Diritti sociali e risorse finanziarie: la giurisprudenza della Corte Costituzionale

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I diritti finanziariamente condizionati

Rispetto al contemperamento tra garanzia dei diritti sociali e risorse finanziarie, si evidenzia che le pronunce recenti della Corte Costituzionale, in merito ad interventi regressivi da parte del legislatore di riduzione dei livelli di tutela dei diritti sociali per ragioni di contenimento della spesa pubblica, rivelano una sostanziale continuità con le decisioni assunte dalla Consulta a partire dagli anni ’90, in corrispondenza della fase iniziale di costruzione dell’unione Economica Monetaria(1).

Terminati i famosi Trenta Gloriosi, i primi trent’anni del secondo dopoguerra che avevano registrato una straordinaria crescita economica e con essa l’espansione dei diritti sociali, a partire dagli anni ‘90 in particolare, rispetto alle misure di riduzione dei diritti di prestazione, la Corte Costituzionale ha mostrato un atteggiamento di cautela, con il riconoscimento di un’ampia discrezionalità del legislatore, ponendo due limiti, quello della “ragionevolezza” e quello della salvaguardia del “nucleo essenziale” dei diritti costituzionalmente tutelati. Se in precedenza il Giudice delle leggi si preoccupava di estendere le tutele anche con sentenze “costose”, a partire da quegli anni si è affermata e consolidata la concezione che i diritti sociali di prestazione sono diritti “finanziariamente condizionati”. Risulta, pertanto, giustificabile una loro attuazione limitata e graduale in relazione alle risorse disponibili ed anche una loro riduzione in situazioni di difficoltà finanziarie.

La pronuncia che fa da spartiacque è la sentenza costituzionale n.455/1990. In essa si afferma che “considerato come diritto ad ottenere trattamenti sanitari, il diritto alla salute è basato su norme costituzionali di carattere programmatico e condizionato all’attuazione che ne dà il legislatore ordinario: attuazione, costituzionalmente obbligatoria, da realizzare gradualmente attraverso il ragionevole bilanciamento – sindacabile dalla Corte Costituzionale – con altri interessi o beni assistiti da pari tutela costituzionale nonché con l’obiettiva disponibilità di risorse organizzative e finanziarie”.

Nella sentenza costituzionale n. 304/1994, sempre in tema di diritto alla salute, la Corte pur ribadendone il carattere di diritto “finanziariamente condizionato”, precisa tuttavia che “nel bilanciamento dei valori costituzionali che il legislatore deve compiere al fine di dare attuazione al diritto ai trattamenti sanitari, le esigenze relative all’equilibrio della finanza pubblica non possono assumere un peso assolutamente preponderante, tale da comprimere il nucleo essenziale del diritto alla salute connesso all’inviolabile dignità della persona umana, costituendo altrimenti esercizio macroscopicamente irragionevole della discrezionalità legislativa.”

Come opportunamente osservato, il concetto di “nucleo essenziale” dei diritti risulta essere un concetto “sfuggente”, “inafferrabile”, di cui la Corte, di volta in volta, caso per caso individua il contenuto e il limite di invalicabilità(2). Va segnalato che se questa tendenza si è sostanzialmente consolidata nel tempo, tuttavia, nell’ambito relativo ai diritti degli immigrati, si è registrato un maggior controllo sulla discrezionalità delle scelte del legislatore andando oltre il criterio della compressione del nucleo essenziale del diritto. Può menzionarsi qui, mettendone in rilievo il carattere inclusivo ed antidiscriminatorio, la sentenza n. 432/2005, in cui la Corte ha esteso un beneficio sociale (la circolazione gratuita nel servizio di trasporto pubblico di linea agli invalidi civili) che era stato riservato, da una legge della Regione Lombardia, solo a coloro che fossero in possesso della cittadinanza italiana e della residenza. La Consulta ha affermato che benché si trattasse di un regime di favore, eccedente i limiti dell’essenziale, sia sul versante del diritto alla salute che su quello delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali da garantirsi su tutto il territorio nazionale, ciò non escludeva il fatto che l’individuazione delle categorie di beneficiari, da circoscrivere a causa della limitatezza delle risorse finanziarie, non dovesse avvenire comunque nel rispetto del principio di ragionevolezza, poiché si potevano consentire regimi differenziati soltanto in presenza di una causa normativa non palesemente irrazionale o peggio arbitraria(3).

Tornando in ambito più generale, nella sua giurisprudenza la Corte ha consolidato il ricorso ai criteri di ragionevolezza, di temporaneità, di disparità ingiustificate di trattamento. In seguito alla crisi economica e al suo prolungarsi, di fronte alle nuove regole della governance economica della Unione Europea e all’introduzione in Costituzione del principio dell’equilibrio di bilancio, la Consulta ha giustificato misure riduttive dei diritti per un arco temporale più lungo di quello considerato ragionevole, in passato anche in relazione alla durata pluriennale dei cicli di bilancio(4).

Gli effetti sui conti pubblici delle sentenze di accoglimento

Tuttavia, il Giudice delle leggi non si è mosso in modo univoco, anche nel corso dello stesso anno. Infatti, in alcuni casi ha escluso l’efficacia retroattiva delle sue pronunce di accoglimento per limitarne l’impatto sull’equilibrio di bilancio e rispettare i vincoli europei come nelle sentenze n. 10/2015 e n. 178/2015. In altri casi non è sembrata preoccuparsi delle conseguenze sui conti pubblici dell’efficacia retroattiva delle sue decisioni di accoglimento(5).

La sentenza n.10/ 2015 riguardava una disposizione del decreto legge n. 112/2008 che aveva stabilito un prelievo aggiuntivo per le imprese operanti nel settore energetico e degli idrocarburi. Tale differenziazione tributaria era stata ritenuta dalla Corte ingiustificata ed arbitraria. Ma ciò che qui più interessa è che, pur giudicando la disposizione incostituzionale, la Corte aveva affermato che non poteva essere applicato il principio di rimozione con effetto retroattivo della norma illegittima per evitarne le gravose conseguenze sui conti pubblici. Nella pronuncia si statuisce, infatti, che la dichiarazione di illegittimità costituzionale decorrerà “dal giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale al fine di evitare che l’impatto macroeconomico delle restituzioni dei versamenti tributari determini uno squilibrio del bilancio dello Stato tale da implicare una manovra finanziaria aggiuntiva, anche per non venire meno al rispetto dei parametri cui l’Italia si è obbligata in sede di Unione Europea ed internazionale ed in particolare delle previsioni annuali e pluriennali indicate nelle leggi di stabilità”(6).

La sentenza n. 178/2015 era relativa alle disposizioni del decreto legge n. 78/2010 che prevedevano il blocco di ogni incremento dei trattamenti economici dei pubblici dipendenti per tre anni (2011-2013), poi esteso da altre norme fino al 2015, nonché la sospensione della contrattazione nel pubblico impiego per il triennio 2010-2012. Nella pronuncia, da una parte la Corte ha riconosciuto la ragionevolezza delle misure, divenute più stringenti in seguito all’introduzione dell’obbligo di equilibrio di bilancio, sia in relazione alla gravità della situazione economica e finanziaria che all’esigenza programmatica di governare una voce rilevante della spesa pubblica. Dall’altra, ha invece ritenuto illegittimo per il futuro, per violazione della libertà sindacale, sancita dall’art. 39 della Costituzione, il regime di sospensione della contrattazione, escludendo però l’efficacia retroattiva della decisione per evitarne le conseguenze sulla finanze pubbliche(7).

Diversamente, nella sentenza di accoglimento n. 70/2015, sul blocco della rivalutazione delle pensioni, si è registrata una reazione della Corte alla compressione del diritto, nonostante l’impatto sui conti pubblici. Nella pronuncia in esame, il Giudice delle leggi afferma che la perequazione automatica dei trattamenti pensionistici è uno strumento tecnico che mira a garantire nel tempo il rispetto del criterio di adeguatezza delle pensioni all’esigenza di vita, previsto dall’art. 38 della Costituzione, criterio connesso strettamente al principio di sufficienza della retribuzione, sancito dall’art. 36, ribadendo l’orientamento consolidato secondo cui il trattamento di quiescenza va considerato come retribuzione differita. Il giudizio inoltre non si limita a valutare il rispetto del criterio di ragionevolezza ma si sposta anche sulla lesione dei principi fondamentali dell’uguaglianza sostanziale e della solidarietà di cui all’art. 3 comma 2 e all’art. 2 della Costituzione, in assenza di motivazione del sacrificio richiesto ai pensionati in nome di esigenze finanziarie non tecnicamente documentate.

Tuttavia due anni dopo, nella sentenza n. 250 del 2017, rispetto al decreto legge n. 65/2015 di attuazione della sentenza di cui sopra, la Consulta muta registro, riconoscendo la discrezionalità del legislatore a stabilire la gradualità nella restituzione delle somme e la soglia oltre la quale la restituzione non avrà luogo, ritenendo non irragionevole il bilanciamento tra l’interesse dei pensionati a preservare il potere di acquisto della pensione e le esigenze di risparmio di spesa e di equilibrio di bilancio dello Stato. La Corte ritiene che le disposizioni del D.L., inserite nel quadro delle regole nazionali ed europee, questa volta sono illustrate nel dettaglio e prevedono un sacrificio parziale e temporaneo dell’interesse dei pensionati a tutelare il potere d’acquisto del loro trattamento di quiescenza. Per la Corte, l’osservanza dei principi di adeguatezza e proporzionalità dei trattamenti pensionistici trova conferma nella scelta non irragionevole di riconoscere la perequazione in misure percentuali decrescenti all’aumentare dell’importo complessivo del trattamento pensionistico, sino ad escludere i trattamenti superiori a sei volte il minimo INPS, salvaguardando così i percettori di trattamenti più modesti. Secondo la Consulta, l’individuazione di un equilibrio fra i valori coinvolti determina la non irragionevolezza delle disposizioni di cui sopra.

Il pendolo sembra spostarsi nuovamente in direzione opposta in una sentenza in cui compare una concezione del bilancio che è stato definita in dottrina “costituzionalmente orientata”. Si fa qui riferimento alla nota pronuncia della Corte n. 275/2016 in tema di diritto all’istruzione di persone con disabilità. In essa viene dichiarata illegittima, per violazione dell’art. 38, terzo e quarto comma, della Costituzione, una disposizione della legge n. 78/1978 della Regione Abruzzo, poiché, condizionando “a generiche ed indefinite previsioni di bilancio il finanziamento da parte della Regione del 50% delle spese per il trasporto degli studenti disabili sostenuti dalle province, lede il fondamentale diritto all’istruzione del disabile.” Tale disposizione infatti comporta che “la fruizione del servizio di assistenza e trasporto dello studente disabile – ascrivibile al nucleo indefettibile di garanzie per l’effettività del medesimo diritto – viene a dipendere da scelte finanziarie che la Regione può compiere con semplici operazioni numeriche, senza alcun onere di motivazione in ordine alla scala di valori che con le risorse di bilancio si intende sorreggere.” Secondo il Giudice delle leggi “la conseguente aleatorietà ed incertezza del contributo regionale…. Consente alla Regione di destinare con legge di bilancio le risorse disponibili a spese facoltative piuttosto che a servizi diretti ad attuare diritti meritevoli di particolare tutela.”

Si afferma, infine, che la previsione non trova giustificazione nel rispetto dell’obbligo di copertura finanziaria del contributo regionale di cui all’art. 81 della Costituzione, poiché il concetto di equilibrio di bilancio va correttamente inteso nel senso che “è la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio e non l’equilibrio di questo a condizionare la doverosa erogazione delle prestazioni per realizzarlo”.

La sentenza in esame è stata ampiamente commentata dalla dottrina. In particolare se ne sono valutate le argomentazioni, ritenute a volte poco rigorose o apodittiche, improntate tuttavia ad un’opera di bilanciamento dei valori costituzionali, in cui la Corte conferma che la tutela del nucleo inviolabile dei diritti fondamentali prevale sulle esigenze finanziarie. Il principio posto dalla Consulta non configurerebbe un conflitto tra esigenze di bilancio e diritti, né una equiparazione immediata tra tutela dei diritti ed aumento della spesa o del debito bensì l’idea che all’interno di “un budget dato” l’allocazione delle risorse deve essere realizzata dando priorità al nucleo inviolabile dei diritti fondamentali(8).

Solidarietà e politiche redistributive come limite alle esigenze di bilancio

Resta aperta la questione del carattere sfuggente del “nucleo essenziale” o “incomprimibile” dei diritti e del fatto che la valutazione di “cosa” sia essenziale e non sacrificabile sia attribuita alla stessa Corte Costituzionale.

In conclusione, sembra che la Corte nei giudizi relativi al bilanciamento tra tutela dei diritti fondamentali “che costano” e le esigenze di equilibrio del bilancio non riesca a mantenere diritta la barra. Queste differenze di orientamento da parte della Corte, improntate sostanzialmente ad un principio di prudenza, potrebbero trovare una spiegazione in relazione al diverso oggetto del giudizio e al diverso impatto che l’accoglimento, specialmente se con effetti retroattivi, potrebbe avere sui conti pubblici. O forse, come è stato autorevolmente osservato(9), i tribunali costituzionali dei Paesi più avanzati, posti di fronte alla grande questione dei diritti sociali, si trovano oggettivamente in una posizione molto difficile, “scomoda”, connessa sia alle singole contingenze del momento che alla situazione più generale di “un mondo in tumultuosa trasformazione”, in cui si confrontano “due prospettive opposte della costruzione e del mantenimento delle comunità politiche”.

In estrema sintesi, si tratta dell’alternativa, non sul piano teorico ma concreto, tra mercato e welfare, tra una integrazione sociale che “passa dalla fornitura di prestazioni solidaristiche e dall’equilibrio di diritti e doveri, oppure dalla competizione e dal mercato” toccando il rapporto tra ricchezza e povertà e quello delle politiche economiche e della distribuzione della ricchezza. Si evidenziano i paradigmi che la nostra Corte Costituzionale ha l’obbligo di applicare: non solo il principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 della Costituzione, ma il complessivo disegno costituzionale che statuisce il nesso tra libertà e uguaglianza, principi entrambi imprescindibili per un buon funzionamento della democrazia. Si sottolinea che se il modo di produzione prefigurato dai Costituenti è di tipo capitalistico, tuttavia il principio di uguaglianza sostanziale, il lavoro come fondamento della Repubblica, il lungo elenco dei diritti sociali dimostrano che l’integrazione sociale per la nostra Carta costituzionale, che proclama falsa l’alternativa tra mercato e stato sociale, passa attraverso politiche redistributive della ricchezza e che non è tollerabile un eccesso di disuguaglianza(10).

Nel richiamare le tecniche decisorie utilizzate dalla Corte, quali, tra altre, principio di gradualità, considerazione dei costi e il loro accertamento, regolazione degli effetti temporanei delle pronunce di accoglimento, si ribadisce che la tecnica del bilanciamento deve avere luogo tra “entità omogenee”, cioè tra diritti e diritti e non direttamente tra diritti sociali ed esigenze di bilancio. Qualora ciò non fosse possibile, il bilanciamento dovrebbe essere comunque “ineguale”, cioè l’efficienza economica dovrebbe cedere rispetto ai diritti anche se nei limiti dei principi di proporzionalità e non eccessività.

La teoria del “bilanciamento ineguale” manterrebbe intatta la sua validità anche dopo la riforma dell’art. 81 della Costituzione poiché l’equilibrio di bilancio, cosa diversa dal pareggio, consentendo politiche anticicliche, permetterebbe “il sostegno delle situazioni sociali più deboli proprie nelle fasi più basse del ciclo”(11).

NOTE

(1) P. MASALA, Crisi della democrazia parlamentare e regresso dello stato sociale: note sul caso italiano nel contesto europeo, in Rivista AIC n.4/2016 p. 17 e ss.
(2) C. SALAZAR, Crisi economica e diritti fondamentali – Relazione al XXVIII convegno annuale dell’AIC., in Rivista AIC, n. 4 /2013 p. 10.
(3) Sulla stessa linea argomentativa la sentenza cost. più recente n. 172/2013 sulla legge della Provincia Autonoma di Trento in merito ad un assegno di cura a tutela delle persone non autosufficienti e delle loro famiglie che escludeva gli stranieri privi di carta CE di lungo soggiorno e che non fossero residenti nella provincia da almeno tre anni.
(4) P. MASALA, Crisi della democrazia parlamentare, cit. pp. 17 – 18.
(5) Come nella sentenza n. 70/2015, di cui si dirà più avanti nel testo, sul blocco della rivalutazione delle pensioni.
(6) I. CIOLLI, L’art. 81 della Costituzione: da limite esterno al bilanciamento a super principio, in Forum dei Quaderni costituzionali, 26 maggio 2015, la quale ritiene che “mai fino ad ora il rispetto dell’equilibrio di bilancio era stato considerato un principio costituzionale capace di prevalere in modo assoluto su altre norme di valore costituzionale come quelle che disciplinano il funzionamento stesso della corte”.
(7) Per la Corte, il blocco di ogni aumento economico non risulta un sacrificio irragionevole né sproporzionato del diritto, di cui all’art. 36 della Costituzione, di una retribuzione commisurata al lavoro svolto. E’ invece ritenuto illegittimo per il futuro il regime di sospensione della contrattazione, poiché con il susseguirsi delle disposizioni di legge il blocco si è esteso fino al 2015, rivelando un carattere strutturale e sistematico che viola la libertà sindacale. Per la Corte è quindi irragionevole il bilanciamento tra la libertà sindacale e le esigenze di una razionale distribuzione delle risorse e del controllo della spesa pubblica.
(8) Così, A. LONGO, Una concezione del bilancio costituzionalmente orientata: prime riflessioni sulla sentenza della Corte costituzionale n. 275 del 2016, in Federalismi.it, n.10/2017. Cfr. anche F. PALLANTE, Dai vincoli “di” bilancio ai vincoli “al” bilancio, in Giurisprudenza Costituzionale, Anno LXI, Fasc.6-2016, Milano, pp. 2507 – 2508, che, tra l’altro, evidenzia l’imprecisione del linguaggio della Corte che fa riferimento a “diritti incomprimibili”. L’A. ritiene che probabilmente tale espressione sarebbe da intendere come “nucleo incomprimibile dei diritti”. PALLANTE afferma, inoltre, che dalla sentenza sembrerebbe ricavarsi la distinzione tra spese obbligatorie e spese facoltative. Le prime non sarebbero assoggettabili al vincolo delle risorse disponibili poiché destinate a coprire i costi delle attività essenziali all’attuazione del nucleo incomprimibile dei diritti fondamentali. Le seconde, non essendo rivolte a tale finalità, sarebbero invece soggette al vincolo delle risorse disponibili secondo la discrezionalità del legislatore.
(9) M. LUCIANI, Diritti sociali e livelli essenziali delle prestazioni pubbliche nei sessant’anni della Corte Costituzionale, Rivista AIC, n. 3/2016.
(10) M. LUCIANI, Diritti sociali e livelli essenziali delle prestazioni pubbliche, cit., pp. 1-9.
(11) M. LUCIANI, Diritti sociali e livelli essenziali delle prestazioni pubbliche, cit., p. 13; la teoria del “bilanciamento ineguale” è stata formulata dallo stesso Autore in Sui diritti sociali, in Studi Mazziotti, Padova, Cedam, 1995, II, 127.

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Dott.ssa Maria Cristina Paoletti

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