Sommario: 1. Aspetti fenomenologici; 2. Le tutele previste dall’ordinamento giuridico; 3. La struttura del reato; 4. Responsabilità del provider e di eventuali altre figure; 5. La complessità delle indagini; 6. La diffamazione negli ordinamenti giuridici esteri 7. Le opzioni e i vantaggi per il soggetto leso; 8. Scenari di prospettive
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Aspetti fenomenologici
La tematica della diffamazione mediante l’utilizzo dei social network è oggetto, negli ultimi anni, di ampi dibattiti, sia per l’attualità della tematica, sia perché si tratta di una delle fattispecie penali che maggiormente si consumano. Si pensi a un post su Facebook, un commento su Instagram, un like su Twitter, una recensione su TripAdvisor, un contributo in un social forum, un messaggio inviato ad una mailing list o in un c.d. “gruppo” su WhatsApp.Aspetti fenomenologiciAspetti fenomenologici
Le nuove tecnologie, che assicurano il diritto di espressione on line a chiunque, pongono a rischio i valori fra i più importanti della persona: la dignità, l’onore e la reputazione.
E’ verosimile dedurre che in futuro, con l’avanzare incessante della tecnologia, si presenteranno nuove forme di social network e con esse assisteremo, inevitabilmente, alle forme patologiche di utilizzo, che consistono nella tendenza sempre più diffusa a parlar male di tutto e tutti, o diffondere on line immagini denigratorie.
Il web, in questo senso, è devastante poiché, grazie all’anonimato, induce i più impudenti alle offese e agli insulti di ogni genere. Non a caso, accanto agli opinionisti social, a influencer e blogger “di professione”, si riscontra una dipendenza da social network, mondo virtuale ove si scatenano gli haters, definiti anche “leoni da tastiera”.
L’utente che insulta alla presenza degli altri iscritti va incontro, di norma, alla rimozione del contenuto del messaggio e ban dalla piattaforma. Ma accanto ai provvedimenti inibitori, che potrebbero essere definiti di natura “domestica”, l’ordinamento giuridico prevede una tutela penale e civile esauriente, assai incisiva e che non lascia molti spazi a dubbi interpretativi.
Tuttavia, chi scrive ritiene che il sistema giustizia (in particolare quello penale) tenda a essere impreparato e ciò in quanto:
- il progressivo incremento della platea degli utilizzatori dei social network ha causato una mole esponenziale di reati diffamatori e, conseguentemente, di denunce presso gli organi di polizia e le Procure della Repubblica;
- l’assuefazione da social network di molti individui ha innescato la figura degli haters che, per il tramite di nickname e metodi subdoli, riescono a sfuggire dal tentativo di essere individuati dietro il proprio profilo cui si celano;
- la complessità delle indagini, sia da un punto di vista quantitativo (in riferimento alla durata) che soprattutto qualitativa (necessità di metodi investigativi “raffinati” per giungere all’identificazione dell’autore del post), sottrae smisurate energie al sistema giudiziario;
- la dimensione della domanda di giustizia da parte delle vittime diffamate è, purtroppo, inversamente proporzionale ai risultati raggiunti e ciò certamente non per incapacità degli organi giudiziari e investigativi preposti, quanto per gli ostacoli oggettivi frapposti al percorso delle indagini[1].
Le statistiche mostrano come la diffamazione sui social network sia divenuta nel tempo, un reato “ricorrente”: tuttavia, al numero dei reati di diffamazione on line denunciati non corrisponde il volume di condanne a cui pervengono i relativi procedimenti penali.
Anche quando si arrivi alla condanna dell’autore del reato, la pena scontata è quasi esclusivamente di natura pecuniaria, sebbene sia prevista anche la reclusione; inoltre, i dati di esperienza mostrano come la vittima si adoperi unicamente per la rimozione del commento offensivo presente sul sito internet e per ottenere il risarcimento del danno, mentre appare più sfumato il proprio reale interesse ad esigere la penale condanna dell’autore della diffamazione.
Ed ecco allora che non è da considerare una mera provocazione il tentativo di individuare nuove formule di tutela, più snelle e che abbiano un impatto minore sulle risorse del sistema giudiziario.
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Le tutele previste dall’ordinamento giuridico
La competenza a giudicare la diffamazione aggravata spetta al tribunale in composizione monocratica, a differenza della diffamazione semplice, di competenza del giudice di pace; il giudicante è investito a seguito di citazione diretta a giudizio, senza che l’indagato passi per il filtro dell’udienza preliminare.Le tutele previste dall’ordinamento giuridico
In estrema sintesi, secondo il codice penale, la persona offesa da una diffamazione avvenuta on line può proporre una denuncia-querela con cui chiede al giudice penale di perseguire il presunto colpevole, anche con l’obiettivo di far valere la propria pretesa risarcitoria nel processo penale.
Una questione assai dibattuta si è posta in merito all’individuazione del giudice “naturale”, ossia della competenza territoriale: la giurisprudenza oscilla fra la tesi che ritiene competente il giudice del luogo ove è avvenuto il reato (il processo si celebrerebbe nel posto ove si trovava l’autore della digitazione del commento/post contenente l’offesa) e quella che lo individua nel luogo ove si trovava la vittima nel momento in cui ha avuto percezione dell’offesa, quando ha letto i contenuti offensivi sui social network.
La giurisprudenza di legittimità ha aderito al primo orientamento, ossia il criterio del luogo ove il contenuto offensivo è stato “caricato”, con ciò significando che è competente il giudice del luogo in cui la condotta lesiva si è realizzata.
Arresti giurisprudenziali più recenti individuano il luogo del fatto non in quello dell’allocazione fisica del server host, ma dove l’agente, dotato di hardware, può collegarsi con la rete effettuando l’accesso in remoto. Partendo dalla premessa logica che non sia sempre possibile individuare il soggetto che per secondo riceve il contenuto diffamatorio[2], la Suprema Corte ha precisato come la competenza si determini con riferimento al luogo ove l’internauta “immette materialmente” il dato: più precisamente, stabilisce che “ove sia impossibile individuare il luogo di consumazione del reato e sia invece possibile individuare il luogo in remoto in cui il contenuto diffamatorio è stato caricato, tale criterio di collegamento, in quanto prioritario rispetto a quello di cui al co.2 dell’art. 9 c.p.p., deve prevalere su quest’ultimo, cosicché la competenza risulta individuabile con riferimento al luogo fisico ove viene effettuato l’accesso alla rete per il caricamento dei dati sul server” [3]. Dunque, il luogo del reato coincide con il posto in cui si trovava l’autore del reato al momento del fatto[4].
Sotto il profilo della giurisdizione, il reato si considera commesso in Italia se l’evento si è verificato nel territorio dello Stato (principio di territorialità); anche se il server adoperato per l’iniziale propalazione del contenuto diffamatorio o la sua memorizzazione dei dati dovesse alloggiare in un altro Stato dell’Unione Europea, si applicherà la legge italiana qualora l’evento pregiudizievole (pubblicazione e percezione dei terzi) si sia prodotto pure sul territorio italiano, secondo il principio di ubiquità.In altri termini, ove sia impossibile stabilire il luogo di consumazione del reato e sia stato invece individuato quello in cui il contenuto diffamatorio è stato caricato come dato informatico, per poi essere immesso in rete, la competenza territoriale va determinata, ai sensi dell’art. 9, primo comma, c.p.p., in relazione al predetto luogo in cui è avvenuta una parte dell’azione.
La giurisdizione italiana sussiste, dunque, se il reato non è stato compiuto interamente all’estero o l’evento si è realizzato almeno in parte in Italia; pertanto, una diffamazione iniziata all’estero (autore del reato che agisce all’estero unitamente al suo server) ma che si conclude con la percezione del messaggio offensivo nel nostro Paese, verrà perseguito secondo le leggi dell’ordinamento giuridico italiano.
Un’alternativa al procedimento penale è rappresentata dall’azione diretta della vittima nei confronti dell’offensore, citandolo innanzi al giudice civile per chiederne la condanna al risarcimento del danno patrimoniale, ai sensi dell’art. 2043 c.c. e di quello non patrimoniale ex art. 2059 c.c., avanti al giudice del luogo della propria residenza/domicilio, ovvero della sede se si tratta di persona giuridica, esperito previamente il tentativo di mediazione obbligatoria in virtù del D. lgs. n. 28/2010.
Sui vantaggi dei differenti rimedi si rinvia infra per un approfondimento anche legato alle possibili ipotesi di riforma del sistema sanzionatorio.
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La struttura del reato
Risulta necessaria, ai fini dell’odierna analisi, ricostruire rapidamente gli elementi costitutivi del reato di diffamazione su internet (rectius social network).Lo schema è contenuto nell’art. 595 c.p., ipotesi aggravata prevista dal terzo comma, per essere stata commessa con “qualsiasi forma di pubblicità”. Giurisprudenza consolidata[5] esclude, invece, che possa rientrare nell’altra fattispecie del comma, ovvero il “mezzo della stampa”, che da un lato sancisce pene edittali più severe, ma dall’altro consente di usufruire di tutta una serie di garanzie costituzionali, fra cui spicca l’improcedibilità del sequestro. Forum, blog, newsletter, newsgroup, mailing list e social network in generale, pur rappresentando espressioni del diritto di manifestazione del pensiero, non possono essere assimilati al concetto di stampa, nemmeno di quella on line, come definita dall’art.1, l. n. 47/1948[6].I tratti distintivi del reato sono: l’offesa all’altrui reputazione, l’assenza del soggetto leso, la comunicazione con più persone. Il bene giuridico tutelato si identifica nella reputazione e nell’onore.
La diffamazione è un reato di pericolo in cui si fa riferimento all’offesa all’onore e alla reputazione della persona offesa. La prevalente Dottrina intende l’offesa come probabilità o possibilità che l’uso di parole o di atti destinati a ledere l’onore altrui possa provocare una effettiva lesione[7].
La giurisprudenza di legittimità considera Facebook, ad esempio, una bacheca virtuale alla quale la persona quotidianamente si approccia e nella quale si è continuamente “bombardati” da migliaia di informazioni impossibili da ricordare integralmente e, pertanto, bastano pochi post letti in rapida sequenza a sommergere il ricordo di quanto visto in precedenza[8]. Per la giurisprudenza è irrilevante che la diffamazione sia avvenuta su un gruppo chiuso ovvero effettuata attraverso il proprio profilo[9], prescindendo dalla grandezza dei gruppi e del numero dei destinatari.
Il reato sui social network si può perfezionare anche a mezzo chat o sistemi di messaggistica istantanea, oppure attraverso gruppi whatsapp.
In sostanza, anche in rete devono essere rispettati il diritto al nome, all’immagine, all’onore, alla reputazione e i nuovi diritti della persona che afferiscono alla riservatezza, all’identità personale e, non ultimo, all’oblio[10]. Difatti, la ricerca per tag o parola chiave, la condivisione, i like, gli screenshot e i salvataggi dei post sono alcuni dei metodi per riportare all’attenzione generale, in qualsiasi istante, i variegati contenuti offensivi.
Nelle ipotesi in cui il sito sul quale viene inserito il messaggio è normalmente visitato da un numero indefinito di soggetti, si presume che all’inserimento faccia seguito – in tempi ristrettissimi – il collegamento da parte degli utenti di internet.In tema di diffamazione a mezzo internet, l’elemento materiale si rinviene nel fatto stesso della pubblicazione e della diffusione del mezzo usato, che si rivolge – per sua stessa natura – ad un numero indeterminato di persone mediante la c.d. “visita” del sito: si tratta di un reato istantaneo e, tenuto conto degli effetti dannosi che sono suscettibili di riattualizzarsi giorno dopo giorno, possiede i tratti di un reato permanente[11].
La Suprema Corte ha, inoltre, affermato che la diffusione di una notizia immessa sul web deve presumersi fino a prova contraria[12].
L’assenza dell’offeso deve interpretarsi nella non presenza del soggetto passivo nel momento in cui il reato si consuma. La ragione consiste nell’impossibilità per il medesimo di difendersi, non potendo percepire direttamente l’offesa a lui arrecata, pronunciata al di fuori di una discussione alla quale possa partecipare la persona offesa. Pertanto, continueranno ad essere diffamatorie frasi pronunciate sul proprio profilo privato o all’interno di commenti che nulla hanno a che vedere con una risposta/riscontro al post di riferimento.
L’eventualità che fra i fruitori del messaggio vi sia anche la persona a cui si rivolgono le espressioni offensive, non consente di mutare il titolo del reato nella diversa ipotesi di ingiuria[13].
Viceversa, qualora sia in corso una discussione vera e propria, che trae origine da un post privo dell’intento di denigrare, ma anzi diretto ad aprire una discussione ovvero a commentare una notizia, la conseguenza è che non si potrà parlare di vera e propria diffamazione[14].
Nel caso della chat, il reato è configurabile se un soggetto esprime un giudizio diffamatorio in un gruppo chiuso nel quale la persona offesa non è presente: tuttavia, se il messaggio è immediatamente cancellato e nessuno lo ha ancora letto, non si materializza la condotta penalmente rilevante.
L’offensività della condotta rispetto al bene giuridico tutelato deve essere valutata nel contesto nel quale le espressioni vengono pronunciate e le affermazioni spesso sono ampiamente coperte dall’esimente del diritto di critica. È opportuno rammentare che la giurisprudenza di legittimità[16] da tempo risolve i problemi legati a Facebook secondo il bilanciamento di contrapposti interessi, che chiama in causa la scriminante di cui all’art. 51 c.p., poiché la diffamazione offende sì l’onore e la reputazione di una persona, ma allo stesso tempo applicando troppo rigorosamente questa fattispecie si comprimerebbe il diritto di critica.Ai fini della valenza lesiva, il messaggio deve essere contestualizzato, ossia rapportato al contesto spazio-temporale nel quale è stato pronunciato[15], tenuto conto dello standard di sensibilità sociale del tempo e del contesto familiare o professionale in cui si colloca.
Ricapitolando, postare un commento offensivo sulla bacheca di Facebook della persona offesa integra il reato di diffamazione: ciò in quanto inserire un commento su una bacheca di un social network significa dare al suddetto messaggio una diffusione che potenzialmente ha la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone sicché, laddove questo sia offensivo, deve ritenersi integrata la fattispecie aggravata del reato di diffamazione.
Le questioni politiche, religiose e finanche dell’ambiente lavorativo costituiscono i principali ambiti nei quali la manifestazione del proprio pensiero sfiora e a volte travolge i limiti del rispetto del pensiero altrui. Si registrano anche numerosi episodi di pubblicazione di foto di amici, parenti o colleghi in ambito lavorativo in atteggiamenti imbarazzanti o video particolari (se non addirittura intimi) che possono concretizzare il reato di diffamazione.
Il requisito della comunicazione con più persone presuppone che l’agente esponga il contenuto diffamatorio ad almeno due soggetti, i quali siano stati in grado di percepire l’offesa[17]. Risulta irrilevante il requisito della simultaneità della comunicazione a più persone, potendo il contenuto diffamatorio essere esternato in tempi diversi.
E’ ravvisabile la forma del tentativo (forse casistica più scolastica che di concreta configurazione) nel caso sussistano problemi tecnici che impediscono la visualizzazione e, quindi, la diffusione del messaggio.
Per ciò che attiene l’elemento soggettivo del reato, è richiesto il dolo generico, anche nella forma eventuale.
A differenza della tradizionale diffamazione a mezzo stampa, che è contemperata dalle “storiche” esimenti individuate nei diritti di cronaca e critica, nell’area web non possono essere invocate le predette scriminanti. Difatti, la Corte di Cassazione[18] ha ricondotto le ipotesi di diffamazione a mezzo social network entro la cornice della fattispecie della diffamazione aggravata mediante l’utilizzo dei mezzi pubblicitari, statuendo che la pubblicazione di una frase diffamatoria su di un profilo Facebook rende la stessa accessibile ad una moltitudine indeterminata di soggetti con la sola registrazione al social network.
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Responsabilità del provider e di eventuali altre figure
Non paiono ravvisabili responsabilità penali in capo all’Internet provider (Ip)[19], o al titolare di un internet point, a meno che abbiano volontariamente concorso con l’autore alla propagazione telematica dei messaggi offensivi, da interpretare come concorso omissivo nel reato commissivo dell’utente, per non aver impedito l’evento[20]. Ciò in quanto la Direttiva europea 2000/31/CE[21] sul commercio elettronico non prevede un obbligo generale di sorveglianza ex ante per i providers[22].
Il testo puntualizza che “le deroghe alla responsabilità stabilita nella presente direttiva riguardano esclusivamente il caso in cui l’attività di prestatore di servizi della società dell’informazione si limiti al processo tecnico di attivare e fornire accesso ad una rete di comunicazione sulla quale sono trasmesse o temporaneamente memorizzate le informazioni messe a disposizione da terzi al solo scopo di rendere più efficiente la trasmissione. Siffatta attività è di ordine meramente tecnico, automatico e passivo, il che implica che il prestatore di servizi della società dell’informazione non conosce né controlla le informazioni trasmesse o memorizzate”[23]. Dunque, fintanto che il provider si limita ad un ruolo passivo di trasmissione delle informazioni, senza rimanere coinvolto nel contenuto dei messaggi diffamatori, sarà ritenuto esente da responsabilità[24].
Il mutamento di indirizzo interpretativo è diretta conseguenza dell’evoluzione delle attività dei service provider che – alle tradizionali funzioni passive di memorizzazione dei dati – affiancano quelle di indicizzazione, categorizzazione o organizzazione delle informazioni fornite e caricate dagli utenti (“hosting attivo”)[27].Tuttavia, recentemente, la Corte di Cassazione[25], avallando un orientamento della giurisprudenza di merito, ha riconosciuto la responsabilità dell’hosting provider, a titolo di concorso omissivo nel reato commesso dall’utente, proprio in forza dell’obbligo di rimozione del materiale illecito, ex art. 16, D.lgs. n. 70/2003[26]. In sostanza, gli ermellini individuano il suo apporto concorsuale alla realizzazione del reato di diffamazione nel fatto che avesse “mantenuto consapevolmente l’articolo sul sito, consentendo che lo stesso esercitasse l’efficacia diffamatoria”.
Tuttavia, questa soluzione suscita non poche perplessità: in Dottrina, si sottolinea che la responsabilità per omesso impedimento del reato presuppone che questo non sia ancora stato consumato; nel caso della diffamazione, è pacifico che il reato sia integrato al momento della pubblicazione del contenuto diffamatorio e, pertanto, il provider interverrebbe solo a reato consumato[28].
Comunque, è sufficiente una diffida o una comunicazione on line tracciabile, come le segnalazioni ad hoc su Facebook, TripAdvisor, Instagram, etc., per pretendere che il fornitore rimuova i contenuti offensivi e, in caso di inadempienza, allora si potrà dimostrare l’elemento soggettivo in capo al provider[29].
Qualora il blogger dovesse esser ritenuto responsabile per tutti i messaggi scritti sul proprio sito da altri soggetti, sarebbe ampliato a dismisura il suo dovere di vigilanza, originando un eccessivo onere a carico dello stesso: va esclusa una responsabilità personale del blogger quando questi, reso edotto dell’offensività della pubblicazione, decide di intervenire prontamente a rimuovere il post offensivo[31].Diversa risulta la posizione degli amministratori di blog, considerato che questi ultimi non forniscono alcun servizio trasmissivo in senso tecnico, ma si limitano a mettere a disposizione degli utenti una piattaforma sulla quale poter interagire attraverso la pubblicazione di contenuti e commenti su temi proposti, nella maggior parte dei casi, dallo stesso blogger, in quanto caratterizzati dalla linea, che si potrebbe definire, anche se impropriamente, “editoriale”, impressa proprio dal gestore della suddetta piattaforma[30].
Dunque, la giurisprudenza di legittimità, pur avendo distinto nettamente la figura del blogger da quella del provider, sottolineando che il primo non fornisce alcun servizio internet, limitandosi a mettere a disposizione una piattaforma virtuale su cui gli utenti possano interagire, giunge a delineare due forme di responsabilità sostanzialmente equivalenti, riconoscendo che nemmeno a carico dell’amministratore di blog grava un obbligo di controllo ex ante delle informazioni pubblicate, potendosi riconoscere solo un dovere di rimozione dei contenuti lesivi di cui lo stesso sia venuto a conoscenza.
La Corte di Cassazione[32] prospetta il ricorso alla figura della pluralità di reati, scindendo un’unica condotta in due condotte distinte integrate dalla ripetuta trasmissione del dato denigratorio: la prima consiste nella pubblicazione del post diffamatorio da parte di utenti terzi rispetto al blogger, sulla pagina virtuale dallo stesso gestita; la seconda nell’omessa rimozione del medesimo post ad opera di un soggetto diverso dal suo autore, il blogger. L’amministratore del blog che, giunto a conoscenza di contenuti diffamatori, ometta di rimuoverli, li fa propri, finendo per porre in essere ulteriori condotte diffamatorie.
Cambia la prospettiva del reato a seconda se si voglia assimilare la condotta dell’amministratore a una nuova pubblicazione del medesimo contenuto, o all’omessa rimozione del contenuto stesso, cambia la prospettiva del reato: seguendo la prima interpretazione si avrebbe la configurabilità, in capo al gestore del blog, del reato di diffamazione in forma commissiva; il secondo percorso logico individua il reato in forma omissiva.
Con riferimento all’amministratore di un gruppo social, è da escludere la responsabilità qualora questi non abbiano la possibilità di effettuare un controllo preventivo sul contenuto dei messaggi, mentre è ravvisabile nella forma del concorso allorquando il messaggio offensivo può essere visualizzato dagli utenti della rete solo a seguito di un’approvazione degli amministratori.Quanto al primo orientamento, la Dottrina[33] riconosce una forzatura insita nel considerare “azione” una condotta naturalisticamente consistente nella omissione di una condotta; quanto alla seconda, si ripresenterebbe il problema della configurabilità di una posizione di garanzia, di cui non si rinvengono tracce normative.
Viceversa, in riferimento agli altri utenti della rete, pare sufficiente la condivisione[34] di un post per un’adesione alla condotta diffamatoria, mediante l’apprezzamento o digitando commenti. In Dottrina, molti Autori ravvisano il reato anche con il semplice click di un pollice (c.d. “like”), di cuori, etc.[35].
Invero, occorre segnalare una pronuncia in cui la Corte di Cassazione[36] – nel giudicare alcuni soggetti che avevano espresso apprezzamento e approvazione verso frasi offensive esternate da altri soggetti – non hanno rilevato “una volontaria adesione e consapevole condivisione” e dunque la condotta “non evidenzia oggettivamente alcuna adesione ai medesimi, rilanciandoli direttamente o anche solo indirettamente”.
Sulla questione del “rilancio”, sarà determinante la valutazione del singolo comportamento che ha contribuito alla c.d. “viralità” con uno share, un re-post, un retweet[37].
A chiusura di questa specifica tematica, giova menzionare che, nel caso di siti contenenti comunicazioni diffamatorie, è sempre possibile applicare la misura cautelare del sequestro preventivo, ai sensi dell’art. 321 c.p.p., salvo che il sito non sia riconducibile al concetto di stampa.
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La complessità delle indagini
Premessa la completezza del quadro normativo, in cui non sono oggettivamente ravvisabili coni d’ombra, è necessario ora traslare dal piano astratto a quello concreto, che rappresenta l’odierno focus. In pratica, il sistema giudiziario deve prima cimentarsi sui commenti e/o giudizi su Facebook, Twitter, Instagram, Linkedin (sono offensivi o configurabili come mera critica rientrante nella libera manifestazione del pensiero?), poi attribuirli inequivocabilmente ad un soggetto, quindi instaurare un procedimento penale e, in conclusione, giungere alla penale condanna dell’autore del post.La complessità delle indagini
L’arduo percorso interpretativo prende avvio da una pronuncia della Suprema Corte[38] che, nell’affrontare il delicato tema dell’individuazione dell’autore di un messaggio diffamatorio pubblicato sul web (in particolare con riferimento alla piattaforma Facebook), ha evidenziato come a prescindere dal nickname utilizzato l’accertamento dell’Ip di provenienza del post può essere utile per verificare unicamente il titolare della linea telefonica associata.
Ulteriore e decisivo argomento è spesso caratterizzato dalla carenza istruttoria circa la verifica tecnica dei tempi e degli orari della connessione: spesso non vi è modo di conoscere l’identità dell’utilizzatore del profilo Facebook nel frangente in esame.
Inoltre, l’individuazione dei file log non permetterebbe neppure di risalire con elevata probabilità logica all’individuazione del responsabile del fatto-reato contestato: la verifica consente di stabilire se un determinato utente in un particolare giorno e ora si è collegato alla rete tramite un provider, data e ora della navigazione, l’indirizzo Ip utilizzato, l’anagrafica dell’intestatario di un contratto di utenza Internet.
Tuttavia, è essenziale comprendere che l’indirizzo Ip, in ogni caso, potrà al massimo costituire un mero indizio: la sua individuazione non costituisce l’elemento probatorio univoco, poiché se da un lato permette di individuare l’utenza telefonica presso cui è avvenuto l’accesso a internet, dall’altro non consente di giungere all’identificazione certa o altamente probabile del responsabile, necessaria ai fini di una condanna in sede penale: infatti, non si può infatti escludere aprioristicamente un furto di identità[39].
In pratica, ai fini della configurabilità del reato di diffamazione a mezzo web, vanno esaminate e contestate tutte le argomentazioni tecniche di parte (relative alla mancata verifica dell’indirizzo Ip di provenienza della frase diffamatoria) evidenziate nei motivi di gravame: in caso contrario, la motivazione della sentenza potrebbe risultare insufficiente.La Suprema Corte[40] ritiene insufficienti le motivazioni delle sentenze di condanna qualora sia prospettato il dubbio relativo all’eventualità che terzi abbiano potuto utilizzare il nickname dell’imputato, in violazione del criterio legale di valutazione della prova di cui all’art. 192 c.p.p., quanto alla convergenza e precisione degli indizi posti a base della ritenuta responsabilità.
Comunque sia, l’iter giudiziario prende avvio a seguito della presentazione della denuncia-querela presso l’autorità giudiziaria o la polizia giudiziaria da parte della persona offesa. Si tratta del primo step definito come condizione di procedibilità penale, la cui formalità va compiuta in tempi brevi, ossia nei canonici 90 giorni dalla conoscenza del fatto. E’ assai raccomandabile che la vittima, oltre ad esporre la vicenda, presenti prove favorevoli attinenti sia al fatto illecito relativo al contenuto offensivo condiviso sul social network, sia all’eventuale danno subìto a causa della diffamazione.
In cosa consistono le prove? Nell’acquisizione del testo diffamatorio sia esso pubblicato dal proprietario di un profilo Facebook, di una pagina Facebook o di un gruppo Facebook, ma anche eventualmente di una chat Facebook Messenger, o altri social network.
Tuttavia, le prove potrebbero anche scomparire prima di avere il tempo di sporgere querela: tanto è semplice postare un messaggio, quanto è altrettanto facile cancellarlo o modificarlo. Ciò rappresenta un ulteriore ostacolo al perseguimento del reato, in quanto non solo la denuncia-querela si declassa “a carico di ignoti”, ma la stessa commissione di un reato di diffamazione è messa in dubbio in assenza della possibilità, per le autorità preposte, di leggere e valutare il contenuto del messaggio-post ritenuto offensivo. In quest’ultima evenienza, verrebbe chiesto uno sforzo straordinario agli organi investigativi, che dovrebbero prima risalire al messaggio “oscurato” e successivamente attribuirlo inconfutabilmente ad una determinata persona.
Inoltre, molto spesso, i messaggi postati sono provenienti da account di fantasia, o comunque non corrispondenti a un’identità determinata, oppure originate da pagine o gruppi non riconducibili direttamente a una specifica persona.
Nel primo caso, la Suprema Corte[43] ha escluso la qualità di documento se non raccolto con garanzie di rispondenza all’originale e di riferibilità ad un determinato periodo temporale. E’ vero che, recentemente, si è registrata una pronuncia[44] con cui lo screenshot è stato ammesso come prova documentale, ma si trattava di un caso particolare nel quale la copia cartacea era stata ritenuta sufficiente essendo corroborata da prove ulteriori e oggettive che non erano legate solamente alla pubblicazione di un articolo diffamatorio: perciò, anche in questo specifico caso, la copia cartacea, a differenza di quella autentica, è stata soggetta insindacabilmente alla libera valutazione del giudice.Dunque, come già accennato, sebbene non obbligata, è auspicabile che la vittima si munisca della prova dell’esistenza del messaggio offensivo. Sotto tale aspetto, si suole distinguere tra lo screenshot prodotto per mezzo di mera una stampa della pagina web, oppure per il tramite di salvataggio del c.d. codice sorgente ed allegato in forma digitale, oppure con copia conforme rilasciata da notaio, cancelliere, segretario comunale o da altro soggetto previsto dall’art. 18 del d.p.r. n. 445/2000[41], che possa registrare la pagina web e nominare la copia autentica[42].
Tutti i files devono possedere una firma digitale con marcatura temporale, in modo da essere associati in maniera univoca: solo in questo modo si sarà in presenza di una prova certificata e forense del testo diffamatorio.
Nel caso di copia cartacea, potrà essere registrato solo il contenuto “statico” e, pertanto, occorrerà precisare il sito internet, il browser utilizzato e la data e l’orario in cui la copia viene prodotta.
Una raccolta delle prove non corretta potrebbe evitare al diffamatore di essere identificato, permettergli di cancellare le prove prima che si arrivi al processo penale propriamente detto, oppure consentirgli di attribuire ad altri la manifestazione del messaggio diffamatorio (ad esempio furto dell’account).
Questo dimostra ancora l’estrema difficoltà di sviluppare le relative indagini, onere estremamente dispendioso per la persona offesa del reato (se questi ha raccolto le prove e le ha allegate alla denuncia presentata agli organi preposti) o per la polizia giudiziaria nei casi per lo più residuali ove la vittima non sia stata in grado di presentare elementi concreti per indirizzare le indagini.
Non è secondario precisare che nel giudizio civile lo screenshot possiede gli effetti probatori di cui all’art. 2712 c.c.[46]. Per quanto concerne il giudizio penale, rileva, invece, l’art. 234 c.p.p.[47], sul quale la giurisprudenza di legittimità[48] ha stabilito come la mera trascrizione degli scambi su Whatsapp non presenti valore probatorio non potendo – a meno che non si produca il supporto che contiene il dato digitale allo scopo di verificarne paternità, attendibilità e datazione – esser ritenuta affidabile; e ciò, dunque, diversamente dalle registrazioni foniche che, ai sensi del c.p.p., formano prova documentale. Per l’effetto, la prova digitale deve essere acquisita con modalità che assicurino l’integrità, l’inalterabilità, la paternità e la data certa[49] (forma digitale accompagnata da una relazione tecnica).Oltre alla raccolta delle prove, altra incombenza che grava sul soggetto offeso, seppur non obbligatoria, è rappresentata dall’invio della segnalazione al motore di ricerca (ad esempio Google) e al social network interessato (come Facebook), per la rimozione dei contenuti diffamatori. Inoltre, è opportuno segnalare l’eventuale denuncia effettuata anche al provider che offre lo spazio web del sito che ha pubblicato il messaggio offensivo[45].
In presenza di messaggi postati provenienti da account non corrispondenti a un’identità determinata, dovrà necessariamente seguire una più complicata fase di indagine, ove i magistrati, per individuare chi si cela dietro il nickname, sono costretti a richiedere rogatorie internazionali, soprattutto alle autorità americane, per l’esibizione di files di “log” o comunque files contenuti nel server che rivelano l’identità dell’autore di ogni materiale pubblicato.Nel caso in cui il messaggio diffamatorio non venga registrato con le modalità richieste dal codice di rito e dalle precisazioni operate in giurisprudenza, la copia potrà avere un valore indicativo ma sarà minima la sua efficacia in dibattimento.
Tuttavia, le autorità americane – più o meno analogamente ai responsabili dei social network – non forniscono riscontri: ciò in quanto in molti Stati americani la diffamazione non è configurata come un reato[50] e le affermazioni riportate sul social network, seppur di natura offensiva della reputazione di un individuo, rappresentano una libertà di opinione.
In una nota del 2016 inviata alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma, le autorità americane hanno addirittura invitato i magistrati italiani ad astenersi dal formulare future richieste volte a individuare l’identità di profili fake, poiché il Dipartimento di giustizia USA le respinge regolarmente ed è altrettanto inutile rivolgersi direttamente ai responsabili dei social network (come ad esempio Facebook che ha sede nello Stato della California[51]) perché anch’essi non sono soliti a fornire informazioni in riferimento all’ipotesi di diffamazione, a differenza di quanto avviene per altri reati come ad esempio la pedofilia o quelli connessi al terrorismo.
Purtroppo, sia per la complessità della procedura di rogatoria, sia a causa degli infausti esiti con riferimento ai reati d’opinione, le autorità giudiziarie sono restie a intraprendere una simile procedura.
Pertanto, presso le Procure della Repubblica, si ricorre sempre con maggiore frequenza a richieste di archiviazione per le fattispecie descritte.
Va detto che la giurisprudenza di legittimità e di merito segue una linea “dura” nei confronti di chi usa i social network come valvola di sfogo per scaricare rabbia e frustrazione nei confronti di personaggi pubblici, semplici conoscenti, colleghi o datori di lavoro.
Dunque, si può ragionevolmente sostenere che gli esiti dei procedimenti penali sono caratterizzati da numerosi archiviazioni sia di natura giuridica, che di tipo “tecnico” per la presenza di insormontabili muri informatici.Tuttavia, a fronte di una copiosa fioritura di complessi fascicoli penali, sono pochissime le probabilità di identificare gli haters che si celano dietro profili di fantasia / nickname e, laconicamente, molti procedimenti si chiudono con l’inevitabile richiesta di archiviazione, poiché non si riesce ad individuare gli autori del reato avvalendosi di strumenti investigativi alternativi.
Anche in Dottrina[52] sono posti seri dubbi sulla circostanza che la verifica dell’indirizzo Ip sia il criterio più adeguato a stabilire la colpevolezza: da una parte risiedono difficoltà tecniche dell’accertamento, tenuto conto della perplessità che l’Information Technology a disposizione del sistema giudiziario sia in grado di intervenire in tutti procedimenti penali instaurati per diffamazione sui social network, dall’altra, come ampiamente sottolineato, non si può escludere il furto di uno smartphone o l’intervento di soggetti terzi sul device dell’accusato.
Ma intanto la “macchina giustizia” (sub specie investigativa) è stata sottoposta al consumo di dispendiose energie senza giungere al termine del percorso giudiziario auspicato, ossia la condanna dell’autore del commento offensivo.
Laddove sia stata la vittima stessa a produrre le prove in sede di presentazione della denuncia-querela, anche ricorrendo a costi non indifferenti per produrre lo screenshot con copia conforme rilasciata da notaio ed esonerando in parte gli organi investigativi dal compiere taluni accertamenti tecnici, saremmo in presenza di una “beffa” per il soggetto offeso del reato.
Invero, la Corte di Cassazione[53] ha affermato che anche in caso di mancata collaborazione del social network (ossia l’indicazione dell’indirizzo Ip[54]) le indagini devono proseguire ai sensi dell’art. 192 c.p.p., imponendo che l’archiviazione sia accompagnata da adeguate motivazioni.
Tuttavia, su un piano concreto, la Suprema Corte aveva avuto anche modo di precisare[55] che, in assenza di verifica dell’indirizzo Ip di provenienza, per raggiungere il massimo grado di certezza sulla paternità del post sono necessari elementi probatori gravi, precisi e concordanti.
In questi casi, gli indizi possono essere rappresentati dal profilo che riporta nome e cognome di una precisa persona, oppure la natura dell’argomento di discussione e legami con la vittima.
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La diffamazione negli ordinamenti giuridici esteri
In Germania, la diffamazione è sanzionata, nei casi più gravi, con la reclusione sino a un massimo di 2 anni, che salgono a 5 nei casi più gravi, come ad esempio nei confronti di persona impegnata nella vita politica. In realtà, spesso le indagini vengono archiviate con le scuse o il pagamento di una somma a risarcimento del danno subito dalla vittima e l’opzione civilistica è quella che risulta maggiormente seguita.
Di particolare interesse è la novità introdotta nel 2017, che prevede l’obbligo, per le piattaforme social con almeno due milioni di utenti registrati in quel Paese, di predisporre un sistema di notifica dei contenuti illeciti (fra cui la diffamazione), efficace e facilmente accessibile agli utenti. Tale sistema deve garantire che il gestore del social network si occupi immediatamente della segnalazione, rimuovendo i contenuti entro 24 ore, se manifestamente illeciti, senza l’intervento dell’autorità giudiziaria. E’ prevista poi una procedura trasparente e partecipata per la gestione delle segnalazioni.
L’ordinamento giuridico francese è più severo di quello italiano sia nella protezione della vita privata dei cittadini (fra le informazioni sensibili, per esempio, oltre allo stato di salute e l’orientamento sessuale c’è anche la religione), sia nella tutela del segreto istruttorio visto che nessun giornale pubblica i verbali di interrogatori. Tuttavia, le pene sono esclusivamente pecuniarie: fino a 12 mila euro per la diffamazione, che salgono a 45 mila se il diffamato è una persona o un’istituzione pubblica, o se la diffamazione ha un contenuto razziale.
Nel 2013, il sistema giudiziario ha prodotto un’importante sentenza sulla libertà nei social network: In particolare, la Suprema Corte ha stabilito che Facebook non è un luogo pubblico come tv, radio o giornali e chi posta opinioni e commenti in bacheca non può essere condannato per diffamazione, in quanto la bacheca di Facebook è considerata un luogo privato ove solo gli “amici” possono avere accesso.
Nel Regno Unito, la pena è esclusivamente pecuniaria, proporzionale al danno causato. La diffamazione a mezzo stampa è stata depenalizzata sic et simpliciter con il “Coroner and Justice Act” del 2009. La condotta sui social network è considerata penalmente punibile solo se integri altre fattispecie, come ad esempio è accaduto, in passato, con minacce tramite Twitter, o incitazione all’odio razziale, o più genericamente a delinquere manifestata su Facebook.
Non a caso, si rassegnano da ultimi gli Stati Uniti, in cui storicamente la libertà di opinione è protetta sino al punto di escludere ipotesi di reato nei casi di comportamenti diffamatori. Le leggi contro la diffamazione a mezzo stampa sono moderate dal Primo emendamento alla Costituzione, che tutela la libertà di espressione, voluto espressamente per proteggere la libertà di stampa[56]. La tutela costituzionale è estesa ai blog[57] e ai cd. like.In Spagna, il codice penale prevede una pena da sei mesi a due anni per i reati contro l’onore, che comprendono sia la calunnia che l’ingiuria, qualora commessi “con pubblicità”, ovvero con metodi diffamatori. Al fine del pagamento dei danni, il codice civile considera solidale la persona fisica o giuridica proprietaria del mezzo di comunicazione.
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Le opzioni e i vantaggi per il soggetto leso
E’ indubbio che l’avvento dei social network abbia prodotto un incremento della litigiosità, a causa dell’aumento esponenziale delle opportunità di connessione a internet.
Sul fronte giudiziario, ciò si traduce – per l’appunto – in un’incessante e crescente richiesta di giustizia, che chiama in causa ora i giudici civili, ora quelli penali.
In realtà l’ordinamento giuridico non è stato colto impreparato dalle nuove condotte sul web, visto che tanto sul fronte penale che su quello civile esistono adeguate norme a tutela della vittima: ciò che risulta oggettivamente poco praticabile è l’applicazione, per lo meno dal punta di vista penale.
Prima di esporre taluni spunti di riflessione sui rimedi per evitare, a lungo termine, un collasso del sistema giudiziario, occorre partire dalla scelta alternativa al procedimento penale che si sta registrando negli ultimi anni, proprio a causa del mancato esercizio dell’azione penale che pare disincentivare le persone offese: si tratta della tutela in sede civile, previo esperimento della mediazione obbligatoria con l’autore del reato.
Non si può trascurare che negli ultimi anni il ricorso alla giustizia civile per cause di diffamazione, soprattutto a mezzo stampa, è aumentato in misura significativa tanto da aver affiancato, se non in alcuni casi superato, il più “navigato” strumento della querela e del procedimento in sede penale, all’interno del quale il soggetto offeso avanza un’apposita domanda, in sede di costituzione di parte civile, che consentirà – una volta accertata la responsabilità penale dell’imputato – di ottenere la condanna al risarcimento dei danni conseguenti alla commissione del reato.
Solo in un secondo momento, da un lato, la giurisprudenza ha ammesso la risarcibilità della diffamazione colposa (elemento psicologico) quale illecito civile; dall’altro, a seguito delle modifiche del vecchio codice di rito, la pregiudizialità penale ha lasciato spazio al principio di indipendenza delle azioni, per cui oggi il ricorso al giudice civile è del tutto svincolato, a fini risarcitori, dall’accertamento in sede penale del reato. In questo modo risulta più probabile per la parte attrice vedere accolta la richiesta di risarcimento danni.Invero, per lungo tempo, in sede civile la tutela dell’onore è stata subordinata a quella penale, sia dal punto di vista sostanziale che processuale. Dal punto di vista sostanziale si riteneva risarcibile solo la lesione caratterizzata dall’elemento soggettivo del dolo, come richiesto dalla fattispecie penale; per altro verso, sul versante processuale, il vecchio codice di rito sanciva il principio della pregiudizialità.
Ciò ha contribuito a determinare un ricorso sempre più frequente alla tutela civilistica, una tutela riconducibile al disposto di cui all’articolo 2043 c.c., che consente, una volta accertati i presupposti, il riconoscimento del risarcimento sia del danno patrimoniale, che eventualmente di quello non patrimoniale (art. 2059 c.c.).
La Direttiva europea 2000/31/CE, a differenza di quanto accade sul versante penale, stabilisce che la mancata collaborazione con le autorità determina la responsabilità civile dei providers per i danni provocati.
Ad esempio, nel caso in cui il provider svolga le funzioni di hosting (memorizzazione duratura di dati), questi deve agire immediatamente per rimuovere il messaggio diffamatorio nel momento in cui sia venuto a conoscenza che l’attività o l’informazione realizzata sui propri service è illecita: sul piano civilistico è, invece, sufficiente la cognizione di fatti o di circostanze che rendano manifesta l’illiceità dell’attività o dell’informazione.
Negli ultimi anni, le cause di risarcimento danni per diffamazione in sede civile sono cresciute per numero e per somme richieste[58].
La prevalenza dell’azione civile su quella penale scaturisce anche in virtù del contenuto dell’art. 2947 c.c.. Infatti, mentre in sede penale il termine per presentare la querela è di 90 giorni dalla percezione dell’offesa, secondo l’art. 2947 c.c. “il diritto al risarcimento del danno derivante da fatto illecito si prescrive in cinque anni dal giorno in cui il fatto si è verificato” e, “in ogni caso, se il fatto è considerato dalla legge come reato e per il reato è stabilita una prescrizione più lunga, questa si applica anche all’azione civile”.
Inoltre, mentre nella procedura penale la querela presentata dalla persona che si sente diffamata è soggetta ad una attività di “filtro” da parte del Pubblico Ministero, che decide se portare o meno la questione al giudice, le citazioni in sede civile non sono sottoposte ad alcun esame preliminare e arrivano al giudice così come sono state presentate dall’attore.
Tuttavia, la diffamazione è stata, recentemente, inserita dal legislatore nel novero delle materie per le quali è previsto obbligatoriamente l’esperimento del procedimento di mediazione come condizione di procedibilità dell’eventuale successiva domanda giudiziale, fatta ovviamente eccezione per i casi in cui l’azione civile sia stata esercitata nel processo penale[59].
Inoltre, gli oneri per affrontare una causa civile sono, notoriamente, maggiori rispetto a quelli per un procedimento penale, a parità di onorari/parcelle per il legale di fiducia, poiché prevedono costi per l’avvio della causa a cura della parte attrice.
Nel dettaglio, le spese da mettere in conto sono così individuabili:
- spese per il funzionamento dell’organismo di mediazione affinché quest’ultimo possa tentare di comporre bonariamente la lite: sono dovuti da € 40,00 (per liti di valore fino a € 250.000,00) a € 80,00 (per quelle di valore superiore), oltre alle spese vive documentate, come ad esempio il costo delle raccomandate, trasferte, etc.. Se, dopo il primo incontro, le parti vorranno proseguire nel percorso conciliativo perché hanno intuito la possibilità di trovare una soluzione amichevole, allora dovranno corrispondere anche il compenso al mediatore per l’attività successivamente svolta (di media oltre € 1.500,00), cui si può aggiungere la sanzione pecuniaria in caso di mancata partecipazione senza giustificato motivo;
- E’ chiaro che nell’ambito civilistico siamo presenti a oneri complessivi non indifferenti.contributo unificato: € 518,00 (valore della causa superiore a € 26.000,01 e fino a € 52.000,00) o € 759,00 (valore della causa superiore a € 52.000,01 e fino a € 260.000,00) per il procedimento civile di 1° grado. In caso di appello o impugnazione in Cassazione della sentenza, gli importi del contributo unificato salgono ulteriormente;
- spese forfettarie di funzionamento della giustizia: marca di € 27,00;
- spese di notifica della citazione al convenuto: € 11,00 circa (per ogni soggetto, quando la notifica è effettuata a mezzo posta) per l’attività dell’ufficiale giudiziario. Tuttavia, l’avvento del processo telematico consente oggi al legale di notificare l’atto dal proprio computer, senza alcun costo per il cliente;
- spese per la notifica di copie autentiche: in alcuni casi il processo prevede che si debbano notificare delle copie autentiche di atti presenti nel fascicolo. Dovrà essere versato un contributo che varia in base al numero delle pagine: si va da un importo minimo di € 10,62 per una copia fino a 4 pagine a € 26,56 per una copia fino a 100 pagine;
- imposta di registro: con l’emissione, da parte del giudice, del provvedimento che chiude il giudizio (decreto, sentenza, etc.), tale atto sconta l’imposta di registro che va pagata direttamente allo Stato con versamento all’Agenzia delle Entrate (F23). L’importo non è sempre uguale in quanto la casistica è piuttosto vasta: possono esservi provvedimenti tassati in forma fissa (es. € 200,00) oppure in forma variabile (per le sentenze di condanna al pagamento di somme di denaro, il 3% dell’importo). L’importo della tassa di registro può essere calcolato on line dopo il deposito del provvedimento, collegandosi al sito dell’Agenzia delle Entrate (www.agenziaentrate.gov.it) e fornire gli estremi dell’atto da registrare (tipo di provvedimento, numero, autorità che l’ha emesso, etc.).
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La responsabilità amministrativa degli entiIl modello di organizzazione e gestione (o “modello ex D.Lgs. n. 231/2001”) adottato da persona giuridica, società od associazione privi di personalità giuridica, è volto a prevenire la responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato.Le imprese, gli enti e tutti i soggetti interessati possono tutelarsi, in via preventiva e strutturata, rispetto a tali responsabilità ed alle conseguenti pesanti sanzioni, non potendo essere ritenuti responsabili qualora, prima della commissione di un reato da parte di un soggetto ad essi funzionalmente collegato, abbiano adottato ed efficacemente attuato Modelli di organizzazione e gestione idonei ad evitarlo.Questo volume offre, attraverso appositi strumenti operativi, una panoramica completa ed un profilo dettagliato con casi pratici, aggiornato con la più recente giurisprudenza. La necessità di implementare un Modello Organizzativo ex D.Lgs. n. 231/2001, per gli effetti positivi che discendono dalla sua concreta adozione, potrebbe trasformarsi in una reale opportunità per costruire un efficace sistema di corporate governance, improntato alla cultura della legalità.Damiano Marinelli, avvocato cassazionista, arbitro e docente universitario. È Presidente dell’Associazione Legali Italiani (www.associazionelegaliitaliani.it) e consigliere nazionale dell’Unione Nazionale Consumatori. Specializzato in diritto civile e commerciale, è autore di numerose pubblicazioni, nonché relatore in convegni e seminari.Piercarlo Felice, laurea in giurisprudenza. Iscritto all’albo degli avvocati, consulente specializzato in Compliance Antiriciclaggio, D.Lgs. n. 231/2001, Trasparenza e Privacy, svolge attività di relatore e docente in convegni, seminari e corsi dedicati ai professionisti ed al sistema bancario, finanziario ed assicurativo, oltre ad aver svolto docenze per la Scuola Superiore dell’Economia e delle Finanze (Scuola di Formazione del Ministero dell’Economia e delle Finanze) sul tema “Antiusura ed Antiriciclaggio”. Presta tutela ed assistenza legale connessa a violazioni della normativa Antiriciclaggio e normativa ex D.Lgs. n. 231/2001. È tra i Fondatori, nonché Consigliere, dell’Associazione Italiana Responsabili Antiriciclaggio (AIRA). Collabora con l’Università di Pisa come docente per il master post laurea in “Auditing e Controllo Interno”. Ha ricoperto l’incarico di Presidente dell’Organismo di Vigilanza ex D.Lgs. n. 231/2001 presso la Banca dei Due Mari di Calabria Credito Cooperativo in A.S.Vincenzo Apa, laureato in economia e commercio e, successivamente, in economia aziendale nel 2012. Commercialista e Revisore Contabile, dal 1998 ha intrapreso il lavoro in banca, occupandosi prevalentemente di finanziamenti speciali alle imprese, di pianificazione e controllo di gestione, di organizzazione e, nel 2014/2015, ha svolto l’incarico di Membro dell’Organismo di Vigilanza 231 presso la BCC dei Due Mari. È attualmente dipendente presso la BCC Mediocrati. Ha svolto diversi incarichi di docenza in corsi di formazione sull’autoimprenditorialità, relatore di seminari e workshop rivolti al mondo delle imprese.Giovanni Caruso, iscritto presso l’Ordine dei Consulenti del Lavoro di Cosenza e nel registro dei tirocinanti dei Revisori Legali dei Conti. Laureato in Scienze dell’Amministrazione, in possesso di un Master in Diritto del Lavoro e Sindacale e diverse attestazioni in ambito Fiscale e Tributario, Privacy e Sicurezza sul Lavoro. Svolge l’attività di consulente aziendale in materia di Organizzazione, Gestione e Controllo, Sicurezza sui luoghi di lavoro, Finanza Aziendale e Privacy. Ha svolto incarichi di relatore in seminari e workshop rivolti a Professionisti ed Imprese. Damiano Marinelli, Vincenzo Apa, Giovanni Caruso, Piercarlo Felice | 2019 Maggioli Editore 25.00 € 20.00 € |
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Scenari di prospettive
Per comprendere le ragioni di una vocazione verso la riforma dell’attuale disciplina, occorre avviare il ragionamento da due quesiti e dalle conseguenze sottese alle relative risposte:
- Invero, nei casi concreti, la gran parte dei procedimenti penali si conclude con decreti di archiviazione, sentenze di assoluzione per mancanza di prove e di condanna a pene pecuniarie.anche quando si arrivi ad individuare il colpevole e si giunga ad una sentenza definitiva di condanna, esistono poi realmente casi di soggetti che scontano una pena detentiva?
- ammesso che si pervenga ad una sentenza di condanna, gli accertamenti tecnici, le varie indagini, i processi celebrati e tutte le altre attività collaterali sono da ritenersi proporzionati rispetto ai risultati ottenuti?
Si tratta dunque di affrontare la questione dell’efficacia del sistema penale, da non intendere come il tentativo di individuare nuove fattispecie in grado di contrastare il fenomeno della progressiva crescita degli illeciti commessi in rete, ovvero prevedere un sistema sanzionatorio maggiormente penetrante.
In realtà, si potrebbe ipotizzare di infrangere il tabù della previsione penale della diffamazione su social network[60], senza che la libera manifestazione del pensiero possa travolgere sic et simpliciter la tutela della reputazione, l’onore e la dignità di un soggetto.
In definitiva, ciò che si vuole affermare è che al fine di decongestionare il sistema penale, la diffamazione sul web potrebbe essere punita con una sanzione pecuniaria, da graduare a seconda dell’intensità e gravità dell’offesa arrecata: in pratica, si potrebbe prevedere un intervento legislativo volto alla depenalizzazione di talune fattispecie di diffamazione sul web.
Tale soluzione, a parere di chi scrive, è da preferire rispetto ad una riforma che privilegerebbe la depenalizzazione in relazione alla platea potenziale degli utenti in rete, escludendo, ad esempio, il reato qualora la condotta si sia verificata all’interno di gruppi chiusi.
Una simile depenalizzazione[61] presenta la difficoltà di dover tracciare una linea di demarcazione fra lo spazio web ricompreso fra i “mezzi di pubblica diffusione” e quelli che appartengono a un ambiente esclusivamente privato. Oltre all’innesco di un groviglio interpretativo da cui sarebbe estremamente complicato districarsi, vi è anche un rischio di disparità di trattamento sanzionatorio per condotte sostanzialmente simili.
Nella prassi, si può affermare con ragionevole certezza che chi propone l’azione penale abbia come reale fine – oltre alla rimozione del messaggio offensivo qualora non ancora avvenuta – il risarcimento dei danni asseritamente subiti, in termini per lo più economici: dall’angolazione della persona offesa, l’azione penale è teleologica a ottenere un soddisfacimento economico delle proprie ragioni, sempre che la controversia non sia stata risolta con una transazione e la conseguente remissione della querela.Del resto, che il legislatore – negli ultimi tempi – si stia orientando verso la direzione della depenalizzazione dei reati di opinione (sub specie dei delitti contro l’onore) è rinvenibile nell’abolizione del reato di ingiuria[62], che è stato trasformato in illecito civile.
E allora se è questo il fine, rimane da stabilire se può operarsi una depenalizzazione in relazione al bene giuridico protetto.
Secondo i fondamenti generali del diritto penale, la necessità di riformulare la teoria generale del reato sulla base costituzionale impone la definizione di reato come fatto (principio di materialità) tipico (principio di legalità) offensivo (principio di offensività del reato).
Quest’ultimo principio subordina la sanzione penale all’offesa di un bene giuridico tanto nella forma della lesione inteso come nocumento effettivo, quanto in quella dell’esposizione a pericolo concepita in termini di nocumento potenziale. Il principio è indefettibile in un sistema penale democratico, liberale e garantista.
Esso ha il valore di un criterio polivalente di minimizzazione delle proibizioni penali ed equivale ad un principio di tendenziale tolleranza della devianza, idoneo a ridurre al minimo necessario l’intervento penale e perciò a rafforzare la sua legittimità e sua credibilità.
Se il diritto penale è l’estremo rimedio, vanno in base ad esso privati di ogni rilevanza giuridica i reati la cui punibilità non è condizionata all’offesa del bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice.
Enunciati i principi generali sul principio di offensività, oggetto della tutela penale del delitto di diffamazione, come individuato in giurisprudenza[63], è l’interesse dello Stato all’integrità morale della persona: il bene giuridico specifico è dato dalla reputazione dell’uomo, dalla stima diffusa nell’ambiente sociale, dall’opinione che altri hanno del suo onore e decoro.
Ora, nell’ambito dei social network, la rapidità con cui si verificano condotte diffamatorie numericamente esponenziali determina, inevitabilmente, una percettibile deflazione della carica offensiva penalmente rilevante, che tende ad affievolire la lesività del bene giuridico. Se a ciò si aggiunge l’interesse della vittima quasi esclusivamente rivolto alla rimozione del messaggio offensivo e al risarcimento dei danni subiti, allora si può comprendere le ragioni di un ipotetico passo indietro del sistema penale, non ravvisando una lesione del bene giuridico protetto e lasciando strada ad altre vie di tutela per il soggetto destinatario dei messaggi offensivi.
Talune fattispecie oggetto dell’odierna analisi potrebbero, ontologicamente, configurare condotte prive di apprezzabile potenzialità lesiva dal punto di vista penale o che, comunque, non raggiungono una soglia tale da invocare il sistema sanzionatorio penale.
Si potrebbe supporre di mantenere la fattispecie penale solo nei casi più gravi, quali ad esempio la diffamazione che vede coinvolti minori, istituzioni dello Stato, contenuti connessi a finalità terroristiche o di natura razziale.
Del resto, la Corte Costituzionale (sebbene in riferimento all’ingiuria), con recente pronuncia[64], ha affermato che la tutela all’onore può essere assicurata anche mediante il ricorso a strumenti di carattere aquiliano o a sanzioni pecuniarie di carattere civile e non necessariamente attraverso l’incriminazione di carattere penale.
La scelta della depenalizzazione non significherebbe rovesciare la mole di lavoro dal fronte penale a quello civile, poiché nell’ambito penale non c’è alcun filtro: l’obbligo di avviare le indagini scatta a seguito di ogni denuncia-querela, sia contro soggetti determinati che nei confronti di ignoti.
Invece, sul versante civile sarebbero già scartati ope legis i casi in cui non sia identificabile un soggetto definito da citare in giudizio.
Come già ampiamente documentato, la soluzione suggerita presenta comunque talune controindicazioni: la via penale è di certo più “economica”, tenuto conto che la persona offesa non è nemmeno obbligata ad essere rappresentata da un legale, mentre la ricerca della prova è un onere assegnato per legge al Pubblico Ministero titolare delle indagini e alla polizia giudiziaria.
Tuttavia, la persona offesa del reato si trova nella morsa delle decisioni assunte dal Pubblico Ministero, che potrebbe non ravvisare alcuna offesa nel caso concreto e formulare perciò richiesta di archiviazione; è anche verosimile lo scenario che al processo si arrivi a distanza di anni[65], con il concreto rischio di una intervenuta prescrizione o che il giudizio sulla sussistenza o meno dell’offesa sia in qualche modo influenzato dal tempo trascorso dai fatti, con una percezione affievolita dell’offesa.
Non va, infine, trascurato che per addivenire ad una condanna penale sono necessarie prove maggiormente rigorose rispetto a quelle richieste per il medesimo esito sul versante civile.Inoltre, il giudice penale potrebbe limitarsi a pronunciare condanna penale nei confronti dell’imputato ma non quantifica il danno in favore della parte civile costituita, rimettendo le parti, sul punto, a un nuovo giudizio innanzi al giudice civile, con gli ulteriori oneri economici e una decisa dilatazione della tempistica.
E’ dunque evidente che la depenalizzazione di talune fattispecie di diffamazione commesse sui social network consentirebbe di alleggerire il peso sul sistema penale che, altrimenti, in assenza di riforme, rischierebbe nel medio-lungo termine un vero e proprio collasso, con risultati inversamente proporzionali agli sforzi profusi, tanto nella fase delle indagini preliminari, quanto in dibattimento.
Vi è in Dottrina chi ritiene che la depenalizzazione tout court della diffamazione con “altri mezzi di pubblica diffusione” sarebbe una risposta sanzionatoria sproporzionata per difetto[66] , poiché non possiedono un raggio d’azione delimitato. A parere di chi scrive, al fine di stabilire se la diffamazione sui social network debba rimanere nell’alveo del sistema penale o essere riconvertito esclusivamente come illecito civile, l’elemento decisivo non dovrebbe essere individuato nel raggio d’azione dei social network, quanto nella portata dell’offesa.
Pur non volendo sminuire il disvalore delle offese sul web, è da un lato la presenza di sanzioni detentive del tutto nominali e dall’altro l’affievolimento dell’intensità alla lesione del bene giuridico, in conseguenza della ripetitività della condotta, a rendere inefficace l’attuale risposta sul versante penale.
Ricapitolando, nella prospettiva ipotizzata, alla vittima di diffamazione subita on line si chiederebbe di citare in giudizio l’autore del post offensivo, anziché presentare la denuncia-querela in sede penale.
In teoria, rimane un cono d’ombra: quale tutela per le vittime che non sono in grado di citare in giudizio gli autori dei post offensivi poiché provenienti da account di fantasia?Il maggior sacrificio che sarebbe richiesto alla vittima (in termini economici e di oneri della prova) troverebbe un giusto ristoro nelle legittime aspettative, più favorevoli rispetto ai nebulosi risultati nell’ambito penale.
Gli attuali rimedi prevedono la possibilità di presentare una denuncia-querela contro ignoti, ma occorre anche essere realisti e affermare che, in questi casi, si tratta di denunce “deboli” e difficilmente le indagini – proprio per le difficoltà oggettive e i muri insormontabili precedentemente analizzati – riusciranno a individuare l’account e identificare il soggetto che si cela dietro quel profilo.
Inoltre, mentre la denuncia-querela va presentata entro 90 giorni dalla conoscenza del fatto (percezione del reato), il tempo concesso alla parte attrice nel procedimento civile è di 5 anni, tempo sufficientemente lungo per poter acquisire le prove necessarie a identificare l’autore del commento e formulare la citazione in giudizio.
La struttura del procedimento civile è slegata dai rigorosi presupposti del procedimento penale e, conseguentemente, è da ritenersi un’opzione più favorevole qualora l’interesse prioritario della vittima sia il risarcimento in grado di compensare il danno subito, anziché la penale condanna dell’autore.
Si segnala, inoltre, una strada parallela che è quella del processo cautelare, magari rafforzando la casistica. Se ad essere esposto è il diritto all’onore e alla reputazione, in taluni casi non vi è alternativa che avanzare domanda di provvedimento d’urgenza ai sensi dell’art. 700 c.p.c., così da inibire quell’inevitabile aggravamento della sfera soggettiva del soggetto leso che avviene in internet.
Petitum immediato sarà la rimozione del contenuto, l’inibitoria di ogni futura riproposizione o memorizzazione (diritto all’oblio), nonché di eventuali attività di indicizzazione quali il link; può essere parimenti richiesta la disabilitazione all’accesso a quanto ritenuto diffamatorio e, contestualmente, l’adozione di provvedimenti ai sensi dell’art. 614 bis c.p.c..
Si pensi alla pregiudizievole perduranza degli stessi nei motori di ricerca: in essi, a causa delle funzioni di “autocomplete” e delle “ricerche correlate”, il dato diffamatorio viene inesorabilmente associato alla persona fisica o giuridica in questione. Anche in tali circostanze, stante la configurabilità sia del fumus boni iuris che del periculum in mora, si applicheranno i provvedimenti cautelari azionabili ai sensi degli artt. 669 bis e ss. del codice di rito[67], specie qualora il provider – a seguito di specifica segnalazione del soggetto per richiedere la cancellazione – sia rimasto inerte adottando una condotta omissiva.
Al termine di questo percorso interpretativo, chi scrive ritiene che una eventuale depenalizzazione della diffamazione on line non rappresenti un “declassamento”, proprio perché la risposta dell’ordinamento giuridico sarebbe, in realtà, maggiormente incisiva, mediante un sistema sanzionatorio più efficace fondato su una diversa architettura della tutela giuridica dell’onore e della reputazione degli individui colpita sui social network.Lo stesso può affermarsi per la responsabilità a carico degli Ip: sarebbe auspicabile il ricorso a sanzioni amministrative pecuniarie, eventualmente accompagnate da sanzioni accessorie di tipo interdittivo[68]; la predisposizione di un modello sanzionatorio fondato sulla risposta amministrativa risulterebbe, infatti, da un lato maggiormente rispettoso dei principi di proporzionalità e sussidiarietà dell’intervento penale, evitando il rischio di un suo uso meramente simbolico; dall’altro lato, appare dotato di una più intensa efficacia dissuasiva nei confronti di soggetti che gestiscono attività di impresa, assai sensibili all’incidenza patrimoniale della sanzione e a misure repressive di carattere inibitorio.
Diversamente, si tratterebbe di un declassamento laddove venisse operata una mera trasformazione del reato di diffamazione a mezzo social network, da delitto a contravvenzione.
Con una eventuale derubricazione, l’ordinamento giuridico non rinuncerebbe a sanzionare l’autore del post offensivo, poiché potrebbero essere introdotte – al pari di quanto avvenuto con la fattispecie di ingiuria – le sanzioni pecuniarie civili (da graduare a seconda della gravità della condotta), applicate dal giudice all’esito del relativo procedimento.
A conclusione dell’odierna analisi, giova infine evidenziare che al Senato della Repubblica è presente il disegno di legge n. 812 che va, per certi aspetti, in questa direzione, anche se non è prevista una depenalizzazione. Difatti, si propone l’abolizione della pena detentiva, non solo per la scarsa deterrenza, ma anche per un’applicazione giurisprudenziale di irrogazione della pena connotata da rilevante discrezionalità. L’obiettivo dell’intervento normativo è di bilanciare la libertà di opinione e di critica da un lato e la tutela della dignità personale dall’altro.
Di significativa rilevanza è l’art. 3 che reca ulteriori misure a tutela del soggetto diffamato, leso nell’onore o nella reputazione. Si tratta di disposizioni che regolano il diritto dell’interessato a richiedere l’eliminazione – dai siti internet e dai motori di ricerca – dei contenuti diffamatori oppure i dati personali trattati in violazione di legge, che rappresenta un tangibile tentativo di introdurre un “diritto all’oblio”. È, inoltre, disciplinata, in caso di rifiuto o di omessa cancellazione dei dati, la facoltà del giudice di ordinare la rimozione o il divieto di ulteriore diffusione del contenuto diffamatorio.A seguito dell’eliminazione della pena detentiva, è contemporaneamente previsto l’aumento dell’importo della multa[69].
Note
[1] In particolare, come si avrà modo di esporre, ci si riferisce agli esiti vani delle relative rogatorie internazionali (perché la fattispecie non è prevista come reato nel Paese interessato dalla procedura) e alla mancata collaborazione da parte dei titolari dei social network che – nella quasi totalità dei casi – risiedono all’estero.
[2] Così integrando il requisito della pluralità dei destinatari, necessario ai fini della consumazione del delitto di diffamazione.
[3] Cass. pen., sez. V, sent. n. 31677/2015, in linea con i principi enunciati da Cass. pen., SS.UU., sent. n.17325/2015, sebbene in un caso di accesso abusive a un sistema informatico o telematico (art. 615 ter c.p.).
[4] Cfr. Cass. pen., sez. V, sent. n. 8482/2017.
[5] Cfr. Cass. pen., sez. V., sent. n. 4873/2017.
[6] Sono stampe o stampati “tutte le riproduzioni tipografiche o comunque ottenute con mezzi meccanici o fisico chimici, in qualsiasi modo destinate alla pubblicazione”.
[7] In particolare, V. DE ROSA “Il reato di diffamazione attraverso il web e i social network”, pubblicato in data 01.12.2018 su “SalvisJuribus”, all’indirizzo internet www.salvisjuribus.it.
[8] Cfr. F. ANTONELLI, “Reato di diffamazione aggravata sui social network”, su “Studio Cataldi il diritto quotidiano”, all’indirizzo internet www.studiocataldi.it.
[9] Cass. pen., sez. I, sent. n. 16712/2014.
[10] G. CASSANO e I.P. CIMINO, “Internet – La responsabilità del provider, non può esistere una zona “franca” dal diritto”, in “Guida al Diritto”, 2013, pag. 50.
[11] Cfr. R. GIACOBBI, “La diffamazione on line”, pubblicato il 01.06.2018 in “CyberLaws”, al sito internet www.cyberlaws.it.
[12] Ex plurimis, Cass. pen., sez. I, sent. n. 2739/2011.
[13] Così Cass. pen., sez. V, sent. n. 44980/2012.
[14] Ibidem.
[15] Cass. pen., sez. V, sent. n. 45014/2012.
[16] Ex multis, Cass. pen., sez. I, sent. n. 24431/2015.
[17] La giurisprudenza ritiene sussistente il delitto anche se l’autore del reato comunichi il contenuto diffamatorio ad una sola persona, purché questa, a sua volta, la estenda ad altri soggetti e ciò si sia verificato.
[18] Cass. pen., sent. n. 16712/2014, cit..
[19] Come noto, l’indirizzo Ip è una sorta di etichetta assegnata ad ogni singola connessione internet: più precisamente, consiste ad un codice numerico unico ed esclusivo che viene assegnato ad ogni dispositivo elettronico nel momento in cui avviene la connessione.
[20] Ovvero nel caso di illeciti commessi in prima persona.
[21] Recepita con D.lgs. n. 70/2003.
[22] Art. 15.
[23] Attività di mere conduit, di semplice trasporto e trasmissione delle informazioni.
[24] Diversa è l’ipotesi in cui il provider svolga funzioni di selezione nella diffusione dei files caricati in rete, conoscendone preventivamente il contenuto.
[25] Cass. pen., sez. V, sent. n. 54946/2016.
[26] I giudici hanno fatto leva sulla circostanza che il provider avesse consapevolmente mantenuto il contenuto sul proprio portale, pur avendo avuto conoscenza della sua natura illecita, senza adottare le necessarie iniziative per evitare che la condotta diffamatoria si protraesse.
[27] Così V. NARDI “I discorsi d’odio nell’era digitale: quale ruolo per l’internet service provider?”, articolo pubblicato il 07.03.2019 su “Diritto penale contemporaneo”, al sito internet www.penalecontemporaneo.it.
[28] Cfr. C. PAGELLA, “La Cassazione sulla responsabilità del blogger per contenuti diffamatori (commenti) pubblicati da terzi”, articolo pubblicato il 17.05.2019 su “Diritto penale contemporaneo”, al sito internet www.penalecontemporaneo.it.
[29] Nel caso svolga funzioni di caching (memorizzazione automatica e temporanea di dati), la condotta consiste nel non aver agito prontamente per rimuovere le informazioni memorizzate, non appena sia venuto a conoscenza del fatto.
[30] Così Cass. pen., sez. V, sent. n. 12546/2019.
[31] Cass. pen., sent. n. 12546/2019, cit..
[32] Cass. pen., sent. n. 12546/2019, cit..
[33] In particolare, si veda C. PAGELLA, op. cit..
[34] La condivisione porta all’attenzione di una platea maggiore il post incriminato.
[35] Cfr. M. ACQUAVIVA, “Diffamazione sui social network”, pubblicato il 04.11.2018 in “La legge per tutti”, al sito internet www.laleggepertutti.it.
[36] Cass. pen., sez. V, sent. n. 3981/2016.
[37] Vds. R. GIACOBBI, op. cit..
[38] Cass. pen., sez. V, sent. n. 5352/2018.
[39] In tal senso, la pronuncia pare superare Cass. pen., sez. V, sent. n. 8275/2016, laddove si sostiene che l’indirizzo Ip, che consente di individuare univocamente ogni computer collegato in rete, costituisce una prova idonea all’individuazione della provenienza dello scritto postato, che non può essere scalfita dalla possibilità del c.d. furto di identità da parte di un soggetto terzo.
[40] Cass. pen., sent. n. 5352/2018, cit..
[41] Strumento nettamente più solido.
[42] In particolare, il notaio dovrà eseguire una copia precisa di tutte le informazioni che sono state visualizzate, indicare il browser utilizzato, a quale ora è stata registrata ed eventuali certificati di sicurezza che sono attivi sull’indirizzo URL della pagina. Sul punto, L.G. PINZI, “Diffamazione on line. Cos’è, come funziona, cosa si rischia”, pubblicato il 18.01.2019 su “Alground Portale italiano di sicurezza informatica” al sito internet www.alground.com.
[43] Cass. civ., sez. Lav., sent. n. 2912/2004.
[44] Cass. pen., sez. V, sent. n. 8736/2018.
[45] La segnalazione può essere effettuata anche in assenza della denuncia-querela, ma richiede competenze tecniche per poter effettuare una ricerca whois del dominio in oggetto e reperire il corretto indirizzo e-mail di riferimento cui inviare la richiesta di rimozione (possibilmente da una p.e.c.).
[46] “Le riproduzioni fotografiche, informatiche o cinematografiche, le registrazioni fonografiche e, in genere, ogni altra rappresentazione meccanica di fatti e di cose formano piena prova dei fatti e delle cose rappresentate, se colui contro il quale sono prodotte non ne disconosce la conformità ai fatti o alle cose medesime”.
[47] Art. 234. Prova documentale.
“1. E’ consentita l’acquisizione di scritti o di altri documenti che rappresentano fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo.
- Quando l’originale di un documento del quale occorre far uso è per qualsiasi causa distrutto, smarrito o sottratto e non è possibile recuperarlo, può esserne acquisita copia.
- E’ vietata l’acquisizione di documenti che contengono informazioni sulle voci correnti nel pubblico intorno ai fatti di cui si tratta nel processo o sulla moralità in generale delle parti, dei testimoni, dei consulenti tecnici e dei periti”.
Art. 234-bis. Acquisizione di documenti e dati informatici.
“1. È sempre consentita l’acquisizione di documenti e dati informatici conservati all’estero, anche diversi da quelli disponibili al pubblico, previo consenso, in quest’ultimo caso, del legittimo titolare”.
[48] Cass. pen., sez. VI, sent. n. 49016/2017.
[49] Cfr. G. SARTOR, “Corso di Informatica giuridica”, Torino, Giappichelli Editore, 2008.
[50] Al massimo è sanzionato come illecito civile.
[51] In riferimento ai commenti diffamatori commessi attraverso il profilo Facebook, per risalire all’identità dell’autore del reato occorrerebbe procedere a compiere accertamenti informatici, richiedendoli all’azienda statunitense Facebook Inc..
[52] Si veda l’articolo “Web. Social: gli insulti sono diffamazione, ma per trovare il colpevole c’è bisogno dell’indirizzo IP”, pubblicato dalla redazione di “Newslinet.it” il 14.11.2018, al sito internet www.newslinet.com.
[53] Cass. pen., Sez. V, sent. n. 42630/2018.
[54] Come già precisato, l’indirizzo Ip è una sorta di etichetta assegnata ad ogni singola connessione internet.
[55] Cass. pen., sent. n. 5352/2018, cit..
[56] I reati federali a mezzo stampa che comportino il carcere sono previsti in 17 Stati.
[57] I blogger devono essere considerati alla stregua dei giornalisti.
[58] Una ricerca del Consiglio regionale dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia ha evidenziato come al Tribunale di Milano le cause in sede civile per diffamazione (a mezzo stampa) siano maggiori per numero e durata di quelle penali.
[59] Il dissenso espresso dalle parti rispetto alla possibilità di mediare la controversia fa venir meno ogni impedimento rispetto alla prosecuzione della stessa in sede giudiziale e, pertanto, determina la procedibilità della domanda giudiziale, una procedibilità quest’ultima che – una volta determinatasi – perdura senza limiti di tempo.
[60] Ma non tout court, come si avrà modo di precisare infra.
[61] Dalla prospettiva dell’ambito di applicazione della condotta penalmente rilevante.
[62] Ex. D.lgs. n. 7/2016.
[63] Cass. Pen., Sez. V., sent. n. 3247/1995.
[64] Sentenza 6 marzo 2019, n. 37.
[65] Sebbene giurisprudenza costante abbia riaffermato che la diffamazione per offese attraverso social network o sui c.d. UGC (User Generated Content), come Youtube, rappresenta una fattispecie per la quale è prevista la citazione diretta a giudizio, senza il passaggio dell’ulteriore filtro dell’udienza preliminare.
[66] A. MANNA, “Problemi vecchi e nuovi in tema di diffamazione a mezzo stampa”, pubblicato in “Archivio penale”, 2012, n. 3, pag. 6.
[67] Così R. GIACOBBI, op. cit..
[68] V. NARDI, op. cit..
[69] Da € 3.000,00 a € 10.000,00. Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena della multa è sino a € 15.000,00. In caso di offesa arrecata con qualsiasi mezzo di pubblicità (come i social network), la pena è aumentata della metà.
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