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Indice
- Il caso
- La posizione assunta dall’Italia
- La posizione assunta dal Comitato dell’ONU per l’eliminazione della discriminazione contro le donne
- Le raccomandazioni formulate dal Comitato dell’ONU per l’eliminazione della discriminazione contro le donne in questa occasione
- Conclusioni
1. Il caso
Una donna aveva denunciato un appartenente delle forze dell’ordine per violenza sessuale e per molestie (in questo caso telefoniche) e disturbo delle persone.
In particolare, nella fattispecie in esame, la parte offesa riferiva di essere stata aggredita dal suo ex marito e di avere chiamato le forze dell’ordine.
Successivamente lei era stata ricoverata in un ospedale e, secondo la prospettazione accusatoria, uno dei militi, che era intervenuto, aveva iniziato a chiamarla insistentemente, e, in una occasione, l’aveva violentata.
Orbene, da questa vicenda ne era scaturito un procedimento giudiziario conclusosi con una condanna in primo grado per l’imputato in ordine al delitto di violenza sessuale e l’applicazione a suo carico di una pena pari a sei anni di reclusione e l’interdizione perpetua dai pubblici ufficiale, oltre che la condanna a pagare 20.000 euro a titolo di risarcimento dei danni e rifusione delle spese legali.
Nel secondo grado di giudizio, invece, l’imputato veniva assolto e tale verdetto era confermato pure in sede di legittimità, essendo stato il ricorso proposto dichiarato inammissibile.
Orbene, avverso questo provvedimento, la parte lesa proponeva reclamo avverso il Comitato dell’ONU per l’eliminazione della discriminazione contro le donne (d’ora in poi indicato con l’acronimo Comitato) invocando: I) una violazione del diritto ad avere un rimedio effettivo, garantito dall’articolo 2 (b) e (c) della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (d’ora in poi indicato con l’acronimo CEDAW) in quanto lo Stato parte non aveva adottato misure legislative e di altro tipo che proibiscano ogni discriminazione contro le donne, proteggano i diritti delle donne su base di uguaglianza con gli uomini e garantiscano, attraverso tribunali nazionali competenti e altre istituzioni pubbliche, l’effettiva protezione delle donne contro ogni atto di discriminazione; II) violazione dell’articolo 2 (d) della CEDAW poiché gli stereotipi giudiziari di genere avevano compromesso l’imparzialità dei giudici del Tribunale regionale che, assolvendo il milite, avevano permesso agli stereotipi di genere di influenzare la loro comprensione dei fatti e, di conseguenza, ad avviso del reclamante, l’Italia non aveva garantito che le sue autorità e istituzioni pubbliche si fossero astenute dal mettere in atto qualsiasi atto o pratica di discriminazione nei confronti delle donne; III) violazione degli articoli 2 (f) e 5 (a) della CEDAW in quanto lo Stato parte non aveva eliminato gli errati stereotipi di genere, non avendo adottato tutte le misure appropriate, compresa la modifica o l’abolizione delle leggi, dei regolamenti, dei costumi, dei modelli e delle pratiche sociali e culturali esistenti che costituiscono una discriminazione nei confronti delle donne o che si basano sull’idea dell’inferiorità o della superiorità di uno dei due sessi o su ruoli stereotipati per uomini e donne; in particolare, si sottolineava la definizione di stupro nella legislazione penale dello Stato parte, che non pone al centro la mancanza di consenso, non comprende un’ampia accezione di circostanze coercitive e include il requisito della forza o della violenza, il che richiede l’interpretazione da parte della magistratura, che non riceve una formazione obbligatoria sulla violenza di genere, di un’ampia gamma di fattori culturalmente soggettivi, fortemente influenzati dagli stereotipi di genere; IV) violazione dell’articolo 15 (1) della CEDAW perché le opinioni dei giudici della Corte territoriale domestica e della Corte suprema si erano basate su stereotipi di genere piuttosto che sulla valutazione indipendente di fatti e prove e, pertanto, non era stato concesso alla vittima l’accesso alla legge su base paritaria con gli uomini.
2. La posizione assunta dall’Italia
Lo Stato italiano, dopo avere ritenuto corretto l’operato dei giudici domestici, compieva uno excursus normativo sulla legislazione approntata nel nostro ordinamento giuridico in materia di prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, per giungere infine a sostenere che, contrariamente a quanto affermato nella comunicazione della reclamante, a suo avviso, non si poteva riscontrare nella fattispecie in esame alcun trattamento stereotipato, soprattutto dal punto di vista giudiziario, ribadendosi al contempo l’impegno del nostro Paese a collaborare pienamente con il Comitato e gli altri organi dei trattati delle Nazioni Unite, nonché con tutti gli altri meccanismi pertinenti in materia di diritti umani.
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3. La posizione assunta dal Comitato dell’ONU per l’eliminazione della discriminazione contro le donne
Il Comitato, nella pronuncia A.F. contro l’Italia (148/2019) del 20 giugno 2022, dopo avere ritenuto le affermazioni della reclamante ai sensi del paragrafo 2 (b) – (d) e (f), del paragrafo 5 (a) e del paragrafo 15 (1) della Convenzione sufficientemente provate ai fini dell’ammissibilità, procedeva all’esame nel merito.
In particolare, dopo avere ricostruito l’intero iter giudiziale, il Comitato giungeva alla conclusione secondo cui il trattamento riservato alla parte offesa, prima della Corte di Appello e, poi, dalla Corte Suprema, a suo avviso, non era riuscito a garantire l’uguaglianza di fatto tra la reclamante, in quanto vittima di violenza di genere, nascondendo una chiara mancanza di comprensione dei costrutti di genere della violenza contro le donne, del concetto di controllo coercitivo, delle implicazioni e delle complessità dell’abuso di autorità, compreso l’uso e l’abuso di fiducia, dell’impatto dell’esposizione a traumi consecutivi, dei complessi sintomi post-traumatici, tra cui la dissociazione e la perdita di memoria, e delle specifiche vulnerabilità e necessità delle vittime di abusi domestici.
Questo Comitato, quindi, concludeva, ritenendo che la decisione adottata dai giudici di seconde cure, ossia di annullare la condanna, fosse basata su percezioni distorte, credenze e miti preconcetti piuttosto che su fatti rilevanti, che a loro volta avevano indotto, sia la Corte territoriale, che la Corte di Cassazione, a interpretare o applicare in modo errato le leggi, minando così l’imparzialità e l’integrità del sistema giudiziario e producendo un errore giudiziario e la rivittimizzazione dell’autrice.
Oltre a ciò, il Comitato riteneva, alla luce della documentazione prodotta in questa occasione, che questi stereotipi possono prosperare laddove la legislazione non individua chiaramente il consenso come elemento centrale e determinante.
Orbene, nel caso di specie, per il Comitato, la vita, la morale, le comunicazioni, le lesioni, lo stato civile e di coppia, l’età e numerosi altri fattori dell’autrice erano stati ripetutamente esaminati fino al punto da farle affrontare un livello di controllo che non era stato applicato all’imputato, lasciando il procedimento vulnerabile a interpretazioni reputate contrastanti e dannose basate su norme e preconcetti culturali che avevano negato alla vittima un accesso paritario alla giustizia che, non solo non l’avevano protetta, ma l’avevano ripetutamente sottoposta a discriminazione e ritraumatizzazione.
Di conseguenza, ai sensi dell’articolo 7 (3) del Protocollo opzionale, il Comitato riteneva come i fatti de quibus rivelassero una violazione dei diritti dell’autore ai sensi degli articoli 2 (b) -(d) e (f), 3, 5 e 15 della Convenzione.
4. Le raccomandazioni formulate dal Comitato dell’ONU per l’eliminazione della discriminazione contro le donne in questa occasione
Di conseguenza, alla luce della violazione accertata (e appena enunciata), Il Comitato formulava le seguenti raccomandazioni allo Stato italiano: “(a) Per quanto riguarda l’autore della comunicazione: l’autore della comunicazione ha subito danni morali e sociali e pregiudizi a causa dell’incapacità delle autorità di fornire riparazione e protezione a una vittima di violenza domestica, la quale ha subito un danno morale e sociale. a. Fornire un adeguato e regolare sviluppo delle capacità sulla Convenzione,
sul Protocollo opzionale e sulle raccomandazioni generali del Comitato, in particolare sulle raccomandazioni generali n. 19, 35 e 33, per i giudici, gli avvocati e il personale addetto all’applicazione della legge; b. fornire adeguati programmi di sviluppo delle capacità per giudici, avvocati, funzionari delle forze dell’ordine, personale medico e tutte le altre parti interessate, per spiegare le dimensioni legali, culturali e sociali della violenza contro le donne e della discriminazione di genere; e c. Sviluppare, attuare e monitorare strategie per eliminare gli stereotipi di genere nei casi di violenza di genere che includano: evidenziare i danni degli stereotipi di genere in ambito giudiziario attraverso ricerche basate sull’evidenza e l’identificazione delle migliori pratiche; sostenere riforme legali e politiche; monitorare e analizzare i precedenti e le tendenze nel ragionamento giudiziario; consentire la contestazione; d. i singoli episodi di stereotipi di genere in ambito giudiziario; migliorare la capacità di supervisione. (iii) Introdurre misure legislative concrete per garantire che l’onere della prova non sia eccessivamente oneroso o vago, portando a un’interpretazione troppo ampia o di vasta portata, tra cui: a. Modificare la definizione di tutti i reati sessuali che coinvolgono vittime in grado di dare il proprio consenso legale, per includere il consenso come elemento determinante; b. Quando il consenso viene invocato come difesa, l’onere della prova non dovrebbe essere a carico della vittima per dimostrare che ha comunicato una inequivocabile mancanza di consenso, ma deve passare all’imputato che, nell’invocare la difesa, deve dimostrare una fondata convinzione di consenso affermativo; e c. eliminare l’obbligo, nella definizione degli elementi dei reati sessuali, di provare la penetrazione, la forza o la violenza da parte della vittima, a meno che non sia necessario per stabilire un reato aggiuntivo o aggravante”.
5. Conclusioni
Senza entrare nel merito della questione, l’intervento del Comitato dell’ONU per l’eliminazione della discriminazione contro le donne, con particolar riguardo alle raccomandazioni formulate nella fattispecie in esame, rende evidente che, sebbene la legislazione nostrana sia stata fortemente modificata, nel corso di questi anni, proprio per contrastare in modo più efficace la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, oltre che garantire la parità di genere, ancora si debba fare molto.
L’auspicio, quindi, è che tale provvedimento possa rappresentare uno stimolo per il legislatore nell’adottare una normativa maggiormente proficua per risolvere tali problematiche.
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