1. La natura degli impianti fotovoltaici. Beni mobili o immobili?
La realizzazione di impianti fotovoltaici, ormai diventati parte integrante del nostro territorio, ha determinato l’emersione di una lunga serie di problematiche giuridiche, sia sotto il profilo civilistico che tributario, delle quali si cercherà di dare almeno parzialmente conto in questa breve trattazione.
Preliminare ad ogni disamina è la valutazione circa la natura di beni mobili o immobili degli impianti fotovoltaici, che determina importanti conseguenze sotto una pluralità di profili, come si vedrà nel prosieguo.
L’analisi della materia non può che prendere le mosse, quindi, dalla legislazione codicistica, ed in particolar modo dal disposto dell’art. 812 c.c., laddove il legislatore, nel definire i beni immobili, accanto a beni “necessariamente” tali (suolo, sorgenti, corsi d’acqua, ecc…), ha individuato una ulteriore categoria di beni immobili, che si caratterizzano per essere funzionalmente incorporati al suolo (mulini, edifici galleggianti).
Questi ultimi, in accordo alla previsione legislativa, sono “reputati” beni immobili, proprio a voler evidenziare come sia proprio l’esistenza di un collegamento con il suolo e la consequenziale destinazione permanente durante la loro utilizzazione a determinarne la natura di bene immobile.
Più in generale dovrà rientrare in tale categoria, ai sensi del comma 1 dell’art. 812 c.c., “tutto ciò che naturalmente o artificialmente è incorporato al suolo”.
Pertanto, spetterà al singolo interprete valutare tale profilo e ritenere prevalente o meno il discrimen del collegamento funzionale del bene al suolo o ad altro immobile.
La giurisprudenza ha accolto una pluralità di indici atti a permettere all’interprete tale classificazione: a volte ha ritenuto dirimente (soprattutto in passato) il carattere temporaneo dell’installazione, ovvero la sua trasportabilità, oppure, ancora, il carattere di solidità dell’incorporazione del bene al suolo.[1]
Ad ogni buon conto la tesi ormai dominante, sia in dottrina che in giurisprudenza, pone in risalto come l’elemento discriminante sia da individuarsi nella funzionalità del bene all’interno del particolare contesto spaziale in cui si situa, prescindendo dall’astratta mobilità dello stesso.
Su tale linea interpretativa si è attestata Cass. Trib. n. 16824 del 2006 la quale, anche alla luce della norma di interpretazione autentica prevista dal legislatore in materia di centrali elettriche (l. n. 88 del 2005), ha evidenziato come indice rilevante della distinzione tra mobile e immobile sia l’impossibilità di separare le parti del tutto senza la sostanziale alterazione del bene complesso, valorizzando gli indici legislativi della “connessione strutturale” e della “funzionalità della connessione”.
Ad oggi non vi sono, pertanto, dubbi sulla circostanza che un pannello fotovoltaico, unito seppur temporaneamente ad una base ancorata al suolo, non possa che assumere la qualità di bene immobile proprio per il predetto legame funzionale che si instaura tra pannello, struttura e suolo.
A tale conclusione l’Amministrazione dello Stato è arrivata dopo alterne vicende (e circolari) che hanno visto in contrapposizione l’Agenzia del Territorio e l’Agenzia delle Entrate.
In particolare la prima, fin dalla Risoluzione n. 3/T del 2008, ha accolto la tesi della natura immobiliare dell’impianto fotovoltaico, con una assimilazione dello stesso alle turbine delle centrali elettriche.
Al contrario, almeno inizialmente, l’Agenzia delle Entrate, con una pluralità di circolari (n. 46/E del 2007; n. 38/E del 2008; n. 38/E del 2010), ha avallato la tesi del carattere mobiliare dell’impianto fotovoltaico, in considerazione, soprattutto, della possibilità di rimozione dei pannelli.
Tuttavia, in seguito, a partire dalla Circolare n. 12/E del 2011, la posizione dell’Agenzia delle Entrate si è avvicinata a quella dell’Agenzia del Territorio e della giurisprudenza dominante, fino al recente intervento del dicembre 2013 che sarà oggetto di separata analisi nel prosieguo.
2. Diritto di superficie o locazione quali strumenti per l’acquisizione di aree destinate a impianti fotovoltaici.
La questione circa la natura mobiliare o immobiliare degli impianti fotovoltaici risulta di particolare rilevanza poiché determina delle conseguenze rilevanti per ciò che concerne i possibili strumenti contrattuali utilizzabili per l’acquisizione delle aree destinate a fotovoltaico, con effetti fiscali di grande rilievo che si producono a cascata.
Procediamo, tuttavia, con ordine.
Dalla accennata qualificazione degli impianti fotovoltaici quali beni immobili deriva indubitabilmente la ammissibilità della scelta di costituire un diritto reale di superficie per acquisire la disponibilità di aree da adibire alla produzione energetica con pannelli.
Ciò in quanto l’art. 952 c.c. prevede la possibilità di scindere la proprietà del fondo (c.d. nuda proprietà) e la c.d proprietà superficiaria, separata da quella del suolo, sia in relazione a costruzioni già esistenti che da edificare (concessione ad edificandum). [2]
Proprio il carattere di diritto reale della superficie, con i suoi tratti di assolutezza, immediatezza ed inerenza, fa sì che essa rappresenti la scelta contrattuale più adatta a garantire un investimento oneroso ed a lungo termine come la realizzazione di impianti fotovoltaici.
Tale circostanza non viene meno in ragione della apparente distonia tra il disposto dell’art. 953 c.c., che prevede alla scadenza del diritto l’acquisizione dell’immobile da parte del proprietario del suolo, e la previsione dell’art. 12, comma 4, del d.lgs, n. 387 del 2003, che determina l’obbligo di ripristino dello stato dei luoghi a seguito della dismissione dell’impianto fotovoltaico.
Ciò in quanto, il nudo proprietario ed il titolare del diritto di superficie, pur non potendo derogare agli effetti di devoluzione della proprietà a favore del concedente (art. 953 c.c.), possono comunque stabilire contrattualmente la rimozione o la demolizione dell’immobile realizzato e, eventualmente, prevedere anche l’eventuale diritto del superficiario sui materiali della costruzione, da qualificarsi quale ius ad rem o mero diritto di credito.[3]
Alternativamente, altri mezzi contrattuali per acquisire la disponibilità di terreni finalizzati alla costruzione di un parco fotovoltaico potranno essere la locazione o, più in generale, altre fattispecie contrattuali atipiche obbligatorie.
Tuttavia, si è sottolineato come tale modalità di acquisizione sia certamente più funzionale al godimento di impianti già esistenti, posto che la utilizzazione di strumenti contrattuali obbligatori per ottenere la disponibilità dei suoli ed il consenso a costruire potrebbe non risultare funzionale a derogare al principio dell’accessione.[4]
Non appare sicuramente congrua, poi, la prospettata possibilità di utilizzare l’istituto della servitù per le finalità sopra descritte, in quanto nella stragrande maggioranza dei casi di costituzione di impianti fotovoltaici sembrerebbe mancare il carattere di inerenza a due diversi fondi che necessariamente caratterizza il diritto reale in questione.[5]
Ad ogni buon conto, al fine di dirimere eventuali contrasti interpretativi circa la natura del rapporto contrattuale in questione (obbligatorio o reale), potrà farsi uso di alcuni indici peculiari, tra i quali vanno annoverati il rapporto tra disponibilità del fondo e godimento delle costruzioni, la tipologia di queste ultime (più o meno stabili), l’attribuzione del semplice godimento del bene ovvero la facoltà di avvalersi dello stesso per l’uso edificatorio.
3. La circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 36/E del 19.12.2013.
a) I profili fiscali connessi al diritto di superficie.
Al fine di chiarire una pluralità di aspetti fiscali connessi al settore del fotovoltaico l’Agenzia delle Entrate, ormai rientrato il citato contrasto interpretativo con l’Agenzia del Territorio, ha emanato la recente circolare n. 36/E del 19.12.2013 per chiarire una pluralità di questioni controverse.
In relazione alla creazione di impianti fotovoltaici con l’utilizzo dello strumento contrattuale del diritto di superficie, l’Amministrazione ha, in particolare, posto l’attenzione sul trattamento fiscale del corrispettivo conseguito a seguito della cessione del diritto di superficie, anche in relazione al periodo intercorrente tra acquisto e vendita del diritto reale.
Infatti, il trattamento fiscale da applicare al corrispettivo derivante dalla cessione del diritto di superficie rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 9, comma 5 del T.U.I.R, il quale stabilisce l’applicabilità delle norme sui redditi anche per gli atti a titolo oneroso concernenti costituzione o trasferimento di diritti reali di godimento.
Di conseguenza saranno soggette ad imposizione tributaria, rientrando tra i redditi diversi ex art. 67, comma 1), lett. b) T.U.I.R., le plusvalenze realizzate mediante cessione a titolo oneroso di beni immobili acquistati o costruiti da non più di cinque anni.[6]
Tale discrimine temporale è giustificato, ai sensi del T.U.I.R., dalla circostanza che le attività di acquisto e cessione di diritti reali entro tale arco vengono presuntivamente ritenuti aventi finalità speculative.
L’Agenzia delle Entrate precisa, tuttavia, come ricadano nell’ipotesi sopra prevista unicamente i casi (alquanto rari nella pratica) di acquisto e successiva cessione infraquinquennale del medesimo diritto di superficie.
Al contrario, laddove, come accade usualmente, vi sia un precedente acquisto della piena proprietà di un terreno ed una successiva cessione del diritto di superficie, tali plusvalenze non potranno essere tassate ai sensi della predetta norma.
Sostiene infatti l’Amministrazione che “in tal caso, infatti, non si ritiene corretto scomputare dai compensi percepiti il costo sostenuto per l’acquisto della piena proprietà dell’immobile, in quanto, così facendo, si confronterebbero due valori non omogenei (corrispettivo percepito per la concessione di un diritto reale di godimento a fronte di un costo sostenuto per l’acquisto della piena proprietà)”.
La debolezza di tale ragionamento risiede evidentemente nella circostanza che le plusvalenze così tassabili risulterebbero praticamente inesistenti nella prassi, cosicché ai casi di gran lunga più frequenti (acquisto della piena proprietà e successiva cessione del diritto di superficie) andrebbe applicato un diverso (e più sfavorevole per il contribuente) regime.
Questa seconda tipologia, infatti, rientrerebbe nell’ambito applicativo della lett. l) dell’art. 67, comma 1, del T.U.I.R., con la conseguenza che le plusvalenze sarebbero da considerare come redditi derivanti “dall’assunzione di obblighi di fare, non fare e permettere”.
Da ciò scaturirebbe un regime nettamente più sfavorevole in quanto:
– non sussisterebbe l’esclusione dalla tassazione delle plusvalenze derivanti dalla cessione di diritti reali originariamente derivanti da successione;
– verrebbe meno il già evidenziato limite quinquennale;
– l’imponibile sarebbe nettamente superiore in quanto non esisterebbe nessun costo di acquisto da dedurre (differentemente dal caso di acquisto e successiva cessione del medesimo diritto reale).
Dunque l’Agenzia delle Entrate, probabilmente al fine di ampliare il numero di operazioni soggette a tassazione ed il volume dell’imponibile, ha adottato una scelta evidentemente in contrasto con il principio di cui all’art. 9, comma 5, del TUIR, per il quale “ai fini delle imposte sui redditi le disposizioni relative alle cessioni a titolo oneroso valgono anche per gli atti a titolo oneroso che importano costituzione o trasferimento di diritti reali di godimento e per i conferimenti in società”.
Anche per quanto concerne la tassazione indiretta, il quadro risulta paradossale.
Infatti, la Circolare evidenzia come, pur in presenza di una normativa (D.P.R. n. 633/1972) che prevede l’applicabilità dell’aliquota IVA ordinaria alla cessione di beni (e, dunque, anche alla costituzione o trasferimento di diritti reali su beni di ogni genere), in ogni caso non sono da considerare cessioni di beni quelle che hanno per oggetto terreni non suscettibili di utilizzazione edificatoria (art.2, comma 3, lett. c) del DPR 633/1972).
E’ del tutto evidente, pertanto, che tale circostanza favorirà sempre più l’utilizzo di terreni agricoli per impianti di energia alternativa, con evidenti conseguenze negative per il territorio.
b) I profili fiscali connessi alla locazione.
La scelta della locazione relativamente ad impianti fotovoltaici, pur con le problematiche civilistiche accennate, sembra creare minori dubbi interpretativi sotto il profilo fiscale.
Ciò in quanto, in assenza di problemi interpretativi in materia di IRPEF, la legislazione in materia di IVA prevede che le locazioni di terreni agricoli debbano andare esenti da IVA (art. 10, comma 1, n. 8 del D.lgs 633/1972), laddove, al contrario, risulterà applicabile l’aliquota ordinaria ove il terreno oggetto di locazione sia da considerarsi terreno suscettibile di utilizzazione edificatoria.
Tuttavia, anche sotto tale profilo, valgono le perplessità sopra esposte in relazione al favor mostrato dal legislatore per la localizzazione di impianti fotovoltaici su terreni agricoli, con le impattanti conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti.
In conclusione, dunque, la circolare dell’Agenzia delle Entrate non appare in grado di dirimere le questioni giuridiche controverse in materia ma, al contrario, con tutta probabilità, non farà altro che aumentare il contenzioso sul punto.
Si rileva, infine, come appaia improrogabile un intervento che, in un’ottica di sostegno al settore agricolo, renda comunque meno favorevole l’utilizzo di tali terreni per finalità di fatto estranee agli stessi.
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento