Diffamazione a mezzo stampa

Non sono assimilabili le relazioni commissariali agli atti di indagine ed ai provvedimenti giudiziari

“Le relazioni commissariali sono atti amministrativi, di carattere endoprocedimentali (redatti ex art 2 l n. 345/1991 e 143 TUEL) che esauriscono la loro funzione nella esposizione di attività istruttoria destinata all’autorità prefettizia e finalizzate a fornire elementi utili alla formazione di una relazione diretta al ministero dell’Interno, cui è riservato il vaglio dello scioglimento dell’ente. Trattasi di atti non aventi le caratteristiche e le finalità proprie degli atti giudiziari e la cui formazione non è di per sé caratterizzata dalle garanzie (prima fa tutte quella del diritto di difesa) e dagli strumenti e poteri accertativi connotanti il procedimento ed il processo penale. Ne consegue che l’appiattimento alle risultanze di un tale atto non può essere valutato alla stregue della pubblicazione di atti di indagine o provvedimenti dell’autorità giudiziaria”( Tribunale Cosenza Sez. civile Sentenza n. 2126/19).

Il Tribunale di Cosenza si sofferma, con la sentenza in commento, su una questione giuridica di rilievo, afferente alla configurabilità dell’esimente del c.d. diritto di cronaca rispetto alla pubblicazione integrale della relazione effettuata dalla Commissione di accesso Asp.

La Vicenda

In data 09.03.2014 il Quotidiano del Sud, pubblicava un articolo dal titolo “ La passione dei Serpa per la Sanità”  . In tale articolo Tizio veniva indicato come soggetto pregiudicato “ gravato da precedenti per detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti”. In seguito a tali affermazioni pubblicamente esposte, venivano richieste al Tribunale i certificati relativi al casellario giudiziario ed ai carichi pendenti, dai quali emergeva che nessun procedimento era stato mai avviato nei confronti dello stesso. Tizio pertanto, citava in giudizio per diffamazione il Direttore Responsabile del Quotidiano, il Giornalista e la società proprietaria del Quotidiano, al fine di fare accertare e dichiarare gli stessi responsabili di diffamazione nei sui confronti e condannarli alla corresponsione di un congruo risarcimento, alla corresponsione di una somma a titolo di riparazione pecuniaria ex art 12 legge 08.02.1948 n.47, nonché alla pubblicazione per estratto della emananda sentenza sui quotidiani locali a cura e spese dei convenuti medesimi.

I convenuti costituitisi in giudizio hanno nel merito uniformemente contestato la loro responsabilità eccependo che in realtà non si trattava di un vero e proprio articolo giornalistico, ma della mera trascrizione di parte della relazione dei commissari prefettizi ASP, operata fedelmente, in maniera cioè pienamente corrispondente al testo della notizia. Hanno pertanto opposto la verità della notizia, la continenza espressiva, non essendo stata operata alcuna aggiunta o variazione e la sussistenza di pubblico interesse alla pubblicazione evidenziando che  i soggetti indicati sono tutti pubblici dipendenti Asp.

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La responsabilità nei nuovi reati informatici

L’opera si pone quale strumento di analisi dei nuovi reati informatici e delle metodologie investigative, analizzando i diversi mezzi di ricerca e di acquisizione della prova informatica.Attraverso un’analisi sistematica, il volume affronta le singole fattispecie, ponendo l’attenzione sulle modalità di ricerca della prova e aiutando il professionista nell’individuazione degli elementi che costituiscono la responsabilità penale dell’autore del reato.Lo spazio fluido, tipico del web, richiede un’attenzione particolare: quest’opera nasce proprio dall’esigenza di fornire nozioni e azioni di riferimento, che possano guidare l’operatore nel costruire la propria linea difensiva, alla luce delle nuove figure criminose, quali l’hate speech, il sexting, il revenge porn, il cyber terrorismo e il cyberlaundering.A completamento della trattazione, nella seconda parte, il volume affronta le diverse metodologie investigative, nonché le tecniche forensi di acquisizione e conservazione della prova informatica.In tal modo, il testo si pone quale valido strumento per il professionista che debba fornire la prova della consumazione di reati informatici.Flaviano PelusoAvvocato in Roma. È Professore a contratto di scienze giuridiche medico-legali, presso la facoltà di Medicina dell’Università La Sapienza, di abilità informatiche presso le facoltà di Economia, Psicologia e Lettere dell’Università La Sapienza, nonché d’informatica ed elaborazione dati e di idoneità informatica presso l’Università della Tuscia. È autore di libri, articoli e note a sentenza nonché curatore di libri in materia di diritto dell’informatica e di informatica forense.Cecilia CavaceppiGiudice del Tribunale di Latina applicata attualmente al Tribunale di Napoli. È dottore di ricerca in diritto amministrativo presso la Luiss Guido Carli.Francesco Saverio CavaceppiAvvocato del Foro di Roma, Professore a contratto di informatica ed elaborazione dati presso l’Università della Tuscia e docente di informatica giuridica presso la Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali “Migliorini” dell’Università di Perugia.Daniela CavallaroAvvocato del Foro di Velletri e Data Protection Officer presso l’Agenzia di Stampa Nazionale; ha conseguito il master in Diritto dell’informatica presso l’Università degli Studi di Roma La Sapienza, ha conseguito i certificati di European Privacy Expert, Valutatore Privacy (UNI 11697:2017) e Auditor ISDP 10003.Raissa ColettiConsulente in Institutional & Corporate Communication. Ha conseguito il master in Human Resource management & Digital Skills.Alfonso ContaldoProfessore a contratto di diritto dell’informazione e della comunicazione digitale nell’Accademia delle Belle Arti di Roma, dottore di ricerca in informatica giuridica presso l’Università degli Studi di Roma La Sapienza. È autore di monografie, articoli, note e contributi in collettanei in materia di diritto dell’informazione e dell’informatica e di informatica giudiziaria.Alessandra CorteseAssistente Giudiziario presso la Procura Generale della Repubblica di Venezia, è laureata in giurisprudenza presso l’Università di Messina, ha conseguito il master di 2° livello in Diritto dell’informatica presso l’Università La Sapienza, è abilitata all’esercizio della professione forense, è socia ANORC, è iscritta nel registro dei Professionisti della Privacy. È autrice di alcuni articoli di diritto dell’informatica.

Alfonso Contaldo, Flaviano Peluso (a cura di), Cecilia Cavaceppi, Francesco Saverio Cavaceppi, Daniela Cavallaro, Raissa Coletti, Alessandra Cortese | 2020 Maggioli Editore

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La questione dei limiti al diritto di cronaca

Preliminarmente, ed in linea generale, è opportuno rammentare – in conformità a principi ormai acquisiti dalla giurisprudenza a partire dal noto arresto facente capo a Cass. civ. sez. I, 18 ottobre 1984, n. 5259 – che la divulgazione di notizie lesive dell’onore può ritenersi lecita espressione del diritto di cronaca, ed escludere la responsabilità civile per violazione del diritto all’onore, allorché ricorrono tre condizioni consistenti:

a) nella verità oggettiva (o anche soltanto putativa, purché frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca), che non sussiste quando, pur essendo veri i singoli fatti riferiti, siano, dolosamente o anche soltanto colposamente, taciuti altri fatti, tanto strettamente ricollegabili ai primi da mutarne completamente il significato, ovvero quando i fatti riferiti siano accompagnati da sollecitazioni emotive ovvero da sottintesi, accostamenti, insinuazioni, allusioni o sofismi obiettivamente idonei a creare nella mente del lettore (od ascoltatore) rappresentazioni della realtà oggettiva false. Il che si esprime nella formula che «il testo va letto nel contesto», il quale può determinare un mutamento del significato apparente della frase altrimenti non diffamatoria, dandole un contenuto allusivo, percepibile dall’uomo medio ( civ., sez. III, 28 settembre 2011, n. 19806);

b) nella sussistenza di un interesse pubblico all’informazione, vale a dire la c.d. pertinenza ( civ. sez. III, 15 dicembre 2004, n. 23366);

c) nella forma “civile” dell’esposizione dei fatti e della loro valutazione, e cioè la d. continenza, posto che lo scritto non deve mai eccedere lo scopo informativo da conseguire ed essere improntato a serena obiettività, con esclusione di ogni preconcetto intento denigratorio e nel rispetto di quel minimo di dignità cui ha pur sempre diritto anche la più riprovevole delle persone, evitando forme di offese indirette (Cass. civ., sez. III, 4 settembre 2012, n. 14822).

Il giornalista deve quindi non solo controllare l’attendibilità della fonte (non sussistendo fonti informative privilegiate), ma anche accertare e rispettare che la verità sostanziale dei fatti oggetto della notizia, la quale può dirsi non scalfita solo da inesattezze secondarie o marginali, inidonee a determinarne o ad aggravarne la valenza diffamatoria (Cass. civ., sez. III, 4 luglio 1997, n. 6041).

La decisione del Tribunale

Con la sentenza n. 2126/2019 del 25 Ottobre 2019, la Seconda Sez. civile del Tribunale di Cosenza ha sostanzialmente accolto le istanze dell’attore ritenendo sussistere il carattere diffamatorio dell’articolo “ La passione dei Serpa per la Sanità” Alla stregua di ciò il giudice:

– ha condannato i convenuti, in solido tra loro, a rifondere a Tizio l’importo di euro 10.000,00, oltre interessi dalla pubblicazione della sentenza al saldo effettivo a titolo di risarcimento danni da diffamazione a mezzo stampa, nonché a pagare altresì la somma di euro 1.000,00 a titolo di riparazione pecuniaria ex art. 12 L. 47/48, oltre alla pubblicazione della suddetta sentenza su un quotidiano locale.

Motivazioni che hanno condotto il Giudice ad accogliere la domanda

L’attore ha provato attraverso la produzione dei certificato dei carichi pendenti e del casellario giudiziario di essere soggetto incensurato e che suo carico non è stato mai avviato nessun procedimento penale. Tale deduzione è rimasta incontestata, sul punto i convenuti hanno dedotto l’esimente della verità putativa, assimilando la relazione della Commissione di accesso Asp  ad un vero e proprio atto di indagine giudiziaria. Sul punto, il Tribunale in maniera chiara e precisa ha dedotto che:  “Le relazioni commissariali sono atti amministrativi, di carattere endoprocedimentali (redatti ex art 2 l n. 345/1991 e 143 TUEL) che esauriscono la loro funzione nella esposizione di attività istruttoria destinata all’autorità prefettizia e finalizzate a fornire elementi utili alla formazione di una relazione diretta al ministero dell’Interno, cui è riservato il vaglio dello scioglimento dell’ente. Trattasi di atti non aventi le caratteristiche e le finalità proprie degli atti giudiziari e la cui formazione non è di per sé caratterizzata dalle garanzie (prima fa tutte quella del diritto di difesa) e dagli strumenti e poteri accertativi connotanti il procedimento ed il processo penale. Ne consegue che l’appiattimento alle risultanze di un tale atto non può essere valutato alla stregue della pubblicazione di atti di indagine o provvedimenti dell’autorità giudiziaria di natura penale”.

Circa l’interesse alla pubblicazione dell’articolo, i convenuti hanno dedotto che l’attore fosse dipendente dell’Asp, sul punto il Tribunale ha cosi motivato: “neppure può ritenersi provato l’interesse alla pubblicazione per come motivato dai convenuti, stante l’assorbente rilievo che l’attore, per come da lui dedotto e non contestato, non è un dipendente dell’Asp”. Ed ancora prosegue il Tribunale, “ Il rilevo che precede revoca in dubbio anche la continenza alla pubblicazione, da valutarsi, ovviamente, con riguarda alla notizia inerente l’attore”.

Alla luce delle motivazioni che precedono, il Tribunale ha accolto integralmente la domanda dell’attore condannando i convenuti al chiesto risarcimento, per come sopra già specificato.

Conclusioni

Dalla esaminata sentenza emerge che le relazioni delle Commissioni di accesso, sono atti endoprocedimentali amministrativi, non di  natura giudiziaria, pertanto non sono  atti provenienti da organi giurisdizionali.

Sul punto è il caso di sottolineare, infatti, che la genesi di questi atti endoprocedimentali di natura amministrativa avviene con modalità completamente diverse dagli atti di natura giudiziaria.

L’articolo 143, comma 2 del Tuel dispone, infatti,  che quando si debba procedere allo scioglimento di un’amministrazione comunale o provinciale (o anche, a seguito della novella introdotta dall’articolo 1-bis del Dlgs 31 marzo 2003 n. 50, di città metropolitane, comunità montane, comunità isolane, unioni di comuni, consorzi di comuni e province, organi comunque denominati delle aziende sanitarie locali ed ospedaliere (come nel caso che ci occupa), aziende speciali dei comuni e delle province e consigli circoscrizionali), lo scioglimento anzidetto «è avviato dal prefetto della provincia con una relazione che tiene anche conto di elementi eventualmente acquisiti con i poteri delegati dal Ministro dell’Interno ai sensi dell’articolo 2, comma 2-quater, del decreto legge 29 ottobre 1991 n. 345 convertito dalla legge 30 dicembre 1991 n. 410, e successive modificazioni ed integrazioni».

La commissione d’accesso di nomina prefettizia, svolge un’attività d’indagine sull’operato dell’amministrazione locale, valutando la consistenza degli elementi sui quali fondare la proposta di scioglimento, rappresentati dai vizi e dalle anomalie dell’azione amministrativa dell’ente.

La commissione, al termine dei lavori, redige una relazione diretta al Prefetto che, a sua volta, invia un rapporto al Ministro dell’Interno, affinché valuti l’opportunità di giungere ad uno scioglimento.

Alla relazione prefettizia, nel caso di riscontro di elementi che integrino gli estremi dello scioglimento, segue eventualmente l’emanazione, da parte del Presidente della Repubblica, del decreto che dispone lo scioglimento dell’Ente.

Di conseguenza, le relazioni delle Commissioni di accesso sono  atti non avente le caratteristiche e le finalità proprie degli atti giudiziari. Si è tratta  infatti di atti aventi un procedimento completamente differente per formazione, strumenti e poteri accertativi, rispetto agli atti  connotanti il procedimento ed il processo giurisdizionale penale, pertanto non pubblicabili, se non dopo aver verificato la puntuale fondatezza e veridicità della notizia riportata nel documento. Da quanto dedotto, ne discende, che alle relazioni delle commissioni di accesso, non può essere riconosciuta la natura di fonte privilegiata, sia perché, lo si ribadisce, trattasi di atto non di formazione giudiziaria, sia perché nel nostro ordinamento non esistono fonti informative privilegiate, che siano di per sé idonee ad esonerare il giornalista da una diligente indagine di quanto narrato.

Non da ultimo la Cassazione con la sentenza n. 27592/2019 ha chiarito che: l’esimente della verità putativa dei fatti narrati, idonea ad escludere la responsabilità dell’autore d’uno scritto offensivo dell’altrui reputazione, sussiste solo a condizione che:

a) l’autore abbia compiuto ogni diligente accertamento per verificare la verosimiglianza dei fatti riferiti; b) l’autore abbia dato conto con chiarezza e trasparenza della fonte da cui ha tratto le sue informazione, e del contesto in cui, in quella fonte, esse erano inserite; c) l’autore non ha sottaciuto fatti collaterali idonei a privare di senso o modificare il senso dei fatti narrati; d) l’autore, nel riferire fatti pur veri, non abbia usato toni allusivi, insinuanti, decettivi”.

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