Con Ordinanza n. 15282/2024, la Corte di Cassazione è nuovamente tornata a pronunciarsi sulla legittimità di un licenziamento per superamento del periodo di comporto disposto nei confronti di un lavoratore disabile.
Con la pronuncia in commento la Suprema Corte, nel richiamare alcuni propri precedenti giurisprudenziali (Cassazione n. 9095/2023 e n. 35747/2023) ha evidenziato che nel caso di un lavoratore affetto da una grave e manifesta disabilità, qualificata come tale anche ai sensi della Direttiva 2000/78/CE del Consiglio, il computo dei giorni di assenza per malattia ai fini del superamento del periodo di comporto deve essere effettuato tenendo conto delle specifiche condizioni di salute del lavoratore.
Ad avviso della Corte, infatti, in presenza di una grave e manifesta condizione di disabilità, il computo totale dei giorni di assenza per malattia ai fini del comporto non può essere il medesimo di quello previsto dal CCNL per i lavoratori privi di disabilità, e ciò al fine di evitare che un trattamento parificato delle due categorie di lavoratori possa determinare una fattispecie di c.d. “discriminazione indiretta”.
A cura dell’Avv. Antonio Orsini, Avvocato Employment DLA Piper
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Indice
1. La vicenda
Il caso di specie trae origine dalla vicenda di un lavoratore disabile che, a causa di una seria e permanente compromissione delle proprie condizioni fisiche e di salute, ben nota anche allo stesso datore di lavoro, veniva da questi licenziato per superamento del periodo di comporto al termine di un lungo periodo di assenza per malattia.
Il datore di lavoro, in particolare, disponeva tale licenziamento conteggiando ai fini del comporto tutti i giorni di assenza per malattia effettuati dal lavoratore, incluse le assenze strettamente connesse al noto stato di disabilità.
Nella vicenda in esame, il datore di lavoro conteggiava i giorni di malattia utili ai fini del superamento del comporto facendo riferimento al periodo di conservazione del posto di lavoro previsto dal CCNL genericamente per tutte le ipotesi di malattia e indistintamente per tutte le tipologie di lavoratori.
Sulla base dell’interpretazione letterale e decontestualizzata della norma, il datore di lavoro disponeva quindi il licenziamento del lavoratore una volta decorso il periodo di comporto previsto dal medesimo CCNL.
Avverso tale provvedimento, il lavoratore agiva in via giudiziale contestando la natura discriminatoria del licenziamento e la correttezza del calcolo dei giorni di assenza effettuato dal datore di lavoro.
Ad avviso del lavoratore, infatti, il datore di lavoro non avrebbe dovuto considerare nell’ambito del periodo di comporto i giorni di assenza strettamente connessi all’accertato stato di grave disabilità, e ciò anche alla luce della piena consapevolezza da parte del datore di lavoro delle particolari condizioni di salute in cui versava il lavoratore.
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Il lavoro subordinato
Il volume analizza compiutamente l’intera disciplina del rapporto di lavoro subordinato, così come contenuta nel codice civile (con la sola eccezione delle regole relative al licenziamento e alle dimissioni). L’opera è stata realizzata pensando al direttore del personale, al consulente del lavoro, all’avvocato e al giudice che si trovano all’inizio della loro vita professionale o che si avvicinano alla materia per ragioni professionali provenendo da altri ambiti, ma ha l’ambizione di essere utile anche all’esperto, offrendo una sistematica esposizione dello stato dell’arte in merito alle tante questioni che si incontrano nelle aule del Tribunale del lavoro e nella vita professionale di ogni giorno. L’opera si colloca nell’ambito di una collana nella quale, oltre all’opera dedicata alla cessazione del rapporto di lavoro (a cura di C. Colosimo), sono già apparsi i volumi che seguono: Il processo del lavoro (a cura di D. Paliaga); Lavoro e crisi d’impresa (di M. Belviso); Il Lavoro pubblico (a cura di A. Boscati); Diritto sindacale (a cura di G. Perone e M.C. Cataudella). Vincenzo FerranteUniversità Cattolica di Milano, direttore del Master in Consulenza del lavoro e direzione del personale (MUCL);Mirko AltimariUniversità Cattolica di Milano;Silvia BertoccoUniversità di Padova;Laura CalafàUniversità di Verona;Matteo CortiUniversità Cattolica di Milano;Ombretta DessìUniversità di Cagliari;Maria Giovanna GrecoUniversità di Parma;Francesca MalzaniUniversità di Brescia;Marco NovellaUniversità di Genova;Fabio PantanoUniversità di Parma;Roberto PettinelliUniversità del Piemonte orientale;Flavio Vincenzo PonteUniversità della Calabria;Fabio RavelliUniversità di Brescia;Nicolò RossiAvvocato in Novara;Alessandra SartoriUniversità degli studi di Milano;Claudio SerraAvvocato in Torino.
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2. I profili di discriminazione indiretta ravvisabili nel licenziamento del caso di specie
A seguito dell’impugnazione del licenziamento e al termine del giudizio di merito incardinato dal lavoratore, la Corte d’Appello di Roma, in totale riforma della sentenza di primo grado che aveva inizialmente rigettato il ricorso del lavoratore, accertava la sussistenza nel caso di specie di una fattispecie di discriminazione indiretta, dichiarando quindi nullo il licenziamento disposto nei confronti del lavoratore disabile.
Più in dettaglio, la Corte d’Appello, nell’accogliere la tesi del lavoratore, evidenziava che sulla scorta della documentazione in atti e del giudizio di invalidità formulato dall’INPS, l’invalidità di cui era affetto il lavoratore costituiva una menomazione fisica tale da ostacolare la piena ed effettiva partecipazione del lavoratore stesso alla vita professionale sulla base di un principio di uguaglianza con gli altri lavoratori.
Sulla base di tali risultanze, la Corte d’Appello di Roma affermava quindi che l’applicazione nei confronti del lavoratore disabile del periodo di comporto genericamente previsto per ogni ipotesi di malattia avrebbe integrato una fattispecie di discriminazione indiretta, stante la diversa condizione personale e professionale in cui versava il lavoratore disabile.
Pertanto, secondo i giudici del gravame, la seria e permanente compromissione delle condizioni fisiche del lavoratore (note anche allo stesso datore di lavoro), avevano determinato un’evidente condizione di disabilità alla quale risultavano riconducibili le numerose assenze per malattia effettuate dal lavoratore.
Il datore di lavoro, quindi, prima di procedere con il licenziamento avrebbe dovuto tenere in debita considerazione la condizione di disabilità del lavoratore, accordando allo stesso un termine di comporto differente rispetto a quello genericamente previsto dal CCNL.
Sulla base di tali valutazioni e considerati i precedenti giurisprudenziali sul tema (Cassazione n. 9095/2023 e n. 35747/2023), la Corte d’Appello dichiarava il licenziamento discriminatorio e nullo, condannando il datore di lavoro a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro e corrispondergli l’indennità risarcitoria prevista ex lege.
3. La decisione della Corte di Cassazione
Della questione veniva poi investita la Corte di Cassazione che, a sua volta, confermava interamente la decisione della Corte d’Appello, ribadendo la natura discriminatoria del licenziamento disposto nei confronti del lavoratore disabile.
La Suprema Corte, nel richiamare i precedenti giurisprudenziali già illustrati nella fase di merito (Cassazione n. 9095/2023 e n. 35747/2023 ) evidenziava che nel caso di specie, considerata la particolare entità della disabilità del lavoratore “il rischio aggiuntivo di essere assente dal lavoro per malattia di un lavoratore disabile deve essere tenuto in conto nell’assetto dei rispettivi diritti ed obblighi in materia, con la conseguenza che la sua obliterazione in concreto, mediante applicazione del periodo di comporto breve come per i lavoratori non disabili, costituisce condotta datoriale indirettamente discriminatoria, perciò, vietata”.
Alla luce di tali principi, la Corte di Cassazione precisava poi che la società, ai sensi dell’art. 3, comma 3 bis, del D.lgs. n. 216 del 2003 “era chiamata, al fine di evitare la discriminazione indiretta, ad adottare misure adeguate, tra le quali ben può essere ricompresa la sottrazione dal calcolo del comporto dei giorni di malattia ascrivibili all’handicap essendo a conoscenza, tra l’altro, dello status di invalidità accertato in capo al lavoratore”
La Suprema Corte, sulla base delle risultanze documentali e dei menzionati orientamenti giurisprudenziali, concludeva affermando che nel caso del lavoratore disabile, le cui condizioni di salute risultino gravi e conclamate, il calcolo delle assenze per malattia non può essere il medesimo di quello previsto per i dipendenti privi di disabilità.
Con tale pronuncia, la Suprema Corte di Cassazione ha quindi ribadito il consolidato orientamento giurisprudenziale che, di fatto, pone in capo al datore di lavoro uno specifico e ulteriore onere di valutazione e di verifica delle eventuali circostanze di fatto potenzialmente idonee a determinare un’applicazione più o meno stringente delle previsioni di cui al CCNL applicato, necessaria al fine di prevenire eventuali forme di discriminazione indiretta.
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