Difficoltà nell’azione antitrust: oggetto ed effetto dell’intesa vietata nel diritto comunitario

 L’art. 81 del Trattato dell’UE vieta gli accordi e le pratiche concordate che abbiano “per oggetto o per effetto” una distorsione o una restrizione del livello di concorrenza presente nel mercato. Questo aspetto rende molto difficoltosa in alcuni casi l’azione antitrust nel cercare di determinare il danno alla concorrenza: solo in pochi casi è infatti esplicito ed evidente l’oggetto anticoncorrenziale di un accordo o di una pratica concordata. Ecco perché è opportuno preliminarmente esaminare anzitutto i rapporti esistenti fra la nozione di oggetto e quella di effetto, prima di precisare il contenuto che deve essere riconosciuto a ciascuna di esse.
In una nota sentenza[1] la Corte di giustizia ha affermato che “il carattere non cumulativo, ma alternativo della presente condizione, sottolineato dalla congiunzione “o” implica anzitutto la necessità di prendere in considerazione l’oggetto dell’accordo, tenendo conto delle circostanze economiche in cui esso deve essere applicato”. Quindi,la valutazione degli effetti è necessaria se l’esame “non riveli un grado sufficiente di dannosità per la concorrenza”. Sulla stessa linea[2], la stessa Corte ha confermato che “è superfluo prendere in considerazione gli effetti concreti di un accordo ove risulti che esso ha per oggetto di restringere, impedire o falsare il gioco della concorrenza”.
Questa interpretazione è stata confermata e ribadita più volte da altre pronunce della giurisprudenza comunitaria[3] e nella sentenza Miller/Commissione in cui si legge che: “vietando gli accordi che hanno per oggetto o per effetto di restringere la concorrenza e che possono pregiudicare gli scambi fra gli Stati membri, l’art. 85.1 del Trattato non prescrive che venga dimostrato che tali accordi hanno, in effetti, pregiudicato in misura rilevante gli scambi, prova che nella maggior parte dei casi potrebbe difficilmente venir fornita, ma richiede che si provi che gli accordi sono atti a produrre questo effetto. La trasgressione delle norme comunitarie sulla concorrenza sono considerate commesse intenzionalmente e in ispregio alle disposizioni del trattato se l’interessato è conscio che l’atto di cui trattasi ha ad oggetto la restrizione della concorrenza. È irrilevante ch’egli sia inoltre conscio di trasgredire una disposizione del Trattato. In proposito, il parere di un legale consultato dall’interessato non può scagionare quest’ultimo”.
 
Dal carattere alternativo della condizione deriva che, in presenza di effetti restrittivi, il divieto è applicabile indipendentemente dal fatto che essi fossero, o meno prevedibili e che le parti li abbiano deliberatamente perseguiti in spregio alle norme sulla concorrenza o abbiano invece agito solo in maniera negligente. È sufficiente che gli effetti possano essere considerati come una “naturale” o “probabile” conseguenza dell’intesa, ad esclusione degli effetti meramente secondari o che – secondo normali criteri di valutazione – devono essere considerati come del tutto imprevedibili. Nel caso ormai celebre dell’Intesa internazionale del Chinino (caso Chemiefarma, Buchler e Boehringer Mannheim GmbH/Commissione), i ricorrenti sostenevano che, a causa della penuria di materie prime, la ripartizione dei mercati nazionali, che era stata condannata dalla Commissione, non esercitava alcun influsso sulla concorrenza del Mercato comune.
 
La Corte, in un punto della specifica sentenza ACF Chemiefarma NV/Commissione ha respinto tale argomentazione facendo valere tra l’altro, che “una situazione del genere non è in grado di legittimare una intesa che ha per oggetto la restrizione della concorrenza nel mercato comune e che pregiudica gli scambi fra gli Stati”. La divisione dei mercati aveva “lo scopo di restringere la concorrenza e il volume degli scambi nel mercato comune”. “Se l’Intesa ha potuto avere in pratica, quando si è manifestata la minaccia di penuria di materie prime, ripercussioni meno importanti sulla concorrenza e sul commercio internazionale che non in un periodo normale, ciò non toglie che i partecipanti non avevano posto fine a tale ripartizione”.
 
Si evince, dunque, da tali sentenze che esiste una certa priorità della nozione di “oggetto” in rapporto a quella di “effetto”. È soltanto quando la prova dell’oggetto restrittivo non può essere fornita, che sarà opportuno esaminare se l’accordo ha per effetto di restringere la concorrenza. Da un confronto dei testi nelle quattro lingue ufficiali originarie della Comunità (specialmente il tedesco bezwecken e l’olandese ertoe strekken), il termine “oggetto” deve essere preso nel significato di “obiettivo” o di “scopo” e non di “contenuto”. In un caso[4] la Corte ha tuttavia ritenuto che, quando un accordo è considerato con riferimento al suo oggetto, la constatazione del suo carattere restrittivo deve risultare “da tutto l’accordo o da qualche clausola di esso”. Anche se le clausole dell’accordo non permettono di constatare l’esistenza di una restrizione alla concorrenza, l’accordo può essere vietato non solo a causa del suo effetto, ma anche per avere un oggetto anticoncorrenziale, quando appare che l’intenzione delle parti, così come si manifesta specialmente nella locuzione che gli viene data, è di restringere la concorrenza. La suddetta sentenza riconosce d’altronde che l’oggetto dell’accordo deve essere considerato “tenendo conto del contesto economico nel quale esso deve essere applicato”; ciò sembra escludere che venga preso in considerazione solo il contenuto delle clausole. In tal modo l’esame del contesto economico può rivelare un accordo secondo i suoi termini (clausole espresse) che è apparentemente inoffensivo, ma in realtà ha per scopo di realizzare una restrizione della concorrenza. Quando una clausola persegue diversi obiettivi, alcuni leciti ed altri partecipi un disegno di restrizione concorrenziale, la Commissione e la Corte prendono in considerazione gli obiettivi restrittivi, a meno che questi non appaiono unicamente secondari.
 
Allorché sia possibile stabilire che un accordo ha un oggetto anticoncorrenziale, nel senso sopra precisato, lo stesso può tuttavia essere vietato se ha per effetto di restringere la concorrenza. Il criterio dell’effetto è così chiamato a giocare un ruolo importante sul terreno probatorio. Un’intesa di cui viene provato che non persegue un oggetto anticoncorrenziale, sarà nondimeno condannabile se i suoi effetti sono restrittivi? Può sembrare ingiusto far sopportare alle parti le conseguenze di effetti che non hanno ragionevolmente potuto prevedere. Ecco perché certi autori affermano che per essere vietato a causa dei suoi effetti, un accordo deve apparire come la causa adeguata della restrizione della concorrenza, in altri termini, esso deve rivelare una “tendenza” a restringere la concorrenza. Va evidenziato che questa “tendenza” a restringere la concorrenza deve essere valutata oggettivamente. Non è necessario che le parti abbiano avuto come obiettivo la restrizione della concorrenza, perché allora l’accordo sarebbe vietato a causa del suo oggetto. Nemmeno è necessario che esse abbiano previsto gli effetti restrittivi, e neppure che esse avessero dovuto normalmente prevederli: anche in tutte queste ipotesi l’accordo è già vietato per avere un oggetto anticoncorrenziale e non è necessario ricorrere alla nozione di “effetto”.
 
È dunque sufficiente che l’accordo sia oggettivamente tale da restringere la concorrenza, anche se questa conseguenza non sia stata percepita dalle parti. Non è necessario che l’accordo sia l’unica causa della restrizione della concorrenza, questa può altresì risultare dalla combinazione dell’accordo con le disposizioni del diritto nazionale[5]. Deve tuttavia esistere un rapporto eziologico tra l’accordo e l’effetto restrittivo. Se la restrizione discende dalla sola applicazione della legge nazionale, senza che l’accordo vi intervenga in alcun modo, l’art. 81 Trattato UE sarà inapplicabile[6]. Viceversa, se l’accordo produce di per se stesso degli effetti anticoncorrenziali, non è necessario esaminare se anche altre circostanze concorrono a questo risultato, in considerazione della quota di mercato estremamente importante posseduta dalla cooperativa e dell’effetto preclusivo quasi totale che ne risultava.
 
Dott. Domenico Annunziato Modaffari


[1] Sentenza Société Technique Minière del 30 giugno 1966
[2] Grundig del 13 luglio 1966
[3] Sentt. IAZ Internazional Belgium e altri/Commissione dell’8 novembre 1983; Hasselblad (GB) Limited/Commissione del 21 febbraio 1984; Verband der Deutschen Sachversicherer/Commissione del 27 gennaio 1987
[4] Société Technique Minière del 30 giugno 1966
[5] Sentenza Béguelin, del 25 novembre 1971
[6] sentenza dell’11 luglio 1974 Benoît e Gustave Dassonville; sentenza Hydrotherm del 12 luglio 1984

Modaffari Domenico Annunziato

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento