In generale, la dottrina ha ritenuto che il primo dei sei titoli della legge n.300/70 comporti un trasferimento nel mondo dei lavoratori dei principi riconosciuti dalla Costituzione sub titolo I per tutti i cittadini, proprio al fine di riconoscere l’essenzialità e la “primarietà” dei diritti “traslati” nell’ambito della realtà produttiva.
Si tratta di diritti irrinunciabili per il “lavoratore”, anche se devono essere realizzati all’interno di un ambito lavorativo dove competa ad altri soggetti (ovvero i datori di lavoro) la proprietà dei mezzi e la titolarità dei poteri gerarchici ed organizzativi ex artt. 41 Costituzione e 2086 cc. (per i quali l’imprenditore è il “soggetto apicale” dell’impresa).
Per completezza, si osserva che la libertà del lavoratore si esprime attraverso la non censurabilità delle proprie opinioni , sia sui temi sindacali sia su quelli politici e di fede religiosa, purchè espressa nel rispetto dei principi costituzionali e dello statuto medesimo.
La ratio evidente in questo titolo dello statuto consiste nel bilanciamento tra l’esercizio dei poteri legittimi del datore, volti ad attuare un corretto adempimento dei doveri lavorativi (trattasi, più precisamente, dei poteri direttivo e disciplinare), e il rispetto, da parte del medesimo soggetto, della sfera personale del lavoratore.
Per esempio, l’impiego di guardie giurate professionali da parte del datore di lavoro è giustificato soltanto ai fini della tutela del patrimonio aziendale, ma è sanzionato quando verta sull’esecuzione del lavoro. Sono vietate, inoltre, perquisizioni sul lavoratore e sulle sue pertinenze immediate, salvo quelle effettuate “a campione”, con sistemi di selezione automatica all’uscita dei luoghi di lavoro, che possono avere una finalità preventiva su eventuali appropriazioni indebite.
Altra fattispecie rilevante viene posta dall’art.8 dello statuto, per cui sono vietate le indagini inerenti le opinioni nonché i fatti non concernenti le finalità di “valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore”.
Sotto il profilo del potere sanzionatorio in capo al datore, infine, si conclude che le norme relative ai provvedimenti disciplinari devono essere esposte in luogo visibile ed accessibile a tutti, nell’ambito spaziale dei locali aziendali e che, per ogni categoria, è esclusa l’applicazione della sanzione “inaudita altera parte”.
Ciò premesso, un campo significativo per l’esame dell’argomento del controllo difensivo viene fornito dalla portata fattuale e giuridica dell’art.4 dello statuto dei lavoratori.
Il datore di lavoro, analogamente alle premesse generali della presente disamina, ha diritto ad applicare le misure che ritenga necessarie per la salvaguardia della propria attività: si tratta dei cd controlli difensivi.
Essi, infatti, possono integrare il controllo a distanza del lavoratore, ma devono essere bilanciati con i diritti dei lavoratori.
Osserviamo, in primo luogo, la pronuncia della Cassazione, sezione Lavoro, n. 4746/02 ha considerato leciti i cd “controlli difensivi”, ossia quelli che non attengono all’attività lavorativa, ma che sono diretti ad accertare eventuali condotte illecite del lavoratore.
L’art. 4 dello Statuto , che vieta il controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, anche come mera possibilità di controllo ad insaputa del prestatore di opera, disciplina le due ipotesi dell’impianto di apparecchiature finalizzate al controllo a distanza (I comma) e di impianti per fini produttivi, ma tali comunque da presentare la possibilità di fornire anche il controllo a distanza del dipendente. Da un lato, le apparecchiature sub I comma sono assolutamente vietate, in quanto contrastano con i principi della Costituzione e possono, eventualmente, ostacolare la medesima produttività del lavoratore. Dall’altro, le apparecchiature sub II comma sono consentite a condizione che il datore di lavoro osservi tassativamente il dettato del II comma e ss., senza che il lavoratore possa reagire al di fuori dei mezzi di tutela forniti dall’art.4.
L’art.4, difatti, impone che gli impianti di controllo e simili, qualora siano richiesti da esigenze oggettive di organizzazione, produzione e sicurezza, ma comportino anche la possibilità effettiva di “controllo a distanza dell’attività dei lavoratori”, possano essere installati soltanto previo accordo con le rsa o con la rappresentanza interna. Nell’ipotesi del mancato accordo tra le due parti interessate, interviene l’Ispettorato del lavoro, i cui provvedimenti sono ricorribili presso il Ministero del lavoro (nel termine di 30 giorni dalla comunicazione dei medesimi).
A corroborare quanto sopra, si osserva che l’interrelazione con la disciplina concorrente della cd privacy ha confermato, sub art.114 del d. lgs. 196, la normativa ex art.4 dello statuto, per quanto concerne il controllo a distanza, nonché, sub art.171, le sanzioni ex art.38 della medesima l. 300.
A questo punto, può essere interessante una disamina diacronica della giurisprudenza in materia, cercando come filo conduttore il bilanciamento di interessi tra i diritti spettanti a imprenditore e lavoratori.
Secondo Cass. 1490/86, il divieto ex art.4 di far uso di impianti audiovisivi e altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori non è escluso né dalla circostanza che tali apparecchiature siano state soltanto installate ma non siano ancora funzionanti, né dall’eventuale preavviso dato ai lavoratori, né dal fatto che tale controllo sia destinato ad essere discontinuo, perchè esercitato in locali dove i lavoratori si trovino solo saltuariamente. Nel merito, il datore aveva installato alcuni impianti audiovisivi destinati al controllo dell’uso e della conservazione dei cartellini segna-orario sistemati in apposite custodie all’ingresso dello stabilimento.
Secondo Cass. 9211/97, l’installazione in azienda, da parte del datore di lavoro, di impianti audiovisivi è innanzitutto condizionata dai limiti ex art.4 anche se da essi derivi solo una “mera potenzialità” di controllo a distanza sull’attività lavorativa dei dipendenti, senza che rilevi il fatto che i dipendenti siano a conoscenza dell’esistenza di tali impianti. Essa deve essere proceduta dall’accordo con le rappresentanze sindacali aziendali,, non essendo sufficiente, in ragione della tassatività dei soggetti ex art.4 II c., a legittimare tale installazione un’intesa raggiunta dal datore con organi di coordinamento delle rsa di varie unità produttive. Vi è l’ulteriore conseguenza che in tale fattispecie è ravvisabile un comportamento antisindacale del datore, reprimibile con la tutela ad hoc dell’art.28 dello statuto,che prescinde dall’esistenza di un elemento soggettivo “intenzionale”.
Secondo Cass. 3837/97, è suscettibile di sanzione disciplinare il lavoratore che per finalità proprie abbia leso il diritto dei lavoratori a non essere sottoposti a controlli a distanza al di fuori delle ipotesi ex lege (nel merito, Tizio aveva utilizzato un registratore per precostituirsi prove da far eventualmente valere contro colleghi e datore).
Secondo Cass. n. 8250/00, l’uso di una telecamera a circuito chiuso, con il fine di controllare a distanza indirettamente ed eventualmente l’attività dei dipendenti, è illegittimo ex art.4. Ne deriva che , sotto il profilo processuale, non si può attribuire alcun valore probatorio al fotogramma illegittimamente conseguito . Interessante è la vicenda sottesa a questa pronuncia in esame: la sentenza di merito, confermata in questa sede, aveva respinto la domanda proposta da una società proprietaria di un pubblico esercizio nei confronti di una dipendente, diretta al risarcimento dei danni derivanti dalla sottrazione di somme custodite nella cassa e fondata sulla produzione di fotogramma proveniente da una telecamera a circuito chiuso installata nell’esercizio ove la dipendente prestava lavoro.
Secondo Cass. 8998/01, la normativa ex artt. 2 e 3 definisce la sfera di intervento di persone preposte dal datore a difesa dei suoi interessi, con attribuzioni specifiche nell’ambito dell’azienda a tutela del patrimonio aziendale e a controllo della prestazione lavorativa. Essa non esclude, però, il potere dell’imprenditore, ai sensi degli artt. 2086 e 2104 cc, di controllare direttamente o mediante la propria organizzazione gerarchica l’adempimento delle prestazioni lavorative e, quindi, di accertare mancanze specifiche dei dipendenti, già commesse o in corso di esecuzione. Ciò avviene indipendentemente dalle modalità del controllo, che può avvenire anche occultamente, senza che vi ostino né il principio di correttezza e buona fede nell’esecuzione dei rapporti, né il divieto ex art.4 riferito esclusivamente all’uso di apparecchiature per il controllo a distanza (non applicabile per analogia, giacchè sanzionato penalmente).
Sono pertanto legittimi, in quanto estranei alle previsioni delle suddette norme, gli accertamenti operati dall’imprenditore tramite riproduzioni filmate dirette a tutelare il proprio patrimonio aziendale, al di fuori dell’orario di lavoro e contro i possibili atti penalmente illegittimi messi in atto da terzi e , quindi, anche dai propri dipendenti i quali possono essere equiparati ai terzi medesimi, qualora agiscano al di fuori dell’orario di lavoro.
Secondo Cass. n.4746/02, ai fini dell’operatività del divieto di utilizzo di apparecchiature per il controllo a distanza dell’attività dei lavoratori ex art.4, è necessario che il controllo riguardi l’attività lavorativa, mentre devono ritenersi certamente fuori dell’ambito di applicazione della norma i controlli diretti ad accertare condotte illecite del lavoratore (cd controlli difensivi) quali, ad es., i sistemi di controllo dell’accesso ad aule riservate o gli apparecchi di rilevazione di telefonate ingiustificate.
Come esempio corrispondente alle nuove tematiche attinenti l’evoluzione dei tempi, infine, affrontiamo la problematica della tutela dell’email aziendale.
Secondo l’art. 5 l.547/93, “per corrispondenza si intende quella epistolare, telegrafica o telefonica, informatica o telematica ovvero effettuata con ogni altra forma di comunicazione a distanza”.
Ne deriva che l’art.616 cp tutela anche i messaggi ricevuti a mezzo computer.
Il caso dell’email aziendale, però, pone un’eccezione: secondo l’ordinanza del Gip del tribunale di Milano del 10.5.02, la casella di posta elettronica messa a disposizione dal datore di lavoro non è coperta da riservatezza, poiché rappresenta uno strumento messo a disposizione del lavoratore al fine di consentirgli di svolgere la propria attività: ne consegue, quindi, che essa “rimane nella completa e totale disponibilità del datore”.
La casella email aziendale, quindi, costituisce un semplice “strumento di lavoro”, nonostante sussistano la “password” e l’ “username” personali.
A fortiori, si aggiunge che il medesimo Gip ha evidenziato come “il lavoratore che utilizza la casella di posta elettronica aziendale si espone al rischio che anche altri lavoratori della medesima azienda, unica titolare dell’indirizzo, possano lecitamente entrare nella sua casella e leggere i messaggi (in entrata e uscita) ivi contenuti”.
Ne deriva che il dipendente che utilizza l’indirizzo email aziendale a fini privati ed extralavorativi non potrà invocare la segretezza della corrispondenza, nè impedire un controllo eccependo l’art.4.
Difatti, per il Gip menzionato non si può sostenere che il datore di lavoro, entrando nella mail di dominio aziendale del dipendente, effettui un controllo non consentito, dal momento che, secondo la stessa motivazione dell’ordinanza, “l’uso dell’e-mail costituisce (lo si ribadisce, ndr) un semplice strumento aziendale a disposizione dell’utente-lavoratore al solo fine di consentire al medesimo di svolgere la propria funzione aziendale … e che, come tutti gli altri strumenti di lavoro forniti dal datore di lavoro, rimane nella completa e totale disponibilità del medesimo senza alcuna limitazione” , senza alcuna possibilità di distinguere “i messaggi di posta elettronica: quelli privati da un lato e quelli pubblici dall’altro”.
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