Dichiarazione parziale di incostituzionalità della Legge Spazzacorrotti

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Dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 6, lettera b), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici), in quanto interpretato nel senso che le modificazioni introdotte all’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà): vediamo in che modo

Corte costituzionale, 12 febbraio 2020 (ud. 12 febbraio 2020, dep. 26 febbraio 2020), n. 32 (Presidente Cartabia, Relatore Viganò)

(Dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 6, lettera b), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici), in quanto interpretato nel senso che le modificazioni introdotte all’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) si applichino anche ai condannati che abbiano commesso il fatto anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019, in riferimento alla disciplina delle misure alternative alla detenzione previste dal Titolo I, Capo VI, della legge n. 354 del 1975, della liberazione condizionale prevista dagli artt. 176 e 177 del codice penale e del divieto di sospensione)

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(Dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, nella parte in cui non prevede che il beneficio del permesso premio possa essere concesso ai condannati che, prima dell’entrata in vigore della medesima legge, abbiano già raggiunto, in concreto, un grado di rieducazione adeguato alla concessione del beneficio stesso)

[Riferimento normativi: Legge, 9 gennaio 2019, n. 3, art. 1, c. 6, lett. b); Legge, 26 luglio 1975, n. 354; Cod. pen., artt. 176 e 177]

Il fatto e le questioni prospettate nelle ordinanze di rimessione

Con ordinanza dell’8 aprile 2019, il Tribunale di sorveglianza di Venezia sollevava – in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, 27, terzo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 6, lettera b), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici), «nella parte in cui, modificando l’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354, si applica anche in relazione ai delitti di cui agli artt. 318, 319, 319-quater e 321 c.p., commessi anteriormente all’entrata in vigore della medesima legge».

Il rimettente era investito di un’istanza di affidamento in prova al servizio sociale per sospensione dell’ordine di esecuzione della pena avvenuta ai sensi dell’art. 656, comma 5, del codice di procedura penale, prima dell’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019 – condannato dalla Corte d’appello di Venezia, con sentenza del 12 novembre 2015 (irrevocabile il 12 ottobre 2017), alla pena di tre anni di reclusione per i reati di cui agli artt. 110, 81, comma 2, 318, 319, 319-quater e 321 del codice penale, commessi dal 2002 al 2011 (pena residua da espiare pari a due anni, tre mesi e dodici giorni di reclusione).

In punto di rilevanza delle questioni sollevate, il giudice a quo osservava come, per effetto dell’entrata in vigore della norma censurata, i reati ascritti all’istante fossero stati inclusi nel catalogo di cui all’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) con la conseguenza che, in relazione agli stessi, la concessione dei benefici penitenziari e delle misure alternative alla detenzione è ora subordinata alla collaborazione del condannato con la giustizia, ai sensi dell’art. 58-ter ordin. penit. e dell’art. 323-bis cod. pen. oppure alla impossibilità o irrilevanza della collaborazione medesima (art. 4-bis, comma 1-bis, ordin. penit.) ossia dei requisiti, questi ultimi, che non potevano dirsi realizzati dagli istanti.

La già intervenuta sospensione dell’ordine di esecuzione della pena, ai sensi dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen., come rilevato dal giudice remittente, non varrebbe a sottrarre la fattispecie all’ambito applicativo di azione della novella recata dall’art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019 atteso che l’istanza di concessione delle misure alternative alla detenzione avrebbe introdotto una distinta fase del procedimento esecutivo in cui il tribunale di sorveglianza sarebbe stato chiamato ad applicare anche le modifiche normative sopravvenute rispetto al momento della sospensione dell’esecuzione (citata Corte di Cassazione, sezione prima penale, sentenza 18 dicembre 2014, n. 52578) così come non si sarebbe potuto evocarsi – al fine di escludere l’applicabilità della disciplina introdotta dalla legge n. 3 del 2019 – il principio di matrice costituzionale che, a fronte di sopravvenute modifiche di segno restrittivo dei presupposti per la concessione dei benefici penitenziari, salvaguarda la già realizzata progressione trattamentale del condannato, vietando «l’immotivata regressione» nella fruizione dei benefici stessi (sono citate le sentenze n. 149 del 2018, n. 257 e n. 255 del 2006, n. 445 del 1997 e n. 504 del 1995) posto che, nel caso di specie, gli istanti si trovavano in stato di libertà e non sussistevanono elementi per formulare una positiva valutazione circa i progressi trattamentali dell’interessato.

In definitiva, la concessione agli istanti della misura dell’affidamento in prova al servizio sociale sarebbe risultata preclusa, in conseguenza dell’attuale formulazione dell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., come modificato dalla legge n. 3 del 2019; e ciò benché le risultanze istruttorie avessero offerti elementi che avrebbero consentuito, nel merito, di addivenire a una pronuncia favorevole all’interessato in considerazione della regolare condotta serbata in regime cautelare, del principio di risarcimento del danno effettuato, della positiva situazione socio-familiare e lavorativa. Donde, la rilevanza delle questioni sollevate.

Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente premetteva che, secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, le disposizioni concernenti l’esecuzione delle pene detentive e le misure alternative alla detenzione, non riguardando l’accertamento del reato e l’irrogazione della pena ma soltanto le modalità esecutive della stessa non avrebbero carattere di norme penali sostanziali e soggiacerebbero pertanto, in assenza di specifica disciplina transitoria, al principio tempus regit actum e non alle regole dettate dagli artt. 25 Cost. e 2 cod. pen. in tema di successione di norme penali del tempo con conseguente immediata applicabilità a tutti i rapporti esecutivi non ancora esauriti di eventuali modifiche normative di segno peggiorativo (sono citate Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 17 luglio 2006, n. 24561; sezione prima penale, sentenza 20 luglio 2006, n. 25113; sezione prima penale, sentenza 1° settembre 2006, n. 29508; sezione prima penale, sentenza 4 ottobre 2006, n. 33062; sezione prima penale, sentenza 3 dicembre 2009, n. 46649; sezione prima penale, sentenza 12 marzo 2013, n. 11580; sezione prima penale, sentenza 18 dicembre 2014, n. 52578; sezione prima penale, sentenza 27 aprile 2018, n. 18496).

In ragione di tale consolidata giurisprudenza, ad avviso del giudice a quo, non sarebbe stato praticabile – diversamente da quanto ritenuto da un’ordinanza dell’8 marzo 2019 del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Como – un’interpretazione costituzionalmente orientata del censurato art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019 volta a escluderne l’applicabilità ai fatti di reato commessi prima della sua entrata in vigore.

Il giudice a quo osservava poi come la Corte di cassazione, sezione sesta penale, nella sentenza 20 marzo 2019, n. 12541, avesse ritenuto non manifestamente infondato – ancorché, nella specie, irrilevante – il dubbio di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019 in riferimento agli artt. 117, primo comma, Cost. e 7 CEDU, così come interpretato nella sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo 21 ottobre 2013, Del Rio Prada contro Spagna, sul rilievo che «l’avere il legislatore cambiato in itinere le “carte in tavola” senza prevedere alcuna norma transitoria […] si traduce, […], nel passaggio – “a sorpresa” e dunque non prevedibile – da una sanzione patteggiata “senza assaggio di pena” ad una sanzione con necessaria incarcerazione». In adesione alle argomentazioni della citata pronuncia, il rimettente prospettava anzitutto l’illegittimità costituzionale della disposizione censurata, per contrasto con gli artt. 25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost. (in relazione all’art. 7 CEDU), sotto il profilo della violazione del divieto di retroattività della legge penale sfavorevole.

Il rimettente riteneva che, al metro della giurisprudenza della Corte EDU, le misure alternative alla detenzione non possano essere considerate mere modalità di esecuzione della pena incidendo su quest’ultima in termini di sostanziale modificazione quantitativa ovvero qualitativa sicché eventuali sopravvenienze normative o giurisprudenziali che operino in senso restrittivo sulla disciplina dei presupposti e delle condizioni di accesso alle misure stesse dovrebbero essere assistite dalla garanzia di irretroattività di cui all’art. 7 CEDU.

La stessa giurisprudenza costituzionale avrebbe riconosciuto che, a differenza degli altri benefici penitenziari, le misure alternative alla detenzione, «nell’estinguere lo status di detenuto, costituiscono altro status diverso e specifico rispetto a quello di semplice condannato», e che esse «partecipano della natura della pena, proprio per il loro coefficiente di afflittività» (sentenza n. 188 del 1990) e, pertanto, le «modifiche che comportano una sostanziale modificazione nel grado di privazione della libertà personale non possono considerarsi fenomeno privo di rilievo sotto il profilo costituzionale» secondo quanto si evincerebbe dalla sentenza n. 306 del 1993.

Confermerebbe la necessità costituzionale di una disciplina transitoria, in caso di modifiche in senso restrittivo delle condizioni di accesso alle misure alternative, la circostanza che l’art. 4 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa), convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203, abbia circoscritto l’applicazione dell’allora introdotto art. 58-quater, comma 4, della legge n. 354 del 1975 – norma limitativa della concessione di benefici penitenziari per i condannati per taluni gravi delitti – ai fatti commessi dopo l’entrata in vigore del decreto-legge stesso.

In occasione di altri interventi normativi, non accompagnati da una disciplina transitoria, la Corte costituzionale, ricordava il giudice remittente, avrebbe poi dichiarato l’illegittimità di modifiche di segno restrittivo rispetto all’accesso ai benefici penitenziari nella misura in cui le stesse si applicassero anche ai condannati che avevano già raggiunto, sulla base della normativa previgente, un grado di rieducazione adeguato ai benefici richiesti (sono citate le sentenze n. 79 del 2007, n. 257 del 2006, n. 137 del 1999 e n. 445 del 1997).

Il rimettente riteneva come il censurato art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019 si ponesse in contrasto con gli artt. 25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost. (in relazione all’art. 7 CEDU) anche sotto il profilo della violazione del principio dell’affidamento, che imporrebbe la cristallizzazione del trattamento sanzionatorio irrogabile all’autore del reato, sotto il profilo dell’entità e qualità della pena, al momento della commissione del fatto o, quantomeno, del passaggio in giudicato della sentenza di condanna.

La garanzia di irretroattività della legge penale di cui all’art. 7 CEDU comporterebbe, da un lato, la necessità che la legge si concreti in una «regola di giudizio accessibile e prevedibile» per i consociati; e, dall’altro lato, l’illegittimità convenzionale dell’applicazione retroattiva di misure afflittive qualificabili come pene in senso sostanziale (sono citate le sentenze della Corte EDU 15 dicembre 2009, Gurguchiani contro Spagna; 17 dicembre 2009, M. contro Germania; 21 ottobre 2013, Del Rio Prada contro Spagna) fermo restando che, dalla pronuncia Del Rio Prada, si trarrebbe in particolare che il requisito di prevedibilità della legge penale, imposto dall’art. 7 CEDU, che riguarderebbe non soltanto la sanzione ma anche la sua esecuzione e senza che assuma rilievo «il settore ordinamentale nazionale sul cui versante si colloca l’espiazione, [sia] di diritto sostanziale o di diritto processuale».

Ad avviso del rimettente, la «trasformazione della tipologia di pena eseguibile (che da meramente limitativa della libertà diventa radicalmente privativa della libertà personale)» si configurerebbe come «un mutamento imprevedibile e indipendente dalla sfera di controllo del soggetto, tale da modificare in senso sostanziale il quadro giuridico-normativo che il soggetto aveva di fronte a sé nel momento in cui si è determinato nella sua scelta delinquenziale».

L’esigenza costituzionale di salvaguardare il principio dell’affidamento, inoltre, troverebbe riscontro nella più recente giurisprudenza della Consulta che avrebbe evidenziato l’estensibilità del divieto di irretroattività della legge sfavorevole, di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., anche alle sanzioni amministrative a carattere punitivo (citata la sentenza n. 223 del 2018).

Il rimettente riteneva infine che il denunciato art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019 contrastasse con il principio di ragionevolezza e con la funzione rieducativa della pena di cui agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost..

La norma censurata, difatti, introdurrebbe un’irragionevole disparità di trattamento tra condannati per i medesimi delitti la cui istanza di concessione di una misura alternativa alla detenzione sia stata esaminata – per mera casualità o per il difforme carico di lavoro dei tribunali di sorveglianza – anteriormente o successivamente all’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019, «determinando in modo irrazionale gli esiti processuali indipendentemente dal coefficiente di meritevolezza dei singoli condannati». Tale risultato sarebbe altresì contrario ai principi di proporzionalità e individualizzazione della pena (sono citate le sentenze n. 306 del 1993, n. 299 del 1992, n. 203 del 1991 e n. 50 del 1980), corollario della funzione rieducativa, riconosciuta come autentico «imperativo costituzionale» dalla sentenza n. 149 del 2018, posto che l’applicazione immediata delle nuove preclusioni all’accesso alle misure alternative alla detenzione avrebbe inciso in modo irragionevole sul percorso rieducativo senza consentire al giudice una valutazione individualizzata dei presupposti per l’applicazione delle misure a più alta valenza risocializzante.

A sua volta, con ordinanza del 4 aprile 2019 (r.o. n. 115 del 2019), la Corte di appello di Lecce sollevava questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, «nella parte in cui ha inserito i reati contro la pubblica amministrazione, ed in particolare il reato di cui all’art. 314, comma 1, c.p., tra quelli ostativi alla concessione di alcuni benefici penitenziari ai sensi dell’art. 4-bis legge 26/7/1975 n. 354 […] senza prevedere un regime transitorio che dichiari applicabile la norma ai soli fatti commessi successivamente alla sua entrata in vigore», per asserito contrasto con gli artt. 3, 25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7 CEDU.

Il rimettente era investito dell’istanza del condannato di declaratoria di illegittimità dell’ordine di esecuzione emesso il 27 febbraio 2019 dalla Procura generale di Lecce in relazione alla pena detentiva residua di tre anni, dieci mesi e due giorni di reclusione da espiare in conseguenza della condanna (a sette anni e venticinque giorni di reclusione) per i reati di cui agli artt. 81, 110 e 314 cod. pen., commessi tra il 19 maggio 2000 e il 21 marzo 2002, pronunciata con sentenza della Corte di appello di Lecce del 28 ottobre 2016, divenuta irrevocabile il 1° febbraio 2019.

In punto di rilevanza delle questioni sollevate, il giudice a quo evidenziava come l’ordine di esecuzione della pena fosse stato emesso – pur a fronte di una condanna per fatti di reato commessi prima dell’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019 – in applicazione della norma censurata che aveva  modificato, con operatività immediata, l’art. 4-bis ordin. penit. includendo il delitto di peculato nel novero di quelli ostativi alla sospensione dell’ordine stesso ai sensi dell’art. 656 cod. proc. pen. tenuto conto che, dall’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale prospettate, sarebbe derivata la possibilità per il condannato di ottenere l’immediata sospensione dell’ordine di esecuzione e di presentare da libero l’istanza di concessione di misure alternative alla detenzione.

Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente rammentava come dubbi di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019 fossero già stati adombrati dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 535 [recte: n. 12541] del 2019 ed evidenziava come la norma censurata fosse anzitutto foriera di una ingiustificata disparità di trattamento, lesiva dell’art. 3 Cost., tra coloro che hanno posto in essere delle condotte delittuose anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019, facendo affidamento sulla possibilità di non scontare in carcere una pena (anche residua) inferiore ai quattro anni, e coloro che, invece, hanno commesso i medesimi reati nella vigenza della citata legge.

Ciò posto, ad avviso del giudice a quo, l’art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019 si sarebbe posto altresì in contrasto con la garanzia di irretroattività della legge penale, di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., «per i suoi indubbi riflessi sostanziali in punto di esecuzione della pena in concreto, frutto di un cambiamento delle regole successivo alla data del commesso reato».

La modifica peggiorativa del regime di esecuzione della pena, non accompagnata da alcuna norma transitoria, sarebbe contrastata infine con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 7 CEDU, traducendosi in un «passaggio a sorpresa e non prevedibile al momento della commissione del reato alla sanzione con necessaria incarcerazione».

Con ordinanza del 10 giugno 2019 (r.o. n. 118 del 2019), il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Cagliari sollevava questioni di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 1 [recte: art. 1, comma 6], lettera b), della legge n. 3 del 2019, «nella parte in cui ha inserito i reati contro la pubblica amministrazione, tra quelli ostativi alla concessione di alcuni benefici penitenziari ai sensi dell’art. 4-bis legge 26 luglio 1975, n. 354 senza prevedere un regime transitorio», per contrasto con gli artt. 3, 24, 25, 27, 111 e 117, primo comma, Cost. (quest’ultimo in relazione all’art. 7 CEDU).

Si legga anche:”Legge Spazzacorrotti: dictum di irretroattività della Corte Costituzionale”

Il rimettente era investito di un incidente di esecuzione proposto da un detenuto e volto alla declaratoria di temporanea inefficacia dell’ordine di esecuzione, emesso dalla Procura della Repubblica dopo il passaggio in giudicato, il 30 aprile 2019, della sentenza della Corte d’appello di Cagliari, che aveva condannato l’interessato alla pena di due anni e otto mesi di reclusione, per il reato di cui all’art. 314 cod. pen., commesso fino al 16 novembre 2011.

In punto di rilevanza delle questioni sollevate, il giudice a quo richiamava la giurisprudenza di legittimità sull’applicabilità del principio tempus regit actum alle disposizioni concernenti l’esecuzione delle pene detentive e le misure alternative alla detenzione (è citata Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza n. 24561 del 2006) e affermava che, alla data di passaggio in giudicato della sentenza di condanna, si sarebbe incardinato il rapporto esecutivo e si sarebbe cristallizzato il contesto normativo che definisce le modalità di esecuzione della pena sicché le modifiche all’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975 apportate dalla legge n. 3 del 2019, in assenza di una disciplina transitoria, sarebbero state applicabili anche ai fatti commessi da questo detenuto prima dell’entrata in vigore della legge stessa mentre, viceversa, in caso di dichiarata incostituzionalità dell’art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, costui avrebbe potuto ottenere l’immediata sospensione dell’ordine di esecuzione della pena.

Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente riteneva come l’applicabilità immediata della disposizione censurata a coloro che abbiano commesso il reato anteriormente alla sua entrata in vigore fosse in contrasto con la garanzia di irretroattività della legge penale, di cui all’art. 7 CEDU.

In particolare, riportandosi ampi stralci della sentenza della Corte di cassazione, sesta sezione penale, n. 12541 del 2019, il rimettente dichiarava di condividere i dubbi, ivi espressi, di conformità con l’art. 7 CEDU, come interpretato nella sentenza della Corte EDU Del Rio Prada – e, per esso, con l’art. 117, primo comma, Cost. – dell’omessa previsione di una disciplina transitoria nella legge n. 3 del 2019.

La disciplina censurata sarebbe stata altresì foriera di una ingiustificata disparità di trattamento, lesiva dell’art. 3 Cost., tra soggetti che abbiano commesso identici fatti di reato anteriormente o posteriormente all’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019.

Il consolidato orientamento giurisprudenziale in ordine alla natura processuale delle norme di ordinamento penitenziario non avrebbe consentito una lettura costituzionalmente orientata della disposizione censurata che, in definitiva, presenterebbe profili di contrarietà con gli artt. 3, 25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 7 CEDU.

Con ordinanza del 2 aprile 2019 (r.o. n. 119 del 2019), il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Napoli sollevava questioni di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 1 [recte: art. 1, comma 6], lettera b), della legge n. 3 del 2019, denunciandone il contrasto con gli artt. 3, 24, 25, 27, 111 e 117, primo comma, Cost. (quest’ultimo in relazione all’art. 7 CEDU), «nella parte in cui, ampliando il novero dei reati “ostativi” ai sensi dell’art. 4-bis l. 354/1975, includendovi i reati contro la pubblica amministrazione, ha mancato di prevedere un regime intertemporale».

Il rimettente era chiamato a delibare l’istanza presentata, ai sensi dell’art. 666 cod. proc. pen., volta a ottenere l’invalidazione dell’ordine di esecuzione emesso l’11 febbraio 2019 dalla Procura della Repubblica, in relazione alla condanna alla pena di un anno di reclusione inflitta dalla Corte d’appello di Napoli con sentenza del 20 gennaio 2015 (irrevocabile il 1° giugno 2018), per i reati di cui agli artt. 110, 81, comma 2, 112, numero 1), 319, 320, 321 cod. pen., commessi dal novembre 2007 al febbraio 2008.

Rammentato il consolidato orientamento di legittimità circa la natura processuale delle norme previste dalla legge n. 354 del 1975, il rimettente argomentava che il censurato art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, avendo ampliato il novero dei reati “ostativi” di cui all’art. 4-bis ordin. penit. ma senza prevedere alcuna disciplina transitoria in relazione ai fatti commessi prima della sua entrata in vigore, si sarebbe posto in contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 7 CEDU così come interpretato dalla Corte EDU nella sentenza Del Rio Prada che avrebbe assoggettato al principio di irretroattività della legge penale «i trattamenti esecutivi sfavorevoli» fermo restando che, a sostegno della propria argomentazione, il giudice a quo trascriveva ampi stralci della sentenza della Corte di cassazione, sesta sezione penale, n. 12541 del 2019.

Concludeva il rimettente evidenziando la rilevanza delle questioni sollevate atteso che il loro accoglimento avrebbe comportato la fondatezza del ricorso proposto dal condannato.

Con ordinanza del 7 giugno 2019 (r.o. n. 157 del 2019), il Tribunale di sorveglianza di Taranto aveva sollevato, in riferimento all’art. 3 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, «nella parte in cui, modificando l’art. 4 bis, comma 1 della Legge n. 354/1975, ha inserito i reati contro la p.a. e in particolare quello di cui all’art. 314 comma 1 tra quelli ostativi alla concessione di alcuni benefici penitenziari, senza prevedere un regime transitorio che dichiari applicabile la norma ai soli fatti commessi successivamente alla sua entrata in vigore».

Il rimettente doveva decidere dell’istanza di concessione della detenzione domiciliare per gravi motivi di salute o, in subordine, per ragioni di età, avanzata dalla parte anche nel giudizio iscritto al n. 115 del r.o. 2019), condannata dalla Corte di appello di Lecce, con sentenza irrevocabile il 1° febbraio 2019, alla pena di sette anni e venticinque giorni di reclusione, per plurimi delitti di peculato commessi fino al 25 marzo 2002 e attualmente detenuta a seguito dell’emissione di ordine di esecuzione da parte della Procura generale presso la medesima Corte di appello.

In punto di rilevanza, esponeva il giudice a quo che, da un lato, non risultava concedibile la detenzione domiciliare per gravi motivi di salute, ex artt. 47-ter, comma 1-ter, ordin. penit. e 147, primo comma, numero 2), cod. pen., non versando l’interessato in condizioni di infermità fisica o psichica tali da rendere impossibili le cure in ambiente carcerario e, dall’altro lato, risultava essere inammissibile l’istanza di concessione della detenzione per motivi di età, ex art. 47-ter, comma 01, ordin. penit., atteso che, per effetto dell’entrata in vigore dell’art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, il delitto di peculato è stato inserito nel catalogo dei reati di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. ostativi alla concessione della detenzione domiciliare in favore di soggetti ultrasettantenni.

Ciò posto, ad avviso del giudice a quo, tale regime di ostatività avrebbe potuto far venir meno solo in forza dell’accertamento della collaborazione del detenuto con la giustizia, ai sensi dell’art. 58-ter ordin. penit. o dell’art. 323-bis, secondo comma, cod. pen. o dell’inesigibilità della collaborazione stessa mentre, nel caso di specie, tuttavia, tali condizioni non risultavano essere state realizzate sicché l’interessato soggiaceva al regime di ostatività previsto dal novellato art. 4-bis ordin. penit., pur essendo soggetto ultrasettantenne astrattamente idoneo a fruire della detenzione domiciliare prevista dall’art. 47-ter, comma 01, ordin. penit. donde la rilevanza della questione di legittimità costituzionale sollevata.

Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo rilevava come l’art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019 avesse ampliato il novero dei reati ostativi contemplati dall’art. 4-bis ordin. penit. senza prevedere alcuna disciplina transitoria, diversamente da quanto avvenuto in occasione dell’introduzione dell’art. 4-bis, realizzata dal decreto-legge n. 152 del 1991 e delle modifiche allo stesso apportate dall’art. 1 della legge n. 279 del 2002, ove il legislatore aveva previsto l’applicabilità delle nuove e più restrittive disposizioni ai soli fatti di reato commessi successivamente all’entrata in vigore delle stesse.

Riteneva il giudice a quo che l’assenza di una disciplina transitoria nella legge n. 3 del 2019 fosse foriera di disparità di trattamento e pregiudizio al diritto di difesa che si sarebbe tradotta in una lesione dell’art. 3 Cost..

Coloro che abbiano commesso reati inclusi nel novellato catalogo di cui all’art. 4-bis ordin. penit. prima dell’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019, infatti, si sarebbero trovati ad essere o meno soggetti all’ordine di esecuzione e alla preclusione nella richiesta di accesso alle misure alternative alla detenzione a seconda che siano stati ammessi all’esecuzione penale esterna prima o dopo la novella dato che, a sua volta, ciò sarebbe dipeso da circostanze del tutto contingenti quali «la collocazione territoriale, la velocità con la quale è stato celebrato il processo, la rapidità dell’emanazione dell’ordine di esecuzione da parte del pubblico ministero e quella del Tribunale di Sorveglianza che, per ragioni istruttorie o per altro motivo, non abbia assunto una decisione prima dell’entrata in vigore della legge».

Ad avviso del rimettente, invece, la natura processuale delle norme penitenziarie non consentirebbe di ritenere applicabile la garanzia di irretroattività della legge penale sfavorevole, di cui all’art. 7 CEDU, né le norme relative alle modalità di accesso alle misure alternative avrebbero potuto formare oggetto di un affidamento del condannato alla luce dell’imprescindibilità della valutazione discrezionale del tribunale di sorveglianza in ordine alla concessione di ciascuna misura.

Con ordinanza del 30 aprile 2019 (r.o. n. 160 del 2019), il Tribunale ordinario di Brindisi sollevava questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, «nella parte in cui, modificando l’art. 4 bis comma 1° della Legge 26 luglio 1975 n. 354 – norma richiamata dall’art. 656, comma 9, lett. a) c.p.p. – si applica anche al delitto di cui all’art. 314 c.p. commesso anteriormente all’entrata in vigore della medesima legge», denunciandone il contrasto con gli artt. 24, 25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7 CEDU.

Il rimettente era investito dell’istanza di un detenuto volta a ottenere la declaratoria di temporanea inefficacia dell’ordine di esecuzione emesso dal pubblico ministero il 5 aprile 2019, in relazione alla condanna inflitta all’interessato dal Tribunale ordinario di Brindisi il 25 marzo 2015 (divenuta irrevocabile il 13 marzo 2019) alla pena di due anni e otto mesi di reclusione per i delitti di cui agli artt. 110, 56, 314, primo comma, 61, numero 9), cod. pen. (commesso l’11 agosto 2011), di cui agli artt. 110, 117, e 314, primo comma, cod. pen. (commesso il 18 luglio 2011) e di cui all’art. 314, primo comma, cod. pen. (commesso il 24 febbraio 2011).

In punto di rilevanza delle questioni sollevate, il giudice a quo esponeva che, a seguito dell’entrata in vigore del censurato art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, il detenuto non poteva più beneficiare della sospensione dell’ordine di esecuzione essendo stato il delitto di cui all’art. 314 cod. pen. incluso nell’elenco dei reati ostativi di cui all’art. 4-bis ordin. penit. laddove, prima dell’intervenuta modifica normativa, egli avrebbe potuto chiedere la concessione di una misura alternativa alla detenzione senza previo periodo di osservazione in carcere.

Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente premetteva che, in assenza di una disciplina transitoria, la disposizione censurata risultava essere immediatamente applicabile in base al consolidato orientamento che attribuisce carattere processuale alle norme penitenziarie.

Riteneva tuttavia il giudice a quo che la non sospendibilità dell’ordine di esecuzione, risultante dal richiamo dell’art. 4-bis ordin. penit. da parte dell’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen., incida non solo sulle modalità esecutive della pena ma anche sulla sua effettiva portata e natura imponendo al condannato che aspiri alle misure alternative alla detenzione «una temporanea anticipazione del regime detentivo […] in attesa delle decisioni del magistrato di sorveglianza sul possibile accesso a una di tali misure»; il tutto, peraltro, con «possibili frizioni con la finalità rieducativa della pena prevista dall’art. 27 Cost.» attesa l’incongruità – rilevata anche dalla Corte di legittimità costituzionale con la sentenza n. 41 del 2018 – della temporanea carcerazione di soggetti che possano poi beneficiare di misure risocializzanti extramurarie.

L’art. 4-bis ordin. penit., richiamato dall’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen., «benché “nominalmente” processuale» esibirebbe dunque «nella “sostanza” […] un contenuto “afflittivo” per le ricadute sulla libertà personale del condannato», impossibilitato appunto a ottenere la sospensione dell’ordine di esecuzione della pena.

Attesa la natura “penale” dell’art. 4-bis ordin. penit., l’applicazione immediata delle modifiche normative di segno peggiorativo apportate a detta disposizione dalla legge n. 3 del 2019 integrerebbe una violazione del divieto di retroattività della legge penale sfavorevole, sancito dall’art. 7 CEDU, così come interpretato dalla Corte EDU nella sentenza Del Rio Prada.

Ciò posto, sarebbe stato violato anche il corrispondente principio di irretroattività contenuto nell’art. 25, secondo comma, Cost. la cui operatività questa Corte avrebbe esteso a disposizioni non formalmente penali, ma «a carattere “intrinsecamente punitivo”» (sono citate le sentenze n. 223 del 2018 e n. 196 del 2010).

La modifica in senso sfavorevole della portata dell’art. 4-bis ordin. penit., realizzata dal censurato art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, avrebbe vanificato altresì il legittimo affidamento del condannato a ottenere la sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva di durata inferiore a quattro anni (come quella in specie irrogata) con conseguente ulteriore violazione degli artt. 117, primo comma, Cost. e 7 CEDU, già evidenziata dalla Corte di cassazione, sezione sesta penale, nella sentenza n. 12541 del 2019.

L’incidente di esecuzione riguardante l’ordine di esecuzione emesso a carico del detenuto sarebbe rientrato a pieno titolo nell’ambito applicativo dell’art. 6 CEDU sul diritto al processo equo atteso lo stretto legame tra la nozione di “pena” risultante dall’art. 7 CEDU e quella di “accusa in materia penale” utilizzata dall’art. 6 CEDU.

Tal che se ne faceva conseguire come sarebbe derivata la possibilità di estendere le garanzie dell’art. 6 CEDU anche a «istituti rientranti nel “procedimento di esecuzione” che concorrono a determinare l’effettiva durata della privazione della libertà da scontare» quali il procedimento ex art. 671 cod. proc. pen. per l’applicazione della continuazione in sede esecutiva, nonché i procedimenti relativi alla validità o efficacia del titolo esecutivo o dell’ordine di esecuzione.

La riconducibilità del procedimento di esecuzione disciplinato dall’art. 666 cod. proc. pen. all’ambito applicativo dell’art. 6 CEDU avrebbe a sua volta comportato la qualificabilità come disposizione di natura “penale”, ai sensi dell’art. 7 CEDU, dell’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen. sulla sospensione dell’ordine di esecuzione, «così come integrato» dall’art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, che ha modificato l’art. 4-bis ordin. penit. E invero, gli effetti derivanti dalla disciplina in scrutinio «si traducono in un’anticipazione della pena detentiva che comporta la privazione della libertà personale attraverso la carcerazione, anche se il condannato risulterà meritevole di una misura alternativa».

L’applicazione retroattiva della disciplina sfavorevole introdotta dalla legge n. 3 del 2019 avrebbe altresì comportato una lesione del diritto di difesa garantito dall’art. 24 Cost. vanificando le strategie processuali dell’imputato il quale potrebbe avere chiesto l’applicazione di un rito alternativo confidando in una diminuzione di pena sufficiente a poter beneficiare della sospensione dell’ordine di esecuzione; sospensione che, invece, non potrebbe essere più accordata in forza dell’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019.

Il contrasto della norma censurata con i parametri costituzionali evocati, infine, ad avviso del giudice a quo, non sarebbe stato superabile in via interpretativa in presenza di un consolidato diritto vivente di segno contrario.

Con ordinanza del 30 aprile 2019 (r.o. n. 161 del 2019), il Tribunale ordinario di Brindisi avevasollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, «nella parte in cui, modificando l’art. 4 bis comma 1° della Legge 26 luglio 1975 n. 354 – norma richiamata dall’art. 656, comma 9°, lett. a) c.p.p. – si applica anche al delitto di cui all’art. 314 c.p. commesso anteriormente all’entrata in vigore della medesima legge», denunciandone il contrasto con gli artt. 24, 25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7 CEDU.

Il rimettente doveva pronunciarsi, ex art. 666 cod. proc. pen., sull’incidente di esecuzione promosso da C. M. onde ottenere la declaratoria di temporanea inefficacia dell’ordine di esecuzione emesso dal pubblico ministero il 5 aprile 2019, in relazione alla condanna inflitta all’interessato dal Tribunale di Brindisi il 25 marzo 2015 (divenuta irrevocabile il 13 marzo 2019) alla pena di due anni e quattro mesi di reclusione per il delitto di cui agli artt. 110 e 314, primo comma, cod. pen. (commesso il 3 agosto 2011) e per il delitto di cui agli artt. 110, 81, 56 e 314, primo comma, cod. pen. (commesso il 22 luglio e il 13 agosto 2011).

In punto di rilevanza e non manifesta infondatezza delle questioni sollevate, il giudice a quo svolgeva considerazioni di identico tenore a quelle che compaiono nell’ordinanza di rimessione iscritta al n. 160 del r.o. 2019.

Con ordinanza del 16 luglio 2019 (r.o. n. 193 del 2019), il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Caltanissetta sollevava questioni di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 1 [recte: art. 1, comma 6], lettera b), della legge n. 3 del 2019, denunciandone il contrasto con gli artt. 3, 24, 25, 27, 111 e 117 Cost. (quest’ultimo in relazione all’art. 7 CEDU), «nella parte in cui, ampliando il novero dei reati “ostativi” ai sensi dell’art. 4-bis legge 354/1975, includendovi i reati contro la pubblica amministrazione, ha mancato di prevedere un regime intertemporale».

Il tribunale rimettente era investito di un’istanza, presentata da un detenuto di declaratoria di illegittimità dell’ordine di esecuzione emesso dalla locale Procura della Repubblica e notificato il 7 giugno 2019 per l’espiazione della pena di tre anni, undici mesi e dieci giorni di reclusione, applicata – in relazione a diversi reati uniti dal vincolo della continuazione, tra cui il delitto di cui all’art. 319 cod. pen., commesso tra il 16 maggio e il 31 maggio 2017 – ex art. 444 cod. proc. pen. con sentenza del 12 febbraio 2019, divenuta irrevocabile il 28 maggio 2019.

Premessa l’adesione al consolidato orientamento giurisprudenziale circa la natura processuale delle disposizioni concernenti l’esecuzione delle pene detentive e le misure alternative alla detenzione, il rimettente osservava, in punto di rilevanza delle questioni sollevate, che, attesa l’immediata operatività della previsione dell’art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, l’istanza del detenuto avrebbe dovuto essere rigettata atteso che, diversamente, l’accoglimento delle questioni avrebbe comportato la sospensione dell’ordine di esecuzione della pena, poiché relativo a fatti commessi prima dell’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019.

Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente argomentava la contrarietà della disposizione censurata all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 7 CEDU, richiamando la sentenza della Corte EDU Del Rio Prada e le considerazioni svolte dalla Corte di cassazione nella sentenza n. 12541 del 2019.

Con ordinanza del 16 luglio 2019 (r.o. n. 194 del 2019), il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Caltanissetta solleva questioni di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 1 [recte: art. 1, comma 6], lettera b), della legge n. 3 del 2019, identiche a quelle già prospettate nell’ordinanza iscritta al n. 193 del r.o. 2019 quanto al petitum e ai parametri costituzionali evocati.

In questo caso, il rimettente era stato investito di un’istanza, presentata da un detenuto, di declaratoria di illegittimità dell’ordine di esecuzione emesso dalla locale Procura della Repubblica e notificato il 7 giugno 2019 per l’espiazione della pena di tre anni, tre mesi e dieci giorni di reclusione, applicata – in relazione a diversi reati uniti dal vincolo della continuazione, tra cui il delitto di cui all’art. 319 cod. pen., commesso tra il 16 e il 31 maggio 2017 – ex art. 444 cod. proc. pen. con sentenza del 12 febbraio 2019, divenuta irrevocabile il 28 maggio 2019.

Il rimettente riproponeva, a sostegno della rilevanza e non manifesta infondatezza delle questioni sollevate, le medesime argomentazioni svolte nell’ordinanza iscritta al n. 193 del r.o. 2019.

Con ordinanza del 31 luglio 2019 (r.o. n. 210 del 2019), il Tribunale di sorveglianza di Potenza aveva sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, «nella parte in cui, modificando l’art. 4 bis, comma 1 della L. 26.7.1975 n. 354, si applica anche in relazione ai delitti di cui agli artt. 317 c.p. e 319 c.p. commessi anteriormente alla entrata in vigore della medesima legge», denunciando il contrasto della disposizione con gli artt. 3, 25, secondo comma, 27, secondo e terzo comma, e 117, primo comma, Cost. (quest’ultimo in relazione all’art. 7 CEDU).

Il rimettente era chiamato a statuire sul reclamo avverso il decreto del 21 febbraio 2019 con cui il magistrato di sorveglianza aveva dichiarato inammissibile l’istanza di concessione di permesso premio, ex art. 30-ter ordin. penit., avanzata da un detenuto in espiazione della pena (residuo di otto anni) di sette anni, otto mesi e ventiquattro giorni di reclusione, inflitta dalla Corte di appello di Potenza con sentenza del 30 settembre 2016 (divenuta irrevocabile l’8 agosto 2017), in relazione ai reati di cui agli artt. 81, comma 2, 110, 317 e 319 cod. pen.

In punto di rilevanza delle questioni sollevate, il giudice a quo evidenziava come l’istanza di concessione del permesso premio fosse stata presentata prima dell’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019 ma delibata dal magistrato di sorveglianza solo successivamente, con conseguente applicabilità delle preclusioni alla concessione del permesso premio, in difetto di collaborazione con la giustizia, previste dall’art. 4-bis ordin. penit., come novellato dall’art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, per i reati ostativi ivi indicati, tra i quali risultavano attualmente inclusi quelli di concussione e corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio.

Osservava altresì il rimettente che, in difetto della sopravvenuta modifica dell’art. 4-bis ordin. penit., il detenuto avrebbe avuto diritto alla concessione del permesso premio sussistendo i requisiti previsti dall’art. 30-ter della medesima legge.

Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente richiamava da un lato il consolidato orientamento giurisprudenziale circa la natura processuale delle norme penitenziarie con conseguente immediata applicabilità di modifiche normative anche peggiorative ai fatti pregressi, in difetto di apposita disciplina transitoria e, dall’altro lato, la recente pronuncia della Corte di cassazione, sezione sesta penale, n. 12541 del 2019 che aveva ritenuto non manifestamente infondato – ancorché, in specie, non rilevante – il dubbio di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 117, primo comma, Cost. e 7 CEDU, determinato dalla mancata previsione di una disposizione transitoria volta a limitare l’applicabilità delle modifiche introdotte all’art. 4-bis ordin. penit. ai soli fatti di reato commessi successivamente all’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019.

Ad avviso del giudice a quo, il permesso premio, lungi dal risolversi in una mera modalità di esecuzione della pena, «viene a incidere sulla qualità essenziale della pena stessa rispetto alla quale la funzione rieducativa viene assicurata anche tramite il beneficio ex art. 30 ter O.P.», come riconosciuto dalla Consulta nella sentenza n. 349 del 1993 sicché eventuali modifiche normative che restringano i presupposti di accesso a tale beneficio modificherebbero «la natura stessa della sanzione penale» e dovrebbero essere soggette alla garanzia di irretroattività prevista dagli artt. 25, secondo comma, Cost., e 7 CEDU.

Riprendendo in larga misura le argomentazioni dell’ordinanza di rimessione iscritta al n. 114 del r.o. 2019, il rimettente evidenziava come la Corte costituzionale avesse già censurato modifiche normative che incidessero in senso peggiorativo sulle condizioni di fruibilità di benefici penitenziari applicandosi indistintamente anche ai condannati che avessero già raggiunto un grado di rieducazione adeguato al beneficio richiesto (sono richiamate le sentenze n. 79 del 2007, n. 257 del 2006, n. 137 del 1999, n. 445 del 1997 e n. 504 del 1995).

Il rimettente argomentava poi la dedotta lesione degli artt. 25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost. (in relazione all’art. 7 CEDU), sotto il profilo della violazione del principio di affidamento svolgendo considerazioni analoghe a quelle esposte nell’ordinanza di rimessione iscritta al n. 114 del r.o. 2019.

In relazione al prospettato contrasto della disposizione censurata con gli artt. 3 e 27, secondo e terzo comma, Cost., il rimettente parimenti riproponeva le argomentazioni dell’ordinanza di rimessione iscritta al n. 114 del r.o. 2019 soggiungendo che «la preclusione all’accesso ai benefici penitenziari o, più correttamente, la possibilità di accesso solo in caso di collaborazione o di accertata collaborazione impossibile senza alcuna distinzione di ordine temporale quanto alla sfera di applicazione della nuova normativa» avrebbe introdotto un automatismo tale da impedire al giudice ogni valutazione individuale sul concreto percorso rieducativo compiuto dal condannato prima dell’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019 con conseguente frustrazione dell’imperativo costituzionale della funzione rieducativa della pena (sono richiamate la sentenza n. 149 del 2018 e la giurisprudenza costituzionale ivi citata).

Con ordinanza del 12 giugno 2019 (r.o. n. 220 del 2019), il Tribunale di sorveglianza di Salerno aveva sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, «nella parte in cui, modificando l’art. 4 bis, comma 1 O.P., si applica anche in relazione ai delitti di cui all’art. 319-quater comma 1 c.p. commessi anteriormente alla entrata in vigore della medesima legge», denunciando il contrasto della disposizione con gli artt. 3, 25, secondo comma, 27, terzo comma, 117 Cost. e 7 CEDU.

Il rimettente era chiamato a delibare l’istanza di concessione dell’affidamento in prova al servizio sociale, o in subordine, della detenzione domiciliare o della semilibertà, avanzata da un condannato alla pena di sei anni di reclusione dalla Corte di appello di Milano con sentenza del 14 novembre 2017, per i reati di cui agli artt. 319-quater, primo comma, e 648 cod. pen., in regime di arresti domiciliari e in attesa della valutazione del Tribunale di sorveglianza circa la concedibilità di misure alternative alla detenzione, ai sensi dell’art. 656, comma 10, cod. proc. pen..

Premette il giudice a quo che l’immediata applicabilità delle modifiche apportate all’art. 4-bis ordin. penit. dall’art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019 – e, segnatamente, l’inclusione del delitto di cui all’art. 319-quater, primo comma, cod. pen. nel novero di quelli “ostativi” ai sensi della prima disposizione – avrebbe comportato la declaratoria di inammissibilità delle istanze del ristretto in difetto del requisito della collaborazione con la giustizia o della impossibilità della stessa, previsto per l’accesso ai benefici penitenziari dal citato art. 4-bis ord. penit..

Diversamente ragionando, l’auspicata declaratoria di illegittimità costituzionale della norma censurata, sotto il profilo della mancata previsione dell’inapplicabilità ai fatti di reato pregressi, avrebbe consentito al rimettente di accogliere le istanze del detenuto, alla luce dell’assenza di altri precedenti penali, della regolare condotta serbata durante il periodo trascorso agli arresti domiciliari e della possibilità di svolgere un’attività lavorativa idonea a favorire il reinserimento sociale: donde la rilevanza delle questioni sollevate.

Quanto alla non manifesta infondatezza, essa era argomentata in base a considerazioni analoghe a quelle svolte dal Tribunale di sorveglianza di Venezia nell’ordinanza iscritta al n. 114 del r.o. 2019.

 

Le argomentazioni sostenute dalle parti

 

In riferimento al procedimento incardinato presso il Tribunale di Sorveglianza di Venezia, interveniva in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni di legittimità costituzionale fossero dichiarate inammissibili o infondate.

L’inammissibilità, secondo l’Avvocatura generale, risulterebbe anzitutto dal difetto di rilevanza delle questioni atteso che un’applicazione rigorosa del principio tempus regit actum – che governa le modifiche delle norme penitenziarie, da qualificarsi come norme processuali, anche secondo la giurisprudenza costituzionale (citate le sentenze n. 376 del 1997 e n. 306 del 1993) – condurrebbe a escludere il rilievo delle previsioni della legge n. 3 del 2019 nel procedimento a quo incardinatosi, con la sospensione dell’ordine di esecuzione della pena, anteriormente all’entrata in vigore della legge stessa.

Orbene, per la Presidenza del Consiglio, tale soluzione, già sperimentata dalla giurisprudenza di merito (citata l’ordinanza del 1° marzo 2019 del Tribunale ordinario di Napoli), sarebbe stata conforme all’orientamento della giurisprudenza di legittimità circa la non revocabilità della sospensione dell’ordine di esecuzione a fronte di modifiche normative che includano il reato per cui è stata pronunciata condanna nel catalogo di cui all’art. 4-bis ordin. penit. (citata Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 1° luglio 2010, n. 24831) fermo restando che una simile soluzione troverebbe altresì avallo nei principi di progressività trattamentale e di divieto di regressione incolpevole del trattamento enunciati dalla giurisprudenza costituzionale (è citata la sentenza n. 149 del 2018).

Le questioni sollevate sarebbero state altresì inammissibili, in quanto tendenti a sollecitare un intervento manipolativo della Corte, in assenza di una soluzione costituzionalmente obbligata posto che la data di commissione del reato rappresenterebbe solo uno dei possibili criteri temporali cui ancorare l’applicabilità o meno della normativa sopravvenuta di cui alla legge n. 3 del 2019 ben potendo farsi altresì riferimento alla data del passaggio in giudicato della sentenza di condanna oppure alla data di sospensione dell’ordine di esecuzione della pena.

Quanto al merito delle censure relative alla lesione degli artt. 3, 25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7 CEDU, le stesse, per l’Avvocatura generale, si fonderebbero su un acritico richiamo del rimettente alla sentenza della Corte EDU Del Rio Prada laddove sarebbe, invece, necessario «valutare come ed in quale misura il prodotto dell’interpretazione della Corte europea si inserisca nell’ordinamento costituzionale italiano» (sentenza n. 317 del 2009) tenuto conto del margine di apprezzamento di cui gode la Corte costituzionale nel valutare la giurisprudenza europea (citata la sentenza n. 311 del 2009).

La sentenza Del Rio Prada non avrebbe disconosciuto che le norme penitenziarie e quelle relative all’esecuzione delle pene non costituiscono norme penali in senso proprio ma si sarebbe limitata ad accertare che, nel caso concreto, un mutamento non prevedibile nell’interpretazione giurisprudenziale aveva prodotto effetti deteriori sul trattamento penitenziario della ricorrente.

D’altro canto, l’interpretazione dell’art. 25, secondo comma, Cost., finora offerta dalla Consulta, escluderebbe decisamente che le norme di diritto penitenziario possono essere qualificate come “penali” posto che il giudice delle leggi avrebbe escluso, nella sentenza n. 273 del 2001 e nell’ordinanza n. 280 del 2001, l’incidenza del divieto di retroattività della legge penale sulla normativa penitenziaria il che comporterebbe l’inammissibilità della questione sollevata dal rimettente in riferimento all’art. 25, secondo comma, Cost..

La stessa giurisprudenza di legittimità sarebbe stata poi costante nel ritenere che le disposizioni concernenti l’esecuzione delle pene detentive e le misure alternative alla detenzione, non riguardando l’accertamento del reato e l’irrogazione della pena, ma soltanto le modalità esecutive della stessa, sono soggette al principio tempus regit actum (richiamate in tal senso Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza n. 24561 del 2006, nonché sezione prima penale, sentenze n. 46649 del 2009 e n. 11580 del 2013, e sezione sesta penale, sentenza n. 535 [recte: n. 12541] del 2019).

La Corte costituzionale avrebbe inoltre già escluso, con l’ordinanza n. 108 del 2004, la lesione dell’art. 3 Cost., in relazione ad altra modifica normativa dell’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975 (intervenuta ad opera dell’art. 4, comma 1, della legge 23 dicembre 2002, n. 279, recante «Modifica degli articoli 4-bis e 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di trattamento penitenziario»). Assumerebbe infine rilievo, nel caso di specie, la sentenza n. È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni di legittimità costituzionale siano dichiarate inammissibili o infondate.

L’inammissibilità risulterebbe anzitutto dal difetto di rilevanza delle questioni, atteso che un’applicazione rigorosa del principio tempus regit actum – che governa le modifiche delle norme penitenziarie, da qualificarsi come norme processuali, anche secondo la giurisprudenza costituzionale (sono citate le sentenze n. 376 del 1997 e n. 306 del 1993) – condurrebbe a escludere il rilievo delle previsioni della legge n. 3 del 2019 nel procedimento a quo, incardinatosi, con la sospensione dell’ordine di esecuzione della pena, anteriormente all’entrata in vigore della legge stessa.

Tale soluzione, già sperimentata dalla giurisprudenza di merito (è citata l’ordinanza del 1° marzo 2019 del Tribunale ordinario di Napoli), per un verso, sarebbe conforme all’orientamento della giurisprudenza di legittimità circa la non revocabilità della sospensione dell’ordine di esecuzione, a fronte di modifiche normative che includano il reato per cui è stata pronunciata condanna nel catalogo di cui all’art. 4-bis ordin. penit. (è citata Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 1° luglio 2010, n. 24831), per altro verso, troverebbe altresì avallo nei principi di progressività trattamentale e di divieto di regressione incolpevole del trattamento enunciati dalla giurisprudenza costituzionale (è citata la sentenza n. 149 del 2018).

Le questioni sollevate sarebbero altresì inammissibili, in quanto tendenti a sollecitare un intervento manipolativo della Corte, in assenza di una soluzione costituzionalmente obbligata posto che la data di commissione del reato rappresenterebbe solo uno dei possibili criteri temporali cui ancorare l’applicabilità o meno della normativa sopravvenuta di cui alla legge n. 3 del 2019, ben potendo farsi altresì riferimento alla data del passaggio in giudicato della sentenza di condanna, oppure alla data di sospensione dell’ordine di esecuzione della pena.

Quanto al merito delle censure relative alla lesione degli artt. 3, 25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7 CEDU, le stesse si fonderebbero su un acritico richiamo del rimettente alla sentenza della Corte EDU Del Rio Prada laddove sarebbe, invece, necessario «valutare come ed in quale misura il prodotto dell’interpretazione della Corte europea si inserisca nell’ordinamento costituzionale italiano» (sentenza n. 317 del 2009), tenuto conto del margine di apprezzamento di cui gode la Corte costituzionale nel valutare la giurisprudenza europea (citata la sentenza n. 311 del 2009).

La sentenza Del Rio Prada non avrebbe disconosciuto che le norme penitenziarie e quelle relative all’esecuzione delle pene non costituiscono norme penali in senso proprio ma si sarebbe limitata ad accertare che, nel caso concreto, un mutamento non prevedibile nell’interpretazione giurisprudenziale aveva prodotto effetti deteriori sul trattamento penitenziario della ricorrente.

D’altro canto, l’interpretazione dell’art. 25, secondo comma, Cost. finora offerta dal giudice delle leggi escluderebbe decisamente che le norme di diritto penitenziario possono essere qualificate come “penali”.

La Corte costituzionale avrebbe infatti escluso, nella sentenza n. 273 del 2001 e nell’ordinanza n. 280 del 2001, l’incidenza del divieto di retroattività della legge penale sulla normativa penitenziaria, il che comporterebbe l’inammissibilità della questione sollevata dal rimettente in riferimento all’art. 25, secondo comma, Cost.

La stessa giurisprudenza di legittimità sarebbe poi costante nel ritenere che le disposizioni concernenti l’esecuzione delle pene detentive e le misure alternative alla detenzione, non riguardando l’accertamento del reato e l’irrogazione della pena, ma soltanto le modalità esecutive della stessa, sono soggette al principio tempus regit actum (richiamate Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza n. 24561 del 2006, nonché sezione prima penale, sentenze n. 46649 del 2009 e n. 11580 del 2013, e sezione sesta penale, sentenza n. 535 [recte: n. 12541] del 2019).

La Corte costituzionale avrebbe inoltre già escluso, con l’ordinanza n. 108 del 2004, la lesione dell’art. 3 Cost., in relazione ad altra modifica normativa dell’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975 (intervenuta ad opera dell’art. 4, comma 1, della legge 23 dicembre 2002, n. 279, recante «Modifica degli articoli 4-bis e 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di trattamento penitenziario») fermo restando che assumerebbe infine rilievo, nel caso di specie, la sentenza n. 188 del 2019 della Consulta.

Ciò posto, si costituiva in giudizio la parte istante insistendo per l’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di sorveglianza di Venezia in base alle stesse argomentazioni offerte dall’ordinanza di rimessione.

In prossimità dell’udienza pubblica, questa parte, inoltre, aveva depositato una memoria illustrativa insistendo sulla necessità di includere nella nozione di «materia penale», soggetta al divieto di retroattività di modifiche normative sfavorevoli, le «disposizioni processuali o esecutive che abbiano una incidenza afflittiva sul trattamento giuridico-penale del singolo» determinando un «mutamento qualitativo della sanzione concretamente inflitta, da “alternativa” a “detentiva”».

La parte privata denunciava poi come la disciplina censurata avesse determinato una lesione dell’affidamento del reo suscettibile di trasmodare in un vulnus al diritto di difesa – «declinato nel diritto di stabilire le scelte difensive secondo i punti di riferimento che l’ordinamento garantisce senza che il legislatore modifichi, “a sorpresa”, le “carte in tavola”» – all’equità del processo, di cui agli artt. 111 Cost. e 6 CEDU (disposizione, quest’ultima, già ritenuta applicabile all’esecuzione della pena nella sentenza n. 97 del 2015 della Corte costituzionale) e alla stessa certezza del diritto.

La parte privata sollecitava infine, in alternativa all’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale, l’adozione di una pronuncia interpretativa di rigetto che indirizzasse il diritto vivente nel senso della inapplicabilità, in specie, del principio tempus regit actum.

A proposito del procedimento pendente presso la Corte di Appello di Lecce, interveniva in giudizio sempre il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni sollevate fossero dichiarate inammissibili o infondate.

Le questioni sarebbero anzitutto inammissibili per erronea individuazione della norma censurata avendo il rimettente trascurato di investire dei propri dubbi di costituzionalità l’art. 656, comma 9, cod. proc. pen. che individua i casi nei quali non può farsi luogo alla sospensione dell’esecuzione della pena dato che l’art. 4-bis ordin. penit. verrebbe in considerazione solo indirettamente in quanto richiamato ai fini dell’individuazione dei reati per i quali è preclusa la sospensione dell’esecuzione.

Riprendendo le argomentazioni già svolte nell’atto di intervento nel giudizio iscritto al n. 114 del r.o. 2018, l’Avvocatura generale dello Stato eccepiva inoltre, specificamente, l’inammissibilità delle questioni sollevate in relazione all’art. 25, secondo comma, Cost. alla luce della giurisprudenza costituzionale e di quella di legittimità che avrebbero escluso l’incidenza del divieto di retroattività della legge penale sulla normativa penitenziaria.

Sarebbe stata altresì inammissibile la censura fondata sull’art. 3 Cost. in quanto, da un lato, la lamentata irragionevole disparità di trattamento tra persone che abbiano commesso il reato di peculato prima o dopo l’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019 sarebbe una mera conseguenza dell’inapplicabilità del principio di cui all’art. 25, secondo comma, Cost. alla materia penitenziaria; e, dall’altro lato, la Consulta avrebbe già respinto analoga doglianza con l’ordinanza n. 108 del 2004.

Da ultimo, con riferimento alla censura incentrata sulla violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 7 CEDU, l’Avvocatura generale dello Stato riproponeva integralmente le argomentazioni già svolte nell’atto di intervento relativo al giudizio iscritto al n. 114 del r.o. 2018.

Si è costituiva in giudizio pure il condannato insistendo per l’accoglimento delle questioni sollevate dal giudice rimettente.

Con memoria depositata in prossimità dell’udienza pubblica, il condannato contestava l’eccezione dell’Avvocatura generale dello Stato di inammissibilità delle questioni per omessa censura dell’art. 656, comma 9, cod. proc. pen.; in particolare, richiamandosi l’ordinanza della Corte di cassazione, sezione prima penale, 18 luglio 2019, n. 31853, la parte sottolineava il carattere meramente «servente», rispetto all’art. 4-bis ordin. penit., dell’art. 656, comma 9, cod. proc. pen. che si sarebbe limitato a recepire automaticamente le variazioni del catalogo dei delitti elencati nella prima disposizione e, quindi, la non necessità di censurare la seconda disposizione.

In riferimento al procedimento pendente presso il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Cagliari, interveniva in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, instistendo per la declaratoria di inammissibilità o infondatezza delle questioni, sulla base delle medesime argomentazioni esposte nell’atto di intervento depositato nel giudizio iscritto al n. 115 del r.o. 2018.

In relazione al procedimento pendente presso il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Napoli, interveniva in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni fossero dichiarate inammissibili o infondate sulla base delle medesime argomentazioni svolte nell’atto di intervento depositato nel giudizio iscritto al n. 115 del r.o. 2019.

A proposito del procedimento incardinato presso il Tribunale di sorveglianza di Taranto, interveniva in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, eccependo l’inammissibilità della questione sollevata per non avere il giudice rimettente tentato un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma censurata, tale da escluderne l’applicabilità ai fatti commessi prima della sua entrata in vigore posto che una simile interpretazione sarebbe stata «in linea con l’esigenza di garantire al cittadino libere e consapevoli scelte di condotta che costituisce una pietra angolare del modello di sistema penale disegnato dai principi costituzionali (Corte costituzionale, sentenza n. 364/1988)».

Si era costituita in giudizio pure la parte chiedendo alla Consulta di dichiarare costituzionalmente illegittimo l’art. 6, comma 1 [recte: art. 1, comma 6], lettera b), della legge n. 3 del 2019, per contrasto con gli artt. 3, 25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7 CEDU fermo restando che, con memoria depositata in prossimità dell’udienza pubblica, costei aveva evidenziato l’impossibilità di adottare un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata alla luce del diritto vivente che attribuisce natura processuale alle norme dell’ordinamento penitenziario.

In relazione al procedimento pendente presso il Tribunale ordinario di Brindisi, interveniva in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, insistendo per la declaratoria di inammissibilità delle questioni sollevate in base alle medesime argomentazioni spese nel giudizio iscritto al n. 157 del r.o. 2019 e incentrate sul mancato esperimento, da parte del rimettente, di un’interpretazione costituzionalmente orientata della disciplina censurata.

Si era altresì costituita in giudizio la parte privata insistendo per la declaratoria di illegittimità costituzionale del censurato art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019.

Ripercorrendo adesivamente le motivazioni dell’ordinanza di rimessione, la parte privata aggiungeva che le misure alternative alla detenzione, stante la «fisiologica funzionalizzazione a garantire la diversificazione tipologica del trattamento sanzionatorio, corollario del principio rieducativo di cui all’art. 27, co. 3, Cost.», non avrebbero potuto essere considerate delle mere modalità di esecuzione della pena essendo invece istituti che «incidono sulla qualità essenziale della pena stessa» sicché qualsiasi mutamento delle condizioni di accesso a dette misure soggiacerebbe alle garanzie di irretroattività di cui agli artt. 25, secondo comma, Cost. e 7 CEDU ossia una disposizione, quest’ultima, che la Corte EDU avrebbe ritenuto applicabile sia a revirements giurisprudenziali relativi al regime applicativo di misure assimilabili alla liberazione anticipata (è citata la sentenza Del Rio Prada), sia a modifiche della normativa processuale suscettibili di spiegare diretta incidenza sulla determinazione della pena inflitta (è citata la sentenza, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia).

In prossimità dell’udienza pubblica, la parte privata aveva depositato una memoria illustrativa insistendo sulla necessità di applicare alle misure alternative alla detenzione il divieto di retroattività della legge penale sfavorevole sulla scorta della giurisprudenza della Corte EDU e di recenti pronunce della giurisprudenza di merito, avallate dalla sentenza n. 12541 del 2019 della Corte di cassazione.

La parte evidenziava altresì come la mancata previsione, ad opera del censurato art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, di una disciplina transitoria, avesse determinato una lesione dell’affidamento dell’imputato in riferimento, sia al trattamento sanzionatorio applicabile (che da extramurario diverrebbe necessariamente carcerario), sia alle strategie perseguibili in giudizio atteso che l’interessato – giudicato anteriormente all’entrata in vigore della novella – non avrebbe potuto prospettarsi la necessità di collaborare con la giustizia, ai sensi dell’art. 58-ter ordin. penit., nel corso delle indagini o del processo, al fine di fruire della possibilità di accesso a misure alternative alla detenzione, secondo il restrittivo regime delineato dall’art. 4-bis ordin. penit..

Richiamando la sentenza n. 253 del 2019 della Consulta, la parte privata lamentava infine l’irragionevolezza dell’inclusione dei reati contro la pubblica amministrazione nell’ambito applicativo dell’art. 4-bis ord. penit. sul rilievo che la conseguente necessità di collaborazione con la giustizia, al fine della concessione di misure alternative alla detenzione, si sarebbe tradotta in una violazione del diritto al silenzio e in un aggravamento del trattamento sanzionatorio.

Sempre a proposito del Tribunale di Brindisi, ma per altro procedimento, interveniva in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni fossero dichiarate inammissibili per le medesime ragioni esposte nell’atto di intervento relativo al giudizio iscritto al n. 160 del r.o. 2019.

In ordine al procedimento pendente presso il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Caltanissetta, interveniva in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni sollevate siano dichiarate inammissibili o infondate.

L’inammissibilità sarebbe discesa, sia al mancato tentativo di un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma censurata, volta ad attribuirle valenza sostanziale e non processuale, sia al carattere manipolativo della pronuncia richiesta alla Corte atteso il carattere non costituzionalmente necessario della disciplina transitoria auspicata dal rimettente, sia, ancora, alla mancata individuazione di una norma di sospetta illegittimità costituzionale lamentando il rimettente un mancato intervento del legislatore.

Ulteriori ragioni di inammissibilità e infondatezza delle questioni sollevate venivano argomentate attraverso l’integrale richiamo all’atto di intervento depositato dalla stessa Avvocatura generale dello Stato nel giudizio iscritto al n. 114 del r.o. 2019.

In riferimento al procedimento pendente presso il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Caltanissetta, interveniva in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con atto di intervento avente tenore identico a quello depositato nel giudizio iscritto al n. 193 del r.o. 2019.

Per quanto attiene il procedimento pendente presso il Tribunale di sorveglianza di Salerno, interveniva anche in questo giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni sollevate fossero dichiarate inammissibili o infondate per le medesime ragioni esposte negli atti di intervento depositati nei giudizi iscritti ai numeri 114 e 193 del r.o. 2019.

All’udienza dell’11 febbraio 2020, sempre il rappresentante dell’Avvocatura generale dello Stato, a parziale modifica delle conclusioni già rassegnate negli atti di intervento, aveva invitato la Corte costituzionale ad adottare una pronuncia interpretativa di rigetto delle questioni sollevate sulla base di una lettura della disposizione censurata secondo la quale le modifiche da essa apportate avrebbero dovuto essere applicate soltanto ai fatti commessi successivamente all’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019 e ciò in quanto tutte le norme ivi previste «che peggiorano la condizione dei detenuti in termini di status libertatis» dovrebbero essere «lette necessariamente come norme di carattere sostanziale e quindi non retroattive, non solo alla luce dell’art. 25 della Costituzione, ma anche alla luce dell’art. 2 del codice penale».

 

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Corte costituzionale

 

Prima di entrare nel merito delle questioni proposte, il giudice delle leggi riteneva opportuno in via preliminare ricapitolare il contesto normativo nel quale si inseriscono le censure dei rimettenti nei seguenti termini: “l’art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, in questa sede censurato, inserisce nell’elenco dei delitti previsti dall’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. i delitti contro la pubblica amministrazione di cui agli artt. 314, primo comma, 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, primo comma, 320, 321, 322 e 322-bis del codice penale. (…) Per effetto di detto inserimento, tali delitti sono oggi soggetti, anzitutto, al medesimo regime “ostativo” rispetto alla concessione dei permessi premio, del lavoro all’esterno e delle misure alternative alla detenzione, esclusa la liberazione anticipata, che vige per i delitti cosiddetti “di prima fascia” elencati nell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. Ciò significa che i benefici e le misure alternative in questione possono ora essere concessi ai condannati per la maggior parte dei delitti contro la pubblica amministrazione, di regola, soltanto nel caso in cui essi collaborino con la giustizia. Tale collaborazione potrà avvenire, alternativamente, ai sensi dell’art. 58-ter ordin. penit., ovvero – in forza di un’ulteriore modifica del testo dell’art. 4-bis ordin. penit., operata dall’art. 1, comma 6, lettera a), della legge n. 3 del 2019 – ai sensi dell’art. 323-bis, secondo comma, cod. pen. L’art. 58-ter ordin. penit., a sua volta, descrive la condotta di collaborazione con la giustizia come quella di «coloro che, anche dopo la condanna, si sono adoperati per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero hanno aiutato concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati». L’art. 323-bis, secondo comma, cod. pen. prevede invece una circostanza attenuante, applicabile a vari delitti contro la pubblica amministrazione, in favore di «chi si sia efficacemente adoperato per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, per assicurare le prove dei reati e per l’individuazione degli altri responsabili ovvero per il sequestro delle somme o altre utilità trasferite». Se il riconoscimento della circostanza attenuante è evidentemente circoscritto alle condotte collaborative poste in essere dall’imputato prima della sentenza irrevocabile di condanna, il richiamo a tale disposizione da parte dell’art. 4¬-bis, comma 1, ordin. penit., nel testo modificato dalla legge n. 3 del 2019, sta probabilmente a significare che la collaborazione richiesta al condannato per i reati contro la pubblica amministrazione può in concreto esplicarsi – anche dopo la condanna – nelle forme indicate dallo stesso art. 323-bis, secondo comma, cod. pen., ove – a differenza di quanto accade nell’art. 58-ter ordin. penit. – è fatta esplicita menzione dell’attività rivolta ad assicurare il «sequestro delle somme o altre utilità trasferite». In difetto di collaborazione, il condannato per i delitti contro la pubblica amministrazione menzionati dalla disposizione censurata – così come qualsiasi altro condannato per i delitti contemplati dall’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. – potrà accedere ai benefici e alle misure alternative alla detenzione diverse dalla liberazione anticipata soltanto: – allorché ricorrano le condizioni di cui all’art. 4-bis, comma 1-bis, ordin. penit., e cioè «purché siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, altresì nei casi in cui la limitata partecipazione al fatto criminoso, accertata nella sentenza di condanna, ovvero l’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità, operato con sentenza irrevocabile, rendono comunque impossibile un’utile collaborazione con la giustizia, nonché nei casi in cui, anche se la collaborazione che viene offerta risulti oggettivamente irrilevante, nei confronti dei medesimi detenuti o internati sia stata applicata una delle circostanze attenuanti previste dall’articolo 62, numero 6), anche qualora il risarcimento del danno sia avvenuto dopo la sentenza di condanna, dall’ articolo 114 ovvero dall’articolo 116, secondo comma, del codice penale»; ovvero – limitatamente alla concessione dei permessi premio, allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti, secondo quanto stabilito dalla sentenza n. 253 del 2019 di questa Corte. (…) La sottoposizione dei condannati per delitti contro la pubblica amministrazione al regime dell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. comporta poi una serie di effetti stabiliti da altre norme dell’ordinamento penitenziario che rinviano allo stesso art. 4-bis, e in particolare: – una preclusione assoluta – non superabile neppure in presenza di collaborazione o di condizioni equiparate – rispetto alla concessione delle misure alternative della detenzione domiciliare “ordinaria” per ultrasettantenni (art. 47-ter, comma 01, ordin. penit.) e della detenzione domiciliare cosiddetta “generica” (art. 47-ter, comma 1-bis, ordin. penit.); – l’allungamento dei tempi di espiazione di pena necessari per l’accesso al lavoro all’esterno (art. 21, comma 1, ordin. penit.), ai permessi premio (art. 30-ter ordin. penit.) e alla semilibertà (art. 50, comma 2, ordin. penit.); – un regime più rigoroso relativo alla revoca dei benefici penitenziari già concessi, ai sensi dell’art. 58-quater, comma 5, ordin. penit. (…) L’inserimento dei delitti contro la pubblica amministrazione indicati dalla disposizione censurata nell’elenco di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. comporta un identico regime preclusivo rispetto alla liberazione condizionale, la quale – in forza dell’art. 2 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa), convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203 – può essere concessa ai condannati per i delitti di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. alla condizione che ricorrano i presupposti ivi indicati. (…) Infine, le ordinanze di rimessione sollevate dai giudici dell’esecuzione concernono l’ulteriore effetto riflesso dell’inserimento dei delitti contro la pubblica amministrazione nell’elenco dell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., stabilito dall’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen. e consistente nel divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione della pena. Se infatti, in linea generale, in caso di condanna a pena detentiva non superiore a quattro anni, anche se costituente residuo di maggior pena, il pubblico ministero è tenuto a sospendere l’ordine di esecuzione contestualmente emesso nei confronti del condannato che si trovi in stato di libertà o agli arresti domiciliari, sì da consentirgli di presentare istanza al tribunale di sorveglianza competente – nei trenta giorni successivi – per la concessione di una misura alternativa alla detenzione (art. 656, commi 5 – come modificato dalla sentenza n. 41 del 2018 di questa Corte – e 10, cod. proc. pen.), il comma 9, lettera a), del medesimo art. 656 cod. proc. pen. preclude invece al pubblico ministero di sospendere l’ordine di esecuzione relativo alle condanne per una serie di delitti, tra i cui quelli di cui all’art. 4-bis ordin. penit. Ne consegue il necessario ingresso in carcere, nelle more del procedimento di sorveglianza, di chi sia condannato a pena detentiva non sospesa per la maggior parte dei delitti contro la pubblica amministrazione, nonostante l’entità della pena da scontare possa consentire al condannato di essere ammesso a una misura alternativa alla detenzione sin dall’inizio dell’esecuzione. (…) – La disposizione censurata nulla prevede in merito alla sua efficacia nel tempo. In forza delle indicazioni provenienti dal diritto vivente, di cui meglio si dirà più innanzi (…), tutte le ordinanze di rimessione assumono tuttavia che – nel silenzio del legislatore – tali modifiche siano immediatamente applicabili anche a coloro che sono stati condannati per fatti commessi anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019: ciò che costituisce, per l’appunto, l’oggetto essenziale delle censure che questa Corte è chiamata ora a decidere”.

Ciò posto, una volta terminato questo excursus normativo, i giudici di legittimità costituzionale ritenevano necessario esaminare le questioni preliminari sollevate dalle parti.

In particolare, per quanto attiene l’Avvocatura generale, in merito all’eccezione per difetto di rilevanza delle questioni sollevate poiché, anche facendo applicazione del principio tempus regit actum, il Tribunale di sorveglianza avrebbe ben potuto esaminare l’istanza del condannato di affidamento in prova al servizio sociale in base alla disciplina previgente, veniva rilevato come, nei procedimenti a quibus, l’ordine di esecuzione della pena fosse stato emesso – e contestualmente sospeso, ai sensi rispettivamente dei commi 5 e 10 dell’art. 656 cod. proc. pen. – anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019 così come prima della vigenza di quest’ultima sono state proposte da ciascun condannato le istanze di concessione di misure alternative alla detenzione fermo restando che, in entrambi i giudizi a quibus, però, l’udienza per la decisione sull’istanza del condannato si è svolta successivamente all’entrata in vigore della predetta legge.

In proposito, ad avviso del giudice delle leggi, occorreva osservare come il più recente orientamento della giurisprudenza di legittimità, formatosi proprio sulla base delle questioni di diritto intertemporale suscitate dalla legge n. 3 del 2019, fosse effettivamente nel senso dell’applicabilità della disciplina previgente ogniqualvolta l’istanza di concessione di misure alternative alla detenzione sia stata presentata anteriormente alla data di entrata in vigore della legge medesima (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 6 giugno 2019, n. 25212; sentenza 28 novembre 2019, n. 48499; sentenza 17 gennaio 2020, n. 1799) fermo restando che, tuttavia, tenendo conto anche della circostanza che la giurisprudenza appena citata era in gran parte successiva alle ordinanze di rimessione, si stimava non implausibile la motivazione dei rimettenti circa la rilevanza delle questioni, che muoveva dal diverso presupposto interpretativo che il discrimen temporale per l’applicazione della disciplina sopravvenuta fosse rappresentato dalla data di delibazione dell’istanza da parte del tribunale di sorveglianza e ciò per la Corte tanto bastava per disattendere l’eccezione sollevata dall’Avvocatura generale dello Stato «non potendosi procedere, in questa sede, ad un sindacato (diverso dal controllo esterno) sul giudizio di rilevanza, espresso dall’ordinanza di rimessione in modo non implausibile (v. per tutte, sentenza n. 286 del 1997) e con motivazione tutt’altro che carente (v. ordinanza n. 62 del 1997)» (sentenza n. 179 del 1999; nello stesso senso, ordinanze n. 104 del 2019 e n. 47 del 2016).

L’eccezione non veniva considerata dunque fondata per l’assorbente ragione che i rimettenti sollecitano un intervento additivo della Corte, volto a ricondurre le modificazioni recate all’art. 4-bis ordin. penit. dalla disposizione censurata nell’alveo della garanzia di irretroattività di cui, in particolare, all’art. 25, secondo comma, Cost.; soluzione alla quale sarebbe conseguita – univocamente, dato il tenore letterale del precetto costituzionale – l’inapplicabilità di tali modificazioni ai condannati per fatti commessi prima dell’entrata in vigore della legge che le ha introdotte.

Ciò posto, per quanto attiene l’eccezione, sempre sollevata dall’Avvocatura generale, circa l’inammissibilità delle questioni per erronea individuazione della norma censurata, la Consulta osservava come, dal tenore complessivo delle ordinanze di rimessione, risultasse essere evidente che l’intenzione dei giudici dell’esecuzione rimettenti fosse stata quella di censurare, per l’appunto, l’effetto prodottosi sul meccanismo preclusivo di cui all’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen. in conseguenza dall’ampliamento del catalogo di cui all’art. 4-bis ordin. penit. tenuto conto altresì del fatto che la medesima Corte costituzionale aveva già avuto modo di osservare che «il comma 9 [dell’art. 656 cod. proc. pen], alla lettera a), prevede che la sospensione dell’esecuzione non possa essere disposta “nei confronti dei condannati per i delitti di cui all’art. 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni”, sicché, per effetto del rinvio in essa contenuto, la norma processuale recepisce automaticamente le variazioni del catalogo dei delitti indicati nello stesso art. 4-bis (Corte di cassazione, Sezioni unite penali, sentenza n. 24561 del 2006)», e che «l’art. 656, comma 9, cod. proc. pen. disciplina unicamente l’attività del pubblico ministero, vincolandone il contenuto in funzione della presunzione di pericolosità che concerne i condannati per i delitti compresi nel catalogo appena citato» (ordinanza n. 166 del 2010).

Da ciò se ne faceva conseguire che, così come la sospensione dell’ordine di esecuzione, di cui all’art. 656, comma 5, cod. proc. pen., è istituto di natura «servente» rispetto alla richiesta di misure alternative alla detenzione (sentenza n. 41 del 2018), allo stesso modo il divieto di sospensione, di cui al comma 9, lettera a), della medesima disposizione è condizionato dalla presunzione di pericolosità correlata all’inserimento di un determinato reato nel catalogo di cui all’art. 4-bis ordin. penit. e, pertanto, i giudici rimettenti erano chiamati a fare direttamente applicazione anche di quest’ultima disposizione, così come integrata dall’art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, contro cui correttamente essi rivolgono le proprie censure.

Veniva altresì disattesa l’eccezione circa l’inammissibilità delle questioni per mancato esperimento di un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata poiché alla luce dunque del diritto vivente, la possibilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata, che attragga nell’alveo dell’art. 25, secondo comma, Cost. le modificazioni all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., introdotte dalla disposizione censurata, è stata esplorata e consapevolmente scartata dai rimettenti: il che basta ai fini dell’ammissibilità della questione (sentenza n. 189 del 2019).

In riferimento all’eccezione avente ad oggetto la mancata individuazione di una norma oggetto della questione di legittimità costituzionale asserendo che i rimettenti avrebbero censurato «un mancato intervento del legislatore», anch’essa non veniva accolta stante il fatto che, ad avviso della Consulta, i giudici a quibus avevano individuato puntualmente la disposizione censurata che aveva inserito i reati contro la pubblica amministrazione nel catalogo di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. invocando su di essa un intervento additivo della Consulta mirante a delimitarne l’ambito temporale di applicazione ai fatti di reato successivi alla sua entrata in vigore.

A proposito dell’eccezione inerente l’inammissibilità delle questioni relative alla dedotta lesione del divieto di retroattività della legge penale sfavorevole (art. 25, secondo comma, Cost.) e del principio di eguaglianza (art. 3 Cost.) sul rilievo che analoghe censure sarebbero già state respinte da questa Corte nella sentenza 273 del 2001 e nelle ordinanze n. 108 del 2004 e n. 280 del 2001, essa non veniva accolta atteso che, per la Corte, anche ad ammettere che vi sia una perfetta coincidenza tra le questioni ora sollevate e altre già decise in passato, nulla vieta alla Corte costituzionale di riconsiderare i propri stessi orientamenti interpretativi.

Infine, sia pure in assenza di alcuna specifica eccezione da parte dell’Avvocatura generale dello Stato, con riferimento al giudizio iscritto al n. 210 del r.o. 2019 – ove il rimettente denunciava l’illegittimità costituzionale dell’immediata applicazione delle modificazioni recate all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. dalla disposizione censurata, sotto il profilo della sopravvenuta impossibilità di concedere il beneficio del permesso premio agli autori dei delitti di cui agli artt. 317 e 319 cod. pen. che non collaborino la giustizia – veniva osservato che non elide la rilevanza delle questioni ivi prospettate l’intervenuta declaratoria di illegittimità costituzionale, operata dalla citata sentenza n. 253 del 2019, dell’art. 4-bis, comma 1, nella parte in cui non prevede che ai detenuti per i delitti ivi contemplati possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter ordin. penit. allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti.

Nel caso di specie, il rimettente rappresentava infatti di dover fare applicazione dell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. in conseguenza dell’inclusione, con effetto immediato, dei reati ascritti al condannato nel catalogo contemplato da detta disposizione laddove, a fronte dell’eventuale accoglimento delle questioni sollevate, egli avrebbe dovuto valutare la concessione del permesso premio sulla base dei soli requisiti previsti dall’art. 30-ter ordin. penit.

Tal che se ne faceva conseguire come fosse pertanto evidente che sarebbe stato radicalmente diverso il percorso argomentativo che il giudice a quo avrebbe dovuto seguire nel vagliare l’istanza del condannato in caso di applicazione della disciplina risultante dal censurato art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, o, viceversa, di quella previgente e di qui la persistente rilevanza delle questioni prospettate.

Terminate di esaminare tali eccezioni di ordine preliminare, i giudici di legittimità costituzionale ritenevano come le questioni prospettate dalle ordinanze di rimessione iscritte ai numeri 114, 115, 118, 119, 160, 161, 193, 194 e 220 del r.o. 2019 fossero fondate con riferimento alla dedotta violazione dell’art. 25, secondo comma, Cost. dato che se è vero che il diritto vivente ritiene che le norme disciplinanti l’esecuzione della pena siano in radice sottratte al divieto di applicazione retroattiva che discende dal principio di legalità della pena di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., è altrettanto vero, ad avviso della Consulta, che plurime e convergenti ragioni inducono, tuttavia, a dubitare della persistente compatibilità di tale diritto vivente con i principi costituzionali.

Si evidenziava a tal proposito come, all’esito a una complessiva rimeditazione della tematica, occorresse in effetti concludere nel senso che, di regola, le pene detentive devono essere eseguite in base alla legge in vigore al momento della loro esecuzione salvo però che tale legge comporti, rispetto al quadro normativo vigente al momento del fatto, una trasformazione della natura della pena e della sua incidenza sulla libertà personale atteso che, in questa ipotesi, l’applicazione retroattiva di una tale legge è incompatibile con l’art. 25, secondo comma, Cost..

La disposizione in questa sede censurata comporta, per una serie di reati contro la pubblica amministrazione, una trasformazione della natura delle pene previste al momento del reato e della loro incidenza sulla libertà personale del condannato, quanto agli effetti spiegati dalla stessa disposizione in relazione alle misure alternative alla detenzione, alla liberazione condizionale e al divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione della pena e, conseguentemente, l’applicazione della disposizione censurata ai condannati per fatti commessi anteriormente alla sua entrata in vigore, quanto agli effetti appena menzionati, viola il divieto di cui all’art. 25, secondo comma, Cost..

Orbene, stante il silenzio del legislatore sul regime intertemporale delle modifiche in esame, il rimedio appropriato, in risposta alle questioni sollevate dai rimettenti, è la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma censurata così come risultante dal diritto vivente.

Ciò posto, si faceva prima di tutto presente come tutte le ordinanze di rimessione muovessero dal comune presupposto che, se, secondo il diritto vivente, le modifiche in peius della disciplina dell’esecuzione della pena in radice non sarebbero state soggette al principio di irretroattività della legge penale, di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., un attento esame della giurisprudenza costituzionale in materia – peraltro tutta piuttosto risalente – restituisce, in verità, un quadro ricco di sfumature.

Si notava a tal riguardo come la Consulta fosse stata chiamata quasi trent’anni or sono a misurarsi con la legittimità costituzionale della retroattività di simili modifiche in peius in relazione agli effetti retroattivi prodotti, all’indomani della strage di Capaci, dall’art. 15 del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 1992, n. 356. Tale decreto-legge aveva, con riferimento ai condannati per delitti di criminalità organizzata e terrorismo, per la prima volta subordinato la concessione dei benefici penitenziari e della generalità delle misure alternative alla detenzione al presupposto della collaborazione con la giustizia, contestualmente prevedendo la revoca di tali benefici e misure, pur già concessi, nei confronti dei condannati che non avessero collaborato ai sensi dell’art. 58-ter ordin. penit.

Per tutti gli anni Novanta, la Corte costituzionale non aveva risolto il quesito ora all’esame giungendo comunque a dichiarazioni di parziale illegittimità costituzionale delle disposizioni di volta in volta censurate sulla base di parametri diversi dall’art. 25, secondo comma, Cost..

Nell’antesignana sentenza n. 306 del 1993, il giudice delle leggi – investita di plurime questioni aventi a oggetto la legittimità costituzionale della revoca di misure alternative già concesse – ritenne non sufficientemente motivata la rilevanza delle questioni relative alla compatibilità dell’effetto retroattivo previsto dall’art. 15, comma 2, del d.l. n. 306 del 1992 con il principio di legalità della pena di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., pur riconoscendo che tale profilo avrebbe potuto «meritare una seria riflessione» mentre sempre questa Corte giudicò invece incompatibile con l’art. 27, primo e terzo comma, Cost. la previsione della revoca delle misure già concesse anche quando non fosse stata accertata la sussistenza di collegamenti attuali del condannato con la criminalità organizzata; e ciò in ragione dell’aspettativa, legittimamente nutrita dai condannati che avevano già ottenuto la semilibertà, a «veder riconosciuto l’esito positivo del percorso di risocializzazione già compiuto», aspettativa ormai trasformatasi «nel diritto ad espiare la pena con modalità idonee a favorire il completamento di tale processo».

Nella successiva sentenza n. 504 del 1995, la Corte costituzionale dichiarò illegittimo l’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., nel testo risultante dalle modifiche introdotte dal citato art. 15 del d.l. n. 306 del 1992, nella parte in cui precludeva la concessione di ulteriori permessi premio ai condannati per delitti “ostativi” che non avessero collaborato con la giustizia, anche quando essi ne avessero già fruito in precedenza e non fosse stata accertata la sussistenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata e la ragione dell’illegittimità fu, anche in questa occasione, ravvisata nel contrasto della disciplina censurata con gli artt. 3 e 27 Cost., in considerazione dell’irragionevolezza e incompatibilità con la funzione rieducativa della pena di una disciplina che comportava una sorta di “regressione incolpevole del trattamento” connesso al beneficio penitenziario in questione.

Analoga ratio era stata posta a fondamento delle sentenze n. 445 del 1997 e n. 137 del 1999 con le quali l’art. 4-bis ordin. penit. fu dichiarato illegittimo nella parte in cui non prevedeva che – rispettivamente – la semilibertà e i permessi premio potessero essere concessi nei confronti dei condannati che, prima della data di entrata in vigore dell’art. 15, comma 1, del d.l. n. 306 del 1992, avessero raggiunto un grado di rieducazione adeguato al beneficio richiesto, e per i quali non fosse stata accertata la sussistenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata; Principio, quest’ultimo, che sarà in seguito applicato dalla Consulta anche con riferimento alle modifiche in peius introdotte, per i condannati recidivi reiterati, dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione) (sentenze n. 79 del 2007 e n. 257 del 2006).

In altre occasioni, la Corte costituzionale era pervenuta invece a dichiarazioni di non fondatezza delle questioni poste dall’entrata in vigore del medesimo art. 15 del d.l. n. 306 del 1992, prospettate sotto lo specifico profilo dell’art. 25, secondo comma, Cost. senza affermare, in maniera generale, l’estraneità di tutte le modifiche in peius della disciplina in materia di esecuzione della pena al raggio di garanzia offerto dal principio di legalità della pena.

Nel caso deciso con la sentenza n. 273 del 2001, in particolare, la Consulta era stata nuovamente sollecitata a chiarire se «il principio di irretroattività della legge penale sia circoscritto alle norme che creano nuovi reati, o modificano in peius gli elementi costitutivi di una fattispecie incriminatrice, nonché la specie e la durata delle sanzioni edittali, ovvero vada riferito – come rit[eneva] il giudice a quo – anche alle norme che disciplinano le modalità di espiazione della pena detentiva».

Se il giudice rimettente aveva sollevato questione di legittimità costituzionale relativa alla disciplina che precludeva l’accesso alla liberazione condizionale ai condannati per i delitti di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., commessi prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 306 del 1992, i quali non avessero collaborato con la giustizia, in questa occasione non venne data una risposta generale al quesito osservandosi che le disposizioni censurate, nell’esigere la collaborazione con la giustizia quale condizione di accesso alla liberazione condizionale non avevano modificato gli elementi costitutivi di tale istituto e segnatamente il requisito dell’avere tenuto il condannato un comportamento tale da farne ritenere sicuro il ravvedimento dato che la disciplina censurata si sarebbe piuttosto limitata a introdurre un criterio legale di valutazione del requisito, rappresentato appunto dalla collaborazione processuale senza, dunque, modificare in senso deteriore per il condannato la disciplina sostanziale della liberazione condizionale.

La medesima argomentazione compariva poi nelle due ordinanze n. 108 del 2004 e n. 280 del 2001 con le quali erano state parimenti rigettate due questioni relative agli effetti intertemporali di modifiche apportate all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit..

Il quadro della giurisprudenza della Corte di cassazione era invece assai netto nel senso della non riconducibilità all’alveo dell’art. 25, secondo comma, Cost. delle norme sull’esecuzione della pena e conseguentemente nel senso della pacifica applicabilità di modifiche normative di segno peggiorativo anche ai condannati che abbiano commesso il reato prima dell’entrata in vigore delle modifiche stesse.

Il tradizionale principio secondo cui le disposizioni in parola non avevano carattere di norme sostanziali e soggiaccievano pertanto, in assenza di specifica disciplina transitoria, al principio tempus regit actum è stato affermato, in particolare, nel 2006 (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 17 luglio 2006, n. 24561), ed era poi stato sempre confermato dalla giurisprudenza successiva (ex multis, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 18 settembre 2006, n. 30792; sezione prima penale, sentenza 15 luglio 2008, n. 29155; sezione prima penale, sentenza 9 dicembre 2009, n. 46924; sezione seconda penale, sentenza 22 febbraio 2012, n. 6910; sezione prima penale, sentenza 12 marzo 2013, n. 11580; sezione prima penale, sentenza 18 dicembre 2014, n. 52578; sezione prima penale, sentenza 9 settembre 2016, n. 37578).

Ciò posto, all’indomani dell’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019, il diritto vivente era stato invero rimesso in discussione da alcune pronunce di merito che avevano ritenuto inapplicabile la disposizione censurata ai fatti di reato pregressi dal momento che ad essa si sarebbe dovuta riconoscere natura “sostanzialmente penale” secondo i noti criteri Engel elaborati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo con conseguente sua soggezione al divieto di retroattività sfavorevole di cui agli artt. 25, secondo comma, Cost. e 7 CEDU (Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Como, ordinanza 8 marzo 2019; Corte di appello di Reggio Calabria, sezione seconda penale, ordinanza 2 aprile 2019; Corte di appello di Napoli, sezione seconda penale, ordinanza 2 aprile 2019).

La Corte di cassazione aveva, tuttavia, sinora unanimemente ribadito – salvo che in un solo caso di cui si dirà tra breve– il precedente orientamento espresso dalle Sezioni unite concludendo nel senso che le modificazioni apportate all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. sono applicabili anche ai fatti di reato pregressi in virtù del principio tempus regit actum (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenze 6 giugno 2019, n. 25212; 26 settembre 2019, n. 39609; 28 novembre 2019, n. 48499; 17 gennaio 2020, n. 1799; nonché ordinanza 18 luglio 2019, n. 31853).

Orbene, come anticipato in precedenza, plurime e convergenti erano per la Corte le ragioni atte a dubitare della persistente compatibilità di tale diritto vivente con i principi costituzionali.

In primo luogo, non è senza significato che, in alcune occasioni almeno, lo stesso legislatore abbia ritenuto di limitare espressamente l’applicabilità di norme incidenti sul regime di esecuzione della pena soltanto alle condanne pronunciate per fatti posteriori all’entrata in vigore delle norme medesime.

Ciò è avvenuto, anzitutto, proprio con il d.l. n. 152 del 1991, cui si deve l’introduzione dell’art. 4-bis ordin. penit. nella sua originaria versione.

L’art. 4, comma 1, di tale decreto-legge prevedeva, infatti, che le disposizioni che innalzavano, per i condannati per i reati di cui alla nuova disposizione, i periodi minimi di espiazione di pena per l’accesso ai benefici penitenziari fossero applicabili solo in relazione ai fatti commessi dopo l’entrata in vigore del decreto-legge stesso.

Analogo accorgimento non fu poi adottato con il d.l. n. 306 del 1992, al quale si deve l’introduzione nell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. del meccanismo preclusivo imperniato sulla mancanza di collaborazione: meccanismo la cui immediata operatività anche rispetto ai condannati per fatti pregressi fu, in effetti, all’origine delle varie questioni di legittimità costituzionale poc’anzi ricordate, decise dalla Corte costituzionale sulla base del principio di non regressione incolpevole del trattamento penitenziario, dedotto in particolare dall’art. 27, terzo comma, Cost..

Ma, ancora nel 2002, il legislatore – nell’aggiungere all’elenco di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. i delitti posti in essere per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico, nonché i delitti di cui agli artt. 600, 601 e 602 cod. pen. – ebbe cura di escludere l’applicabilità della modifica normativa ai condannati per tali titoli delittuosi che avessero commesso il fatto anteriormente alla sua entrata in vigore (art. 4 della legge 23 dicembre 2002, n. 279, recante «Modifica degli articoli 4-bis e 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di trattamento penitenziario»).

Come è accaduto in talune più recenti occasioni, la legge n. 3 del 2019 non prevede invece alcuna disposizione transitoria che ne escluda l’applicabilità ai condannati per fatti pregressi; ebbene, proprio tale silenzio del legislatore del 2019 aveva provocato un diffuso disagio nella giurisprudenza di merito riguardo alla sostenibilità costituzionale e convenzionale della conclusione, imposta dal diritto vivente, nel senso della sua applicazione anche ai condannati per fatti pregressi e ciò, rilevava la Consulta, si era manifestato sia nelle pronunce di merito che hanno direttamente adottato una soluzione difforme, sia nel grande numero di ordinanze che hanno sollevato, nell’arco di un brevissimo lasso temporale, le questioni di legittimità costituzionale ora in discussione, con le quali si sollecitava in sostanza questa Corte a dichiarare costituzionalmente illegittimo quel diritto vivente.

Nella stessa giurisprudenza di legittimità non mancavano, d’altronde, segnali indicativi del medesimo disagio.

Una sentenza della sezione sesta penale della Corte di cassazione, in particolare, aveva prospettato dubbi di legittimità costituzionale della mancata previsione di una disciplina transitoria da parte della disposizione in questa sede censurata pur ritenendo di non poter sollevare la relativa questione per difetto di rilevanza nel caso di specie.

La Corte di cassazione aveva osservato, in proposito, che l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità circa il carattere processuale delle norme dell’ordinamento penitenziario avrebbe dovuto oggi essere rimeditato, anche alla luce delle indicazioni provenienti dalla giurisprudenza della Corte EDU, sì da garantire l’effettiva prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie: «l’avere il legislatore cambiato in itinere le “carte in tavola” senza prevedere alcuna norma transitoria» presenterebbe «tratti di dubbia conformità con l’art. 7 CEDU e, quindi, con l’art. 117 Cost., là dove si traduce […] nel passaggio – “a sorpresa” e dunque non prevedibile – da una sanzione patteggiata “senza assaggio di pena” ad una sanzione con necessaria incarcerazione» (Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 14 marzo 2019, n. 12541).

Tutte le ordinanze di rimessione, a loro volta, valorizzavano, in effetti, i recenti sviluppi della giurisprudenza della Corte EDU sull’estensione della garanzia dell’art. 7 CEDU con riferimento almeno a talune modifiche in peius del regime dell’esecuzione delle pene trattandosi quindi di recenti sviluppi che l’ordinamento italiano non può del resto ignorare.

Al riguardo, veniva premesso che, sino a poco più di un decennio fa, la Corte di Strasburgo aveva sostenuto una tesi sovrapponibile a quella della giurisprudenza italiana negando in particolare che le modifiche alla disciplina dell’esecuzione della pena chiamassero in causa la garanzia dell’art. 7 CEDU (Corte EDU, sentenza 29 novembre 2005, Uttley contro Regno Unito; nello stesso senso, Commissione dei diritti dell’uomo, decisione 3 marzo 1986, Hogben contro Regno Unito).

Una prima, significativa correzione di rotta risale al 2008, in relazione a un caso in cui il ricorrente aveva commesso il reato in un’epoca in cui la pena dell’ergastolo, in forza dell’allora vigente normativa penitenziaria nazionale, consentiva l’accesso del condannato alla liberazione condizionale, in caso di buona condotta, dopo vent’anni di detenzione.

In seguito alla modifica di tale normativa, la prospettiva di una liberazione condizionale era sostanzialmente venuta meno con conseguente trasformazione dell’ergastolo in una detenzione, effettivamente, a vita.

La Corte EDU, dal canto suo, aveva giudicato qui insussistente l’allegata violazione del divieto di retroattività delle pene, sottolineando che il novum normativo non aveva modificato la pena – l’ergastolo – inflitta sulla base della legge vigente al momento del fatto così come nondimeno aveva ritenuto violato l’art. 7 CEDU,censurando l’insufficiente chiarezza della legge penale al momento del fatto, e dunque l’imprevedibilità delle conseguenze sanzionatorie connesse alla violazione del precetto (Corte EDU, Grande Camera, sentenza 12 febbraio 2008, Kafkaris contro Cipro).

Ma la pronuncia più significativa della Corte EDU – invocata non a caso da tutte le ordinanze di rimessione – è, in questo contesto, ad avviso della Consulta la sentenza della Grande Camera Del Rio Prada contro Spagna, decisa nel 2013.

La Grande Camera – sia pure con riferimento a un caso non sovrapponibile a quelli dai quali le odierne questioni sono originate – aveva ribadito che, in linea di principio, le modifiche alle norme sull’esecuzione della pena non sono soggette al divieto di applicazione retroattiva di cui all’art. 7 CEDU eccezion fatta – però – per quelle che determinino una «ridefinizione o modificazione della portata applicativa della “pena” imposta dal giudice».

Altrimenti, aveva osservato la Corte EDU, gli Stati resterebbero liberi – ad esempio modificando la legge o reinterpretando i regolamenti esistenti – di adottare misure che retroattivamente ridefiniscano la portata della pena imposta, in senso sfavorevole per l’interessato.

Ove il divieto di retroattività non operasse in tali ipotesi – concludeva la Corte – l’art. 7 CEDU verrebbe privato di ogni effetto utile per i condannati, nei cui confronti la portata delle pene inflitte potrebbe essere liberamente inasprita successivamente alla commissione del fatto (Corte EDU, Grande Camera, sentenza 21 ottobre 2013, Del Rio Prada contro Spagna, paragrafo 89).

Le conclusioni cui è recentemente pervenuta la Corte EDU, dal canto loro, trovavano significative conferme nella giurisprudenza di altre corti e nella legislazione di altri Paesi.

Secondo la Corte Suprema degli Stati Uniti, il generale divieto di “ex post facto laws” sancito dalla Costituzione americana si applica anche alle modifiche delle norme in materia di esecuzione della pena che producano l’effetto pratico di prolungare la detenzione del condannato modificando il quantum della pena e operando così come una legge retroattiva sfavorevole, in quanto tale non applicabile al condannato (Weaver v. Graham, 450 U.S. 24, 33 (1981); Lynce v. Mathis, 519 U.S. 433 (1997).

Nel senso, peraltro, che la garanzia dell’irretroattività opera solo allorché il ricorrente sia in grado di dimostrare che la modifica legislativa sopravvenuta crei un “sufficiente rischio” di incrementare la durata della sua detenzione rispetto alla disciplina vigente al momento della commissione del fatto, California Department of Corrections v. Morales, 514 U.S. 499 (1995); Garner v. Jones, 529 U.S. 244 (2000)).

Principi analoghi erano stati riconosciuti nell’ordinamento francese, quanto meno a livello di legislazione ordinaria, dall’art. 112-2 del codice penale atteso che tale norma dispone in via generale l’immediata applicabilità, in vista della repressione anche dei reati commessi anteriormente alla loro entrata in vigore, delle leggi modificatrici del diritto processuale penale e della prescrizione del reato o della pena nonché delle leggi relative al «regime di esecuzione e dell’applicazione delle pene»: eccezion fatta però, in riferimento a queste ultime, per «quelle che abbiano l’effetto di rendere più severe le pene inflitte con la sentenza di condanna», le quali sono espressamente dichiarate «applicabili soltanto alle condanne pronunciate per fatti commessi posteriormente alla loro entrata in vigore».

Alcune ordinanze di rimessione (in particolare, quelle iscritte ai numeri 160 e 161 del r.o. 2019) e, soprattutto, le difese delle parti private, hanno infine posto l’accento – come già la citata sentenza della Corte di cassazione n. 12541 del 2019 – sugli effetti distorsivi prodotti sulle scelte difensive degli imputati dal mutamento nel corso delle indagini, e poi del processo, del quadro normativo sull’esecuzione della pena con il conseguente profilarsi, altresì, di possibili lesioni dell’art. 24 Cost..

Un tale rilievo è, in verità, ad avviso della Consulta, di intuitiva evidenza: l’imputato, ad esempio, può determinarsi a rinunciare al proprio “diritto di difendersi provando” e concordare invece con il pubblico ministero una pena contenuta entro una misura che lo candidi sin da subito a ottenere una misura alternativa alla detenzione, confidando comunque nella garanzia di non dover “passare per il carcere” grazie al meccanismo sospensivo di cui all’art. 656, comma 5, cod. proc. pen. ovvero decidere, all’opposto, di affrontare il dibattimento, confidando nella prospettiva che la pena che gli verrà inflitta, anche in caso di condanna, non comporterà verosimilmente il suo ingresso in carcere per effetto di una misura alternativa che egli abbia una ragionevole aspettativa di ottenere in base alla normativa in vigore al momento del fatto.

Una modifica in peius, con effetto retroattivo sui processi in corso, della normativa in materia penitenziaria, invece, per il giudice delle leggi, è suscettibile di frustrare le (legittime) aspettative poste a fondamento di tali scelte difensive esponendo l’imputato a conseguenze sanzionatorie affatto impreviste e imprevedibili al momento dell’esercizio di una scelta processual, i cui effetti sono però irrevocabili (per analoghi rilievi, si vedano anche la già citate sentenze della Corte Suprema degli Stati Uniti, Weaver v. Graham, 32, e Lynce v. Mathis, 44, nonché Corte Suprema del Canada, R. v. K.R.J., [2016] 1 SCR 906, 926, paragrafo 25, in un caso che concerneva l’applicazione retroattiva di misure interdittive aggiuntive alla pena detentiva a carico di chi fosse stato condannato per abusi sessuali).

Alla luce di tutte le considerazioni che precedono, la Corte costituzionale riteneva dunque necessario procedere a una complessiva rimeditazione della portata del divieto di retroattività sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost. in relazione alla disciplina dell’esecuzione della pena.

Come è noto, dall’art. 25, secondo comma, Cost. discende pacificamente tanto il divieto di applicazione retroattiva di una legge che incrimini un fatto in precedenza penalmente irrilevante quanto il divieto di applicare retroattivamente una legge che preveda una pena più severa per un fatto già in precedenza incriminato (da ultimo, sentenza n. 223 del 2018); divieto, quest’ultimo, che trova esplicita menzione nell’art. 7, paragrafo 1, secondo periodo, CEDU, nell’art. 15, paragrafo 1, secondo periodo, del Patto internazionale sui diritti civili e politici, nonché nell’art. 49, paragrafo 1, seconda proposizione, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE).

La ratio di tale divieto, ad avviso della Consulta, è almeno duplice: il divieto in parola mira a garantire al destinatario della norma una ragionevole prevedibilità delle conseguenze cui si esporrà trasgredendo il precetto penale e ciò sia per garantirgli – in linea generale – la «certezza di libere scelte d’azione» (sentenza n. 364 del 1988), sia per consentirgli poi – nell’ipotesi in cui sia instaurato un procedimento penale a suo carico – di compiere scelte difensive, con l’assistenza del proprio avvocato, sulla base di ragionevoli ipotesi circa i concreti scenari sanzionatori a cui potrebbe andare incontro in caso di condanna fermo restando che una seconda ratio, altrettanto cruciale, non può essere trascurata vale a dire che il divieto di applicazione retroattiva di pene non previste al momento del fatto, o anche solo più gravi di quelle allora previste, opera come uno dei limiti al legittimo esercizio del potere politico che stanno al cuore stesso del concetto di “stato di diritto” ossia un concetto, quest’ultimo, che evoca immediatamente la soggezione dello stesso potere a una “legge” pensata per regolare casi futuri e destinata a fornire a tutti un trasparente avvertimento sulle conseguenze che la sua trasgressione potrà comportare.

Ciò posto, a questo punto della disamina, per il giudice delle leggi occorre allora verificare se e in che misura tali fondamentali rationes debbano essere estese anche alle norme che, lasciando inalterati tipologia e quantum delle pene previste per il reato, ne modifichino tuttavia le modalità esecutive.

Al riguardo, non v’è dubbio che vi siano ragioni assai solide a fondamento della soluzione, sinora consacrata dal diritto vivente, secondo la quale le pene devono essere eseguite – di regola – in base alla legge in vigore al momento dell’esecuzione, e non in base a quella in vigore al tempo della commissione del reato.

In primo luogo, dal momento che l’esecuzione delle pene detentive è un fenomeno che si dipana diacronicamente, spesso anche a notevole distanza dal fatto di reato, non può non riconoscersi che nel tempo inevitabilmente muta il contesto, fattuale e normativo, nel quale l’amministrazione penitenziaria si trova a operare e da ciò deriva la necessità di fisiologici assestamenti della disciplina normativa chiamata a reagire continuamente a tali mutamenti fermo restando che, ove il regime di esecuzione delle pene detentive dovesse restare cristallizzato alla disciplina vigente al momento del fatto, ad esempio, non potrebbero essere applicate a chi avesse commesso un omicidio negli anni Ottanta o Novanta le restrizioni all’uso dei telefoni cellulari o di internet oggi previste dall’ordinamento penitenziario.

In secondo luogo, le (fisiologicamente mutevoli) regole trattamentali sono basate esse stesse su complessi bilanciamenti tra i delicati interessi in gioco – ex multis: la tutela dei diritti fondamentali dei condannati ma anche il controllo della residua pericolosità criminale del detenuto all’interno e all’esterno del carcere, in un quadro di limitatezza complessiva delle risorse a disposizione –; bilanciamenti i cui esiti mal si prestano a essere ricondotti alla logica binaria della soluzione “più favorevole” o “più sfavorevole” per il singolo condannato con la quale è però costretto ad operare il divieto di applicazione retroattiva della legge penale oltre a doversi considerare che un rigido e generale divieto di applicazione retroattiva di qualsiasi modifica della disciplina relativa all’esecuzione della pena o delle misure alternative alla detenzione che dovesse essere ritenuta in concreto deteriore per il condannato finirebbe per creare, all’interno del medesimo istituto penitenziario, una pluralità di regimi esecutivi paralleli, ciascuno legato alla data del commesso reato e ciò che creerebbe non solo gravi difficoltà di gestione per l’amministrazione ma anche differenze di trattamento tra i detenuti con tutte le intuibili conseguenze sul piano del mantenimento dell’ordine all’interno degli istituti che è esso pure condizione essenziale per un efficace dispiegarsi della funzione rieducativa della pena.

A fronte di ciò, ad avviso della Corte costituzionale, la regola appena enunciata deve, però, soffrire un’eccezione allorché la normativa sopravvenuta non comporti mere modifiche delle modalità esecutive della pena prevista dalla legge al momento del reato bensì una trasformazione della natura della pena, e della sua concreta incidenza sulla libertà personale del condannato.

In tal caso, infatti, la successione normativa determina, a ogni effetto pratico, l’applicazione di una pena che è sostanzialmente un aliud rispetto a quella stabilita al momento del fatto: con conseguente piena operatività delle rationes, poc’anzi rammentate, che stanno alla base del divieto di applicazione retroattiva delle leggi che aggravano il trattamento sanzionatorio previsto per il reato.

Ciò si verifica, paradigmaticamente, allorché al momento del fatto fosse prevista una pena suscettibile di essere eseguita “fuori” dal carcere la quale – per effetto di una modifica normativa sopravvenuta al fatto – divenga una pena che, pur non mutando formalmente il proprio nomen iuris, va eseguita di norma “dentro” il carcere posto tra il “fuori” e il “dentro” la differenza è radicale: qualitativa, prima ancora che quantitativa.

La pena da scontare diventa qui un aliud rispetto a quella prevista al momento del fatto con conseguente inammissibilità di un’applicazione retroattiva di una tale modifica normativa, al metro dell’art. 25, secondo comma, Cost. e ciò vale anche laddove la differenza tra il “fuori” e il “dentro” si apprezzi in esito a valutazioni prognostiche relative, rispettivamente, al tipo di pena che era ragionevole attendersi al momento della commissione del fatto, sulla base della legislazione allora vigente, e quella che è invece ragionevole attendersi sulla base del mutato quadro normativo. Proprio la giurisprudenza statunitense cui si è fatto poc’anzi riferimento, mostra non a caso come – ai fini della verifica del carattere deteriore della modifica normativa sulla concreta vicenda esecutiva – non possa prescindersi da una valutazione prognostica circa la creazione, da parte della legge sopravvenuta, di un serio rischio che il condannato possa essere assoggettato a un trattamento più severo di quello che era ragionevolmente prevedibile al momento del fatto, in termini di minore probabilità di accesso a modalità extramurarie di esecuzione della sanzione (come il parole negli Stati Uniti, o le misure alternative alla detenzione nell’ordinamento italiano).

Detto questo, la Consulta reputava all’uopo necessario verificare in che misura gli esiti della complessiva rimeditazione sin qui compiuta incidano sulle questioni di legittimità costituzionale ora all’esame.

Si evidenziava a tal proposito che la disposizione censurata inserisce la maggior parte dei reati contro la pubblica amministrazione nell’elenco previsto dall’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., determinando con ciò le conseguenze deteriori sulla complessiva vicenda esecutiva a carico dei condannati per tali reati, che si sono a tempo debito illustrate.

V’è dunque da stabilire se e in che misura tali conseguenze deteriori possano essere legittimamente applicate – al metro dei principi appena enunciati – a chi sia stato condannato per fatti commessi prima dell’entrata in vigore della disposizione medesima.

Ebbene, in relazione a tale quesito, la Consulta riteneva come l’art. 25, secondo comma, Cost. non si opponga a un’applicazione retroattiva delle modifiche derivanti dalla disposizione censurata alla disciplina dei meri benefici penitenziari, e in particolare dei permessi premio e del lavoro all’esterno.

Per quanto, infatti, non possa disconoscersi il significativo impatto di questi benefici sul grado di concreta afflittività della pena per il singolo condannato, non pare alla Consulta che modifiche normative, che si limitino a rendere più gravose le condizioni di accesso ai benefici medesimi, determinino una trasformazione della natura della pena da eseguire rispetto a quella comminata al momento del fatto e inflitta, sì da chiamare in causa la garanzia costituzionale in parola.

Il condannato, che fruisca di un permesso premio o che sia ammesso al lavoro all’esterno del carcere, continua in effetti a scontare una pena che resta connotata da una fondamentale dimensione “intramuraria”: egli resta in linea di principio “dentro” il carcere continuando a soggiacere alla dettagliata disciplina che caratterizza l’istituzione penitenziaria, e che coinvolge pressoché ogni aspetto della vita del detenuto.

D’altra parte, proprio perché i condannati ammessi periodicamente a godere di permessi premio e/o a svolgere lavoro all’esterno ai sensi dell’art. 21 ordin. penit., restano detenuti che scontano la pena detentiva loro inflitta dal giudice della cognizione, non può non valere nei loro confronti l’esigenza, già segnalata, di evitare disparità di trattamento, all’interno del medesimo istituto penitenziario, dipendenti soltanto dal tempo del commesso reato: disparità che sarebbero di assai problematica gestione da parte dell’amministrazione penitenziaria, e che verrebbero come tali difficilmente accettate dalla generalità dei detenuti.

La conclusione opposta si impone, invece, ad avviso della Corte costituzionale, in relazione agli effetti prodotti dalla disposizione censurata sul regime di accesso alle misure alternative alla detenzione disciplinate dal Titolo I, Capo VI, della legge n. 354 del 1975 e, in particolare, all’affidamento in prova al servizio sociale, alla detenzione domiciliare nelle sue varie forme e alla semilibertà trattandosi di «misure di natura sostanziale che incidono sulla qualità e quantità della pena […] e che per ciò stesso modificano il grado di privazione della libertà personale imposto al detenuto» (sentenza n. 349 del 1993) finendo anzi per costituire delle vere e proprie “pene” alternative alla detenzione (ordinanza n. 327 del 1989) disposte dal tribunale di sorveglianza, e caratterizzate non solo da una portata limitativa della libertà personale del condannato assai più contenuta, ma anche da un’accentuata vocazione rieducativa, che si esplica in forme del tutto diverse rispetto a quella che pure connota la pena detentiva posto che ciò è stato anche di recente ribadito dalla Consulta con riferimento sia all’affidamento in prova al servizio sociale per i condannati adulti definito quale «strumento di espiazione della pena, alternativo rispetto alla detenzione: uno strumento, certo, meno afflittivo rispetto al carcere, ma egualmente connotato in senso sanzionatorio rispetto al reato commesso, tanto che l’esito positivo dell’affidamento in prova estingue la pena detentiva e ogni altro effetto penale (art. 47, comma 12, ordin. penit.)» (sentenza n. 68 del 2019); sia alla detenzione domiciliare che costituisce anch’essa «“non una misura alternativa alla pena”, ma una pena “alternativa alla detenzione”» caratterizzata da prescrizioni meramente «limitative della libertà, sotto la vigilanza del magistrato di sorveglianza e con l’intervento del servizio sociale» (sentenza n. 99 del 2019, con richiamo alla già citata ordinanza n. 327 del 1989).

Orbene, per il giudice delle leggi, tali considerazioni valgono anche rispetto alla semilibertà ove l’obbligo di trascorrere una parte della giornata – e quanto meno le ore notturne – all’interno dell’istituto penitenziario (ma, di regola, in sezioni autonome: art. 48, comma 2, ordin. penit.) si accompagna al godimento di spazi di libertà assai significativi al di fuori della fitta rete di prescrizioni che normalmente corredano la concessione di meri benefici extramurari.

La medesima conclusione si impone – in forza del rinvio “mobile” (sentenza n. 39 del 1994) di cui all’art. 2 del d.l. n. 152 del 1991 – per ciò che concerne la liberazione condizionale: istituto disciplinato dagli artt. 176 e 177 cod. pen. ma funzionalmente analogo alle misure alternative alla detenzione essendo anch’esso finalizzato a consentire il graduale reinserimento del condannato nella società, attraverso la concessione di uno sconto di pena a chi abbia, durante il percorso penitenziario, «tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento».

La subordinazione anche della liberazione condizionale alla collaborazione processuale o alle condizioni equiparate comporta, ad avviso della Consulta, per il condannato per delitti contro la pubblica amministrazione l’evidente rischio di un significativo prolungamento del periodo da trascorrere in carcere rispetto alle prospettive che gli si presentavano sulla base della legge vigente al momento del fatto con conseguente incompatibilità con l’art. 25, secondo comma, Cost. dell’applicazione retroattiva della preclusione di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. anche rispetto alla liberazione condizionale.

Identica conclusione veniva tratta, infine, quanto all’effetto riflesso spiegato dalla disposizione censurata in relazione al divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione della pena di cui all’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen. osservandosi come a tale conclusione non fosse di ostacolo la collocazione di tale ultima disposizione nel codice di procedura penale da cui la giurisprudenza sinora unanime (per tutte, Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza n. 24561 del 2006) aveva dedotto la sua sottoposizione al generale principio tempus regit actum dato che la collocazione topografica di una disposizione non può mai essere considerata decisiva ai fini dell’individuazione dello statuto costituzionale di garanzia ad essa applicabile fermo restando che, in plurime occasioni, la giurisprudenza costituzionale aveva, d’altronde, già esteso le garanzie discendenti dall’art. 25, secondo comma, Cost. a norme non qualificate formalmente come penali dal legislatore (sentenze n. 63 del 2019, n. 223 del 2018, n. 68 del 2017 e n. 196 del 2010; ordinanza n. 117 del 2019).

Oltre a ciò, veniva rilevato come tale principio non potesse non valere anche rispetto alle norme collocate nel codice di procedura penale allorché incidano direttamente sulla qualità e quantità della pena in concreto applicabile al condannato deducendosi a tal proposito come non vi fosse dubbio che l’art. 656, comma 9, cod. proc. pen. – nel vietare la sospensione dell’ordine di esecuzione della pena in una serie di ipotesi, tra cui quella, che qui viene in considerazione, relativa alla condanna per un reato di cui all’art. 4-bis, ordin. penit. – produce l’effetto di determinare l’inizio dell’esecuzione della pena stessa in regime detentivo in attesa della decisione da parte del tribunale di sorveglianza sull’eventuale istanza di ammissione a una misura alternativa e dunque ciò comporta che una parte almeno della pena sia effettivamente scontata in carcere, anziché con le modalità extramurarie che erano consentite – per l’intera durata della pena inflitta – sulla base della legge vigente al momento della commissione del fatto e ciò, ad avviso della Consulta, tanto basta per riconoscere alla disposizione in questione un effetto di trasformazione della pena inflitta e della sua concreta incidenza sulla libertà personale rispetto al quadro normativo vigente al momento del fatto; con conseguente sua inapplicabilità, ai sensi dell’art. 25, secondo comma, Cost. alle condanne per reati commessi anteriormente all’entrata in vigore della novella legislativa che ne ha indirettamente modificato l’ambito applicativo tramite l’inserimento di numerosi reati contro la pubblica amministrazione nell’elenco di cui all’art. 4-bis ordin. penit..

Ciò posto, non varrebbe a inficiare le conclusioni appena raggiunte nemmeno l’obiezione secondo cui la prospettiva – per il condannato – di vedersi applicare una misura alternativa, sulla base della legge in vigore al momento del fatto, sarebbe stata meramente ipotetica ed eventuale visto che la valutazione circa il carattere deteriore della disciplina sopravvenuta non può che essere condotta secondo criteri di rilevante probabilità: e ciò con riferimento tanto ai benefici accessibili per il condannato sulla base della disciplina previgente, quanto alle conseguenze deteriori che derivano dall’entrata in vigore della nuova disciplina.

Sotto il primo profilo, è evidente che – in linea generale, e salve le peculiarità di ogni singolo caso – nei confronti dei condannati per reati contro la pubblica amministrazione, sussisteva una rilevante probabilità, sulla base della disciplina previgente, di accedere a misure alternative alla pena detentiva laddove i relativi limiti di pena ancora da scontare o i rispettivi requisiti anagrafici (per ciò che concerne la detenzione domiciliare di cui all’art. 47-ter, comma 01, ordin. penit.) lo permettessero oltre a ritenersi che un tale assunto è, se non altro, dimostrato dallo stesso elevato numero delle ordinanze di rimessione, che argomentano la rilevanza delle questioni proprio muovendo da un giudizio di meritevolezza rispetto al beneficio del singolo condannato sulla base della previgente disciplina.

Sotto il secondo profilo, non può negarsi, per converso, che la normativa sopravvenuta – oltre a precludere in via assoluta l’accesso a taluni benefici, come la detenzione domiciliare per i condannati ultrasettantenni (ciò che basterebbe, invero, a dimostrarne per tabulas il carattere necessariamente deteriore) – rende significativamente meno probabile la concessione degli stessi anche in considerazione delle incertezze, ancora non affrontate dalla giurisprudenza, sulla precisa estensione dell’obbligo collaborativo in capo ai condannati per reati contro la pubblica amministrazione e, segnatamente, se esso debba intendersi come limitato al singolo fatto di reato per il quale è stata pronunciata condanna, ovvero se si estenda a tutti i reati ad esso in qualche modo connessi, e dei quali l’autorità giudiziaria ritenga che il condannato sia comunque a conoscenza.

Rilevato ciò, veniva inoltre fatto presente che il censurato art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, così come scritto dal legislatore, nulla prevede in relazione alla sua applicazione nel tempo, né dispone la sua applicazione alle condanne per reati commessi anteriormente all’entrata in vigore della legge e di conseguenza, in contrasto con l’art. 25, secondo comma, Cost. – sotto i profili denunciati dalle ordinanze di rimessione in questa sede esaminate – è la norma risultante dal diritto vivente a tenore della quale le modifiche introdotte con la disposizione censurata sarebbero applicabili anche retroattivamente.

Al fine di porre rimedio a tale violazione, la Consulta stimava non accoglibile la richiesta, formulata in udienza dall’Avvocatura generale dello Stato, di una sentenza interpretativa di rigetto che dichiari non fondate le questioni “nei sensi di cui in motivazione”.

L’indubbia esistenza di un diritto vivente in senso contrario – diritto vivente dal quale muovono, del resto, le stesse ordinanze di rimessione – esclude per la Corte costituzionale la praticabilità di una simile opzione e impone alla Consulta di pronunciare una sentenza di accoglimento delle questioni prospettate (ex plurimis, sentenza n. 299 del 2005).

Conseguentemente, veniva dichiarata l’illegittimità costituzionale, per contrasto con l’art. 25, secondo comma, Cost., dell’art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, in quanto interpretato nel senso che le modificazioni introdotte all’art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975, si applichino anche ai condannati che abbiano commesso il fatto anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019, in riferimento alla disciplina delle misure alternative alla detenzione previste dal Titolo I, Capo VI, della legge n. 354 del 1975, della liberazione condizionale prevista dagli artt. 176 e 177 cod. pen. e della sospensione dell’ordine di esecuzione della pena prevista dall’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale restando assorbiti i profili di ammissibilità e di merito di tutte le ulteriori censure prospettate in riferimento ad altri parametri costituzionali.

La Corte costituzionale, invece, non riteneva che l’art. 25, secondo comma, Cost. vieti l’applicazione retroattiva di modifiche normative che incidano in senso deteriore per il condannato quanto alla disciplina di meri benefici penitenziari, come – segnatamente – i permessi premio e il lavoro all’esterno rilevandosi al contempo come ciò non significhi però che al legislatore sia consentito disconoscere il percorso rieducativo effettivamente compiuto dal condannato che abbia già raggiunto, in concreto, un grado di rieducazione adeguato alla concessione del beneficio dato che ciò si porrebbe in contrasto – se non con l’art. 25, secondo comma, Cost. – con il principio di eguaglianza e di finalismo rieducativo della pena (artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.), secondo i principi sviluppati dalla giurisprudenza di questa Corte sin dagli anni Novanta del secolo scorso.

Un simile vulnus, per la Corte, si era in effetti verificato nel caso oggetto del procedimento a quo cui si riferisce l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Potenza, iscritta al n. 210 del r.o. 2019 relativa alla vicenda di un condannato che sta espiando la propria pena detentiva, e che – secondo quanto esposto dal rimettente – alla data di entrata in vigore della legge n. 3 del 2019 aveva già maturato, in base alla disciplina previgente, i requisiti per la concessione del permesso premio.

Negare, a chi si trovi nella posizione di quel condannato, la concessione del beneficio equivarrebbe per il giudice delle leggi a disconoscere la funzione pedagogico-propulsiva del permesso premio (sentenza n. 253 del 2019) quale strumento idoneo a consentirne un suo iniziale reinserimento nella società in vista dell’eventuale concessione di misure alternative alla detenzione e in assenza di gravi comportamenti che dimostrino la non meritevolezza del beneficio nel caso concreto (sentenza n. 504 del 1995; nello stesso senso, sentenze n. 137 del 1999 e n. 445 del 1997).

L’art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019 veniva, pertanto, dichiarato costituzionalmente illegittimo, per contrasto con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., nella parte in cui non prevede che il beneficio del permesso premio possa essere concesso ai condannati per uno dei reati ivi elencati che, prima dell’entrata in vigore della legge medesima, abbiano raggiunto un grado di rieducazione adeguato al beneficio stesso, restando assorbiti i profili di ammissibilità e di merito di tutte le ulteriori censure proposte dal rimettente.

Conclusioni

La sentenza in oggetto è sicuramente assai interessante in quanto si snoda lungo un percorso argomentativo ricco di richiami a molteplici pronunce, non solo emesse dallo stesso giudice delle leggi e dalla CEDU, ma anche da Corti giudiziali di altri Stati.

La motivazione addotta, come appena detto, assai articolata, rappresenta una lunga rimeditazione, in parte anche in termini di rottura rispetto al precedente panorama giurisprudenziale, così come elaborato in sede di giustizia costituzionale, del divieto di applicazione retroattiva della pena che, come è noto, discende dal principio di legalità della pena di cui all’art. 25, secondo comma, Cost..

Orbene, nel rinviare a quanto statuito dalla Consulta nei termini enunciati in precedenza in ordine al come si sia verificato questo “scostamento”, è sufficiente osservare, a questo punto della disamina, come i giudici di legittimità costituzionale siano intervenuti sulla normativa inerente le misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici (vale a dire l’art. 1, comma 6, lettera b), della legge 9 gennaio 2019) decretandone la sua illegittimità costituzionale nella parte in cui, da un lato, le modificazioni introdotte all’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 si applicavano anche ai condannati che abbiano commesso il fatto anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019, in riferimento alla disciplina delle misure alternative alla detenzione previste dal Titolo I, Capo VI, della legge n. 354 del 1975, della liberazione condizionale prevista dagli artt. 176 e 177 del codice penale e del divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione previsto dall’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale, dall’altro, nella parte in cui non prevedeva che il beneficio del permesso premio potesse essere concesso ai condannati che, prima dell’entrata in vigore della medesima legge, avessero già raggiunto, in concreto, un grado di rieducazione adeguato alla concessione del beneficio stesso.

Questa decisione, di conseguenza, dovrà essere presa nella dovuta considerazione al fine di stabilire come e in che termini questa normativa dovrà essere correttamente applicata.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatta pronuncia, proprio perché fa chiarezza su tale tematica giuridica, dunque, non può che essere positivo.

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