Diritto e immigrazione: lo stato dell’arte in sintesi

Con queste brevi riflessioni, si vuole porre l’attenzione su uno dei temi di grande attualità come l’immigrazione, con particolare riguardo agli aspetti patologici che spesso vengono confusi con quelli fisiologici.

Lo scopo principale del breve studio è quello di conoscere prima e poi di consolidare le prospettive di rappresentanza con e per i cittadini immigrati in Italia.

Si deve partire almeno da un presupposto non emendabile, che cioè la politica e la legislazione in materia debba essere costruita in modo omogeneo e rigoroso sull’intero territorio italiano. Essa deve necessariamente coinvolgere tutti, cittadini italiani e stranieri, considerandoli sotto il profilo di persone che sono destinatarie di servizi pubblici[1], adeguati e garantiti dalla Costituzione.

A questo punto un chiarimento lessicale  ed uno successivamente normativo sono doverosi.

Per “straniero” si intende colui che entra in Italia indipendentemente dalla provenienza.

Per “extracomunitario” si intende colui che entra in Italia provenendo da un Paese non appartenente all’Unione Europea.

Per “irregolare” si intende colui che entra a vario titolo in Italia con documenti scaduti o con documenti validi ma un permesso di soggiorno scaduto, non regolare, o addirittura mancante, qualora fosse stato richiesto dall’Autorità competente.

Per “clandestino” si intende colui che entra in territorio italiano senza documenti, senza permessi, in modo tale da non essere in grado di provare le proprie generalità all’Autorità giudiziaria. Con l’entrata in vigore della legge n. 189/2002, riguardante le disposizioni in materia di immigrazione e asilo, è stato introdotto il reato di clandestinità. Infatti, secondo questa legge commetteva reato chi rientrava in Italia dopo essere stato espulso per motivi di clandestinità. Successivamente, con le modifiche apportate dal c.d. “decreto Maroni”, d.l. n. 92 del 2008[2], il reato di clandestinità si perfeziona già con l’ingresso clandestino e non più con il reingresso, inasprimendo anche la relativa sanzione. Innanzitutto vi è una modifica al codice penale in materia di “espulsione dello straniero”; la legge prevede che venga espulso con ordine della magistratura lo straniero che sia stato condannato ad una reclusione superiore a due anni. Prevede, inoltre, una pena da uno a quattro anni per chi contravviene all’ordine di espulsione del giudice. Da notare che lo stesso trattamento giudiziario è stato esteso anche ai cittadini “comunitari”. E’ stato introdotto, così, nell’ordinamento giuridico italiano un nuovo reato che come tale comporta l’obbligatorietà dell’azione penale. E sotto questo profilo, come si può facilmente intuire, si aprono prospettive complesse e di difficile attuazione, vista la condizione di affollamento dei tribunali anche per cause arretrate. Si precisa che negli altri ordinamenti europei non vi è una norma che stabilisca l’obbligatorietà dell’azione penale pur avendo previsto il reato di immigrazione clandestina (evidentemente sono stati esaminati con maggior attenzione gli aspetti di applicabilità e quindi di effettività della fattispecie di reato). Vi è anche da aggiungere un’ulteriore considerazione. Infatti, l’ipotesi di reato sarebbe inoltre ristretta solo ai casi in cui lo straniero irregolare venga identificato come tale al momento del suo ingresso sul territorio italiano, mentre rimarrebbero esclusi dalla portata del provvedimento coloro che già si trovano in Italia, anche se irregolari. E ciò comporta altri problemi di equità sostanziale della norma di fronte all’ordinamento. Lo stato di “irregolare” viene ora considerato come aggravante nel caso di commissione di un reato previsto nelle fattispecie del codice penale. Si introduce, poi, l’art. 5 bis al d.lgs. 286 del 1998 (c.d. T.U. sull’immigrazione), che prevede la reclusione da sei mesi a tre anni per chiunque abbia dato in locazione a titolo oneroso un immobile ad un cittadino straniero irregolare; la condanna comporta la confisca dell’immobile abusivamente locato. La precisazione inserita nel provvedimento previsto è assolutamente in linea con l’opinione di chi scrive.

Entra in Italia solo lo straniero che abbia già con sé un contratto di lavoro e non una semplice promessa di contratto. Questo è il requisito per ottenere successivamente il permesso di soggiorno. La durata del permesso è di due anni e non più di tre, come disciplinato dalla precedente legge n. 40/1998.

E’ competenza delle ambasciate e dei consolati italiani acquisire la documentazione necessaria finalizzata al collocamento occupazionale degli immigrati. Se alla scadenza del permesso di soggiorno l’immigrato ha perso il lavoro “dovrebbe” tornare nel suo Paese, salvo poi rifare la procedura per un nuovo ingresso in Italia. Vi è da aggiungere che, ragionevolmente si concedono dei termini dilatori per l’allontanamento a coloro che hanno perso il lavoro ma non per cause a loro imputabili, per esempio l’azienda che fallisce. E questa sostanziale differenza deve essere tenuta in buon conto, da un Paese che si spera abbia sempre la prerogativa di rispettare in modo rigoroso il dettato costituzionale, prima ancora di impegni assunti sotto il profilo internazionale.

Entro il 30 novembre di ogni anno, il presidente del Consiglio dei ministri, dopo aver avuto il parere non vincolante della Conferenza unificata Stato-Regioni, emana un decreto che indica le quote flussi. In sostanza, questo decreto indica il numero di extracomunitari che possono entrare in Italia, sempre secondo le regole stabilite dalla legge. Non si tratta di un decreto obbligatorio per il governo, ma è preferibile che venga emanato; infatti, potrebbe anche essere necessario sospendere per un anno l’ingresso di persone straniere ad eccezione di quello previsto per legge.

La figura dello sponsor era stata introdotta dalla l. n. 40/1998 ed è stata abrogata dalla presente legge. Si trattava di affidare la responsabilità a persone che assumevano un ruolo di “fideiussori” nei confronti degli immigrati, garantendo per loro il rispetto della legalità. Purtroppo l’istituto in questione, anche se ideale e garantista, non ha funzionato se non in casi isolati. La proposta di rivedere la figura dello sponsor era stata ripresa nel ddl Amato-Ferrero che non ha avuto seguito parlamentare. In realtà, questo escamotage giuridico doveva servire a introdurre velocemente le figure di colf e badanti, perché il nostro Paese ne ha una certa necessità. Del resto fa riflettere il fatto che gli infermieri professionali che chiedono di entrare in Italia non siano assoggettati alla disciplina delle quote flussi; facendo eccezione, si dimostra come la carenza di questa figura professionale consenta di derogare ad un principio a cui viene data un’interpretazione discutibile.        

Anche i ricongiungimenti familiari dei cittadini extracomunitari in regola con i permessi sono consentiti per il coniuge, i figli minori o maggiorenni purchè a carico e che non siano in grado di provvedere in modo autonomo al loro sostentamento. Questa norma è stata disciplinata da uno dei tre decreti legislativi che hanno recepito ed ottemperato alle disposizioni comunitarie in materia di ricongiungimenti familiari (d.lgs. n. 5 del 2007).

La questione delle impronte digitali ha sollevato alcuni problemi di ordine pratico e anche sotto il profilo della conformità al dettato costituzionale. Infatti, se si prendono le impronte solo agli immigrati si può ravvisare una violazione del principio di uguaglianza (formale e sostanziale) previsto dall’art. 3 della Costituzione. Lo ius processuale consente di prendere le impronte alle persone che sono sottoposte a misure restrittive della libertà personale per imputazioni di reato. Altrimenti, per assecondare il principio costituzionale e contemperare con esso l’esigenza maturata con la legge del 2002, si dovrebbe prendere le impronte digitali a tutti i cittadini italiani e non, senza distinzioni. Francamente questa soluzione sembra inopportuna e di difficile realizzazione, considerando i problemi applicativi che comporta. E’ stato introdotto, invece, l’esame del DNA per accertare la parentela; ciò si è reso possibile poiché anche l’Italia ha adertito al Trattato di Prum[3] che ha istituito la banca dati nazionale del DNA.

Cambia, anche, la denominazione dei Centri di permanenza temporanea (CPT) che diventano Centri di identificazione e di espulsione (CIE) e si ha un prolungamento fino a 18 mesi della permanenza nei CIE. Questi dovranno sorgere in caserme o in altri edifici dimessi, in relazione alle norme previste nella legge finanziaria.

Anche i minori hanno una disciplina ad hoc. Quando capita che arrivino minori senza nessun parente che li accompagni all’ingresso del nostro Paese, la legge deve dare una risposta concreta. Infatti essi saranno inseriti per almeno tre anni in un progetto formativo di integrazione sociale e civile presso un ente pubblico o privato accreditato. Cosa vuol dire? Che, innanzitutto, questi enti si devono preoccupare di curare dal punto di vista sanitario ed educativo i minori, che al compimento del diciottesimo anno otterranno, così, il permesso di soggiorno. Certo non sarà facile per gli enti interessati a questi progetti garantire, dopo il raggiungimento della maggiore età, gli ex minori, dimostrando la continuità del processo formativo e poi lavorativo. Sono considerazioni giuridiche che sono molto più semplici da pensare e da tradurre in norme piuttosto che in fatti concreti, ma lo si sa. Per esempio, è previsto il reato di impiego di minori nell’accatonaggio; ciò “dovrebbe” rendere operative le sanzioni penali per chi sfrutta ancora i minori anche semplicemente per questi motivi.

Da ultimo, ma di certo non meno importante, la questione dei contributi INPS. La prima stesura della legge prevedeva che gli immigrati perdessero tutti i contributi INPS, senza poterli riscattare, a meno che non maturassero il diritto alla pensione con 19 anni di versamenti e il compimento del sessantacinquesimo anno. Ciò non poteva funzionare almeno per due motivi. Il primo è che le aspettative di vita in molti paesi del terzo mondo non supera i quaranta/quarantacinque anni; il secondo è che la maggior parte degli immigrati hanno un’occupazione lavorativa in Italia che non supera i dieci/quindici anni.

Il d.lgs. n. 30 del 2007 disciplina la libera circolazione dei cittadini comunitari, prevedendo la verifica dei loro requisiti circa il reddito e l’abitazione.  Anche in Italia è entrata in vigore la norma che prevede che per poter soggiornare in un Paese europeo il cittadino comunitario deve dimostrare di avere risorse sufficienti per una permanenza di tre mesi.

In realtà tutti gli sforzi fatti sono orientati maggiormente agli aspetti curativi e repressivi del fenomeno “immigrazione”. Forse occorre un maggior sforzo normativo ma soprattutto organizzativo per prevenire e controllare l’immigrazione clandestina e regolare quella fisiologica, consentendo, in ragione delle possibilità concrete di offerta di lavoro regolare, lo scambio di culture e favorendo, con l’ausilio del “buon senso”, una corretta osmosi tra i cittadini del mondo.

 

 

*E’ professore aggregato di diritto amministrativo, diritto dei servizi sociali e contabilità pubblica nella Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Torino.

 


[1] [1] G. CAIA, Funzione pubblica e servizio pubblico, in AA.VV., Diritto Amministrativo, a cura di L. MAZZAROLLI, G. PERICU, A. ROMANO, F.A. ROVERSI MONACO e F.G. SCOCA, Bologna, Monduzzi, 2001, Tomo I, Parte III, Cap. III, 766; l’A. afferma che i servizi sociali non possono essere distinti dai servizi pubblici, ma appartengono al novero di questi ultimi. Così anche E. CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, Milano, Giuffrè, 2000, 620, li comprende nei servizi pubblici. Sulle forme di gestione dei servizi sociali si rinvia infra cap. IV. Sui principi che devono guidare gli enti erogatori di servizi pubblici si vedano R. CAVALLO PERIN, I principi come disciplina giuridica del pubblico servizio tra ordinamento interno e ordinamento europeo, in Diritto amministrativo, 2000, VIII, n. 1, 41-79. Sui servizi pubblici in generale si vedano le pubblicazioni autorevoli di: A. BRANCASI, Liberalizzazione del trasporto terrestre e servizi pubblici economici, Bologna, 2003; M. CAMMELLI, Concorrenza, mercato e servizi pubblici: le due riforme, in Riv. trim. app. 2003, 514; H. CAROLI CASAVOLA, Giustizia ed eguaglianza nella distribuzione dei benefici pubblici, Milano, 2004; R. CAVALLO PERIN, Comuni e province nella gestione dei servizi pubblici, Napoli, Jovene, 1993; dello stesso Autore l’interessante lavoro: Riflessioni sull’oggetto e sugli effetti giuridici della concessione di servizio pubblico, in Dir. amm., 2000, 41; M. CLARICH, Servizi pubblici e diritto europeo della concorrenza: l’esperienza italiana e tedesca a confronto, in Riv. trim. dir. pubbl. 2003, 91; A. CORPACI, La tutela degli utenti dei servizi pubblici, Bologna, 2003; G. CORSO, La gestione dei servizi pubblici tra pubblico e privato, in Servizi pubblici locali e nuove forme di amministrazione, Milano, 1997; V. DE FALCO, Il servizio pubblico tra ordinamento comunitario e diritti interni, Padova, 2003; E. FERRARI, Servizi pubblici: impostazione e significato della ricerca di una nozione, nota a Cass., sez. un., 12 novembre 2001, n. 14032, in Foro it., 2002, I, 1842;  S. LARICCIA, Servizio pubblico, in Diritto amministrativo, Padova, Cedam, 2000, 495-501; A. MASSERA (a cura di), I servizi pubblici in ambiente europeo, Pisa, 2004; F. MERUSI, La nuova disciplina dei servizi pubblici, in Ass. it. prof. dir. amm., Annuario, 2001, Milano, 2002, 63; G. NAPOLITANO, Servizi pubblici e rapporti di utenza, Padova, 2001; L. PERFETTI, Servizi di interesse economico generale e pubblici servizi, in Riv. it. dir. pubbl. com. 2002, 490; A. PIOGGIA, Servizi pubblici e autonomia locale: i limiti del diritto interno e del diritto comunitario, Riv. Giur. Quadr. pubbl. serv., 1999, 99; V. PARISIO, Pubblici servizi e funzioni di garanzia del giudice amministrativo, Giuffrè, Milano, 2003; AA.VV. Organismi e imprese pubbliche, a cura di M.A. SANDULLI, in Serv. Pubbl. e app., supplemento al n. 4/2004; D. SORACE, Servizi pubblici e servizi (economici) di pubblica utilità, in Dir. pubbl., 1999, 403; B. SORDI, Servizi pubblici e concorrenza: alcune fibrillazioni tra diritto comunitario e tradizione continentale, in Quaderni fiorentini, XXXI, 2002, 589; S. VARONE, Servizi pubblici e concorrenza, Torino, 2004; R. VILLATA, Pubblica amministrazione e servizi pubblici, in Dir. amm., 2003, 493.

 

[2] Il decreto legge 23 maggio 2008, n. 92, recante misure urgenti in materia di sicurezza pubblica, è stato approvato in via definitiva al Senato il 23 luglio 2008.

Il provvedimento, convertito con legge 24 luglio 2008, n. 125, consente, secondo quanto dichiarato dal ministro Maroni, «un contrasto più efficace dell’immigrazione clandestina, una maggiore prevenzione della microcriminalità diffusa, attraverso il coinvolgimento dei sindaci nel controllo del territorio, e una più incisiva lotta alla mafia, grazie alla norma che prevede l’aggressione ai patrimoni delle organizzazioni criminali».

[3] Il Trattato di Prüm è un accordo firmato da alcuni paesi membri dell’Unione Europea (Austria, Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo, Spagna e Paesi Bassi ) il 27 maggio 2005.

Il trattato può essere visto come una sorta di cooperazione rafforzata, sebbene non sia stato utilizzato questo strumento per stipularlo, dato che il testo stesso dell’accordo indica che l’obiettivo è quello di farlo diventare parte dell’acquis comunitario.

La finalità del trattato è quella di aumentare le misure di coordinamento in materia di indagini giudiziarie e prevenzione dei reati.

Il principale settore in cui l’accordo interviene è quello dello scambio dei dati relativi al DNA dei condannati per reati sul territorio dei paesi aderenti. Questa norma, che non è prevista dal trattato di Schengen, amplia la quantità e la tipologia di informazioni che possono essere scambiate tra le forze di polizia.

L’accordo, tuttavia, non si limita solo a questo settore. Altri settori coperti sono lo scambio più approfondito di informazioni sui sospettati, sugli autoveicoli, e sulla falsificazione dei documenti. Inoltre è prevista la possibilità di creare squadre internazionali di polizia per pattugliare le zone frontaliere.

Il trattato si occupa anche dell’immigrazione clandestina, elencando una serie di disposizioni per facilitare l’identificazione e il rimpatrio delle persone senza permesso di soggiorno e per prevenire il fenomeno collaborando con i paesi di origine.

Prof. Gaboardi Franco

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