoporsi al test del DNA da parte del presunto padre costituisce un elemento decisivo che può essere valutato come prova indiretta della paternità. Inoltre, la Corte ha chiarito l’importanza del consenso del figlio ultraquattordicenne alla prosecuzione dell’azione e ha ribadito che tale consenso può essere fornito in qualsiasi fase del procedimento.
Questo intervento della Suprema Corte si inserisce in un quadro giurisprudenziale volto a tutelare il diritto del figlio a conoscere la propria origine biologica, garantendo al contempo il rispetto delle norme processuali e dei diritti delle parti coinvolte.

Chiara Schena

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