Diniego del porto d’armi: tra discrezionalità amministrativa e obbligo motivazionale rinforzato

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Con la sentenza in commento, il TAR Campania – Napoli, sez. V, 4 febbraio 2019, n. 569 ha statuito che: “L’Amministrazione procedente, nel negare il rilascio del porto d’armi, non può limitarsi ad addurre il solo fatto che il richiedente si è accompagnato a pregiudicati ovvero è legato ad alcuno di essi da rapporto di parentela o di affinità, dovendo sempre in concreto valutare l’incidenza di tali circostanze in ordine al giudizio di affidabilità e probabilità di abuso delle armi”.

Se pur vero che, l’art. 43, del Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza (T.U.L.P.S.), Regio Decreto 18 giugno 1931, n. 773 consente alla competente autorità – in sede di rilascio o di ritiro dei titoli abilitativi – di valutare non solo se vi sia una capacità di abuso, ma anche in alternativa l’assenza di una buona condotta per la commissione di fatti, pure estranei alla gestione delle armi, munizioni e materie esplodenti, ma che comunque non rendano meritevoli di ottenere o di mantenere la licenza di polizia.

A tal proposito, vi è da dire, però, che la valutazione in ordine all’affidabilità del soggetto circa l’abuso delle armi, costituisce espressione di discrezionalità amministrativa, non sindacabile in via generale dal giudice della legittimità, salvo che in ipotesi di eccesso di potere, nelle sue varie forme sintomatiche, quali la manifesta illogicità, la manifesta irragionevolezza, l’evidente sproporzionalità e il travisamento dei fatti.

Tuttavia, il TAR Campano, nel riprendere precedenti giurisprudenziali, ha precisato che: “la valutazione di segno negativo in ordine al possesso di detto requisito deve, in ogni caso, collegarsi a fatti e circostanze che per la loro gravità, la reiterazione nel tempo, l’idoneità a coinvolgere l’intera vita familiare, sociale e di relazione dell’interessato vengano a incidere su un piano di effettività sul grado di moralità e sull’assenza di mende ordinariamente esigibili per potere aspirare la rilascio della licenza di polizia”.

La discrezionalità amministrativa contemperata dall’obbligo motivazionale rinforzato

Appare evidente, quindi, come trova sempre più spazio nella giurisprudenza amministrativa il principio secondo il quale è illegittimo, per difetto di motivazione, il provvedimento di diniego o di revoca del porto d’armi nel caso in cui non sia stata addotta una specifica valutazione dalla quale emerga che l’interessato, in plurime circostanze dettagliatamente individuate e vagliate dalle forze di polizia, non abbia dimostrato di essere affidabile circa il corretto uso delle armi e che, quindi, sia da ritenere persona capace di abusare delle medesime sotto il profilo delle norme che disciplinano la liceità della loro detenzione.

Dunque, il solo legame parentale, o la mera frequentazione occasionale, non sono circostanze sufficienti a fondare la revoca o il diniego di autorizzazione di polizia, ma si necessità, altresì, la sussistenza di una serie di elementi sintomatici (presupposti indefettibili) dai quali è possibile ritenere, inequivocabilmente, il venir meno dell’affidabilità in capo al soggetto destinatario circa l’abuso delle armi, anche con riferimento alle modalità della loro custodia e conservazione.

Ai fini della revoca o diniego di un’autorizzazione di polizia, l’Amministrazione deve esprimere una motivazione adeguata e dettagliatamente circostanziata, dovendo ritenersi insufficiente il mero richiamo al singolo fatto contestato dalle forze di polizia in occasione degli accertamenti svolti.

Ed è proprio attraverso la motivazione del provvedimento amministrativo che i soggetti amministrati hanno la possibilità di accertare e verificare che l’esercizio del potere posto in essere dalla Pubblica Amministrazione sia conforme ai principi di correttezza, imparzialità e buon andamento consolidati e sanciti nell’art. 97 della Costituzione.

Difatti, con l’art. 3 della legge 241/1990, che disciplina il Procedimento Amministrativo, il legislatore ha imposto alla Pubblica Amministrazione l’obbligo di motivare ogni provvedimento amministrativo e di specificare l’iter seguito nel provvedere in quel dato modo, evidenziando quale interesse debba prevalere e, conseguentemente, quale debba soccombere, nonché di specificare i criteri utilizzati per procedere al suddetto bilanciamento tra interesse pubblico ed interesse privato, il tutto attenendosi alle risultanze di una congrua istruttoria.

Più segnatamente, con il comma 1 del citato articolo, si richiede che la motivazione contenga un altro elemento essenziale, ovvero che “la motivazione debba indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria”.

Anche secondo la giurisprudenza più accreditata, il rispetto nel provvedimento amministrativo dell’obbligo di motivazione di cui all’art. 3, l 7 agosto 1990 n. 241 va valutato in coerenza con la funzione che esso riveste, consistente nell’imporre all’Amministrazione di esternare il percorso logico-giuridico seguito nell’emanazione dell’atto finale che essa svolge e di rendere possibile il controllo esterno circa il corretto esercizio della discrezionalità amministrativa (in motivazione: Consiglio di Stato sez. V, 25 maggio 2017, n. 2457; Consiglio di Stato, sez. III, 23 novembre 2015, nn. 5311 e 5312; Id.: Consiglio di Stato, sez. IV, 21 aprile 2015, n. 2011; Consiglio di Stato, sez. V, 24 novembre 2016, n. 4959; Consiglio di Stato, 23 settembre 2015, n. 4443; Consiglio di Stato, sez. VI, 6 dicembre 2016, n. 5150).

Quindi, l’ampia discrezionalità riconosciuta all’amministrazione deve essere contemperata da un obbligo di motivazione rinforzato, come ampliato e rinforzato dal D.Lgs 33/2013 che, tra l’altro, impone alla Pubblica Amministrazione un vero e proprio dovere di informazione nei rapporti con il cittadino, soprattutto quando l’interessato abbia goduto per anni del porto d’armi, senza abusarne e senza che sussistano indizi che la sua condotta sia mutata in peggio.

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La necessità di una motivazione rinforzata da elementi fattuali adeguatamente circostanziati

Ne consegue, dunque, che sia l’aspetto SOGGETTIVO (eventuali pendenze giudiziarie, precedenti penali, l’elemento psicologico) che l’aspetto OGGETTIVO (Condizioni di ordine pubblico) devono trovare un puntuale riscontro nella motivazione del provvedimento soprattutto con riferimento al requisito dell’attualità e concretezza.

Dalla breve ricostruzione normativa e giurisprudenziale fino a qui svolta è possibile ritenere che, il potere attribuito all’Autorità amministrativa in ordine al rilascio/rinnovo o revoca del porto d’armi, ancorché connotato da ampia discrezionalità, deve basarsi su presupposti effettivi ed attuali, nonché su concrete ragioni che possano fondare il giudizio di inaffidabilità.

Infatti, è onere dell’Amministrazione motivare specificatamente i fatti che si ritengono espressivi della pericolosità della persona, tenendo conto di una pluralità di elementi significativi da cui desumere una prognosi, che tenga conto, altresì, della condotta e dell’elemento psicologico.

Anche tale prognosi, ovviamente, deve assumere i requisiti di attualità e concretezza.

Dunque, l’esistenza di un potere discrezionale nella formulazione di siffatta prognosi non esime l’Autorità emanante dal dovere di esternare le ragioni del giudizio negativo con sufficiente coerenza e consequenzialità logica, mediante motivazione circa la sussistenza e la rilevanza dei presupposti di fatto di tale valutazione in modo che appaiano adeguate e conseguenti le conclusioni assunte.

Da ciò ne deriva inequivocabilmente che, in assenza di precisi elementi fattuali dettagliatamente circostanziati e costituenti motivazione esplicita del provvedimento negativo, da cui desumere una prognosi d’inaffidabilità, non è possibile ritenere con precisa contezza l’inaffidabilità all’uso delle armi o alla loro custodia.

Sentenza collegata

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Avv. Passafaro Andrea

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