Discriminazione fiscale delle famiglie monoreddito e/o numerose

Ben quarant’anni fa, con la nota sentenza n.179 del 15 luglio 1976, Corte Costituzionale ritenne “opportuno di fermare l’attenzione sopra alcuni aspetti o profili della disciplina dell’IRPEF” […]. Le norme […] violano il principio di eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge e non sono ordinate sulla eguaglianza giuridica dei coniugi. A fronte di situazioni eguali si hanno trattamenti differenti”.

In particolare, la Corte rilevò che “si é posto in essere nei confronti dei coniugi conviventi un trattamento fiscale più oneroso rispetto a quello previsto per conviventi non uniti in matrimonio (che vengono assoggettati separatamente all’imposta, pur beneficiando degli eventuali vantaggi connessi o conseguenti alla vita in comune).”

La Corte sottolineò che “il trattamento differenziato o diverso non ha alcuna razionale giustificazione né appare finalizzato a garantire o tutelare l’unità familiare […] appare evidente anche il contrasto con l’art. 31 della Costituzione. La normativa in esame non “agevola con misure economiche ed altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi” ed anzi dà vita per i nuclei familiari legittimi e nei confronti delle unioni libere, delle famiglie di fatto e di altre convivenze familiari, ad un trattamento deteriore. […] Ricorre, infine, il mancato rispetto dell’art. 53 della Costituzione” e “non é dimostrato né dimostrabile, anche per la grande varietà delle possibili ipotesi e delle situazioni concrete (caratterizzate, tra l’altro, dalla esistenza di figli), che in ogni caso per tale influenza si abbia un aumento della capacità contributiva dei due soggetti insieme considerati”.

Infine, il Giudice delle Leggi ribadì “l’esigenza che i principi della personalità e della progressività dell’imposta siano esattamente applicati; che la soggettività passiva dell’imposta sia riconosciuta ad ogni persona fisica con riguardo alla sua capacità contributiva;”

“Nel contempo la Corte” volle esprimere “l’auspicio che sulla base delle dichiarazioni dei propri redditi fatte dai coniugi, ed in un sistema ordinato sulla tassazione separata dei rispettivi redditi complessivi, possa essere data ai coniugi la facoltà di optare per un differente sistema di tassazione (espresso in un solo senso o articolato in più modi) che agevoli la formazione e lo sviluppo della famiglia e consideri la posizione della donna casalinga e lavoratrice.”

Dopo altri sette lunghi anni, la Corte Costituzionale, con l’altrettanto nota sentenza n.76 del 23 marzo 1983, tornò sull’argomento e rinnovò l’invito al legislatore ad “apprestare rimedio alle sperequazioni che da tale sistema, rigidamente applicato, potrebbero derivare in danno della famiglia nella quale uno solo dei coniugi possegga reddito tassabile, rispetto a quella in cui ambedue i coniugi posseggono reddito, pari nel complessivo ammontare a quello della famiglia monoreddito, ma soggetto a tassazione separata, con aliquote più lievi per le due componenti”. La Corte aggiunse che “l’innegabile esigenza di correggere tali effetti distorsivi, nella prospettiva di quel favor familiae cui si informa l’art. 31 della Costituzione, può, invero, venire appagata sia con oculata scelta di un sistema alternativo, suscettibile di essere affiancato in via opzionale al sistema della tassazione separata, sia anche all’interno di quest’ultimo, ristrutturando gli oneri deducibili e le detrazioni soggettive dell’imposta per meglio adeguarli all’esigenza medesima”.

I due autorevoli moniti del Giudice delle Leggi spinsero il Parlamento a delegare il Governo ad “adottare, entro il 31 dicembre 1992, uno o più decreti legislativi concernenti la revisione del trattamento tributario dei redditi della famiglia” secondo una lunga indicazione di principi e criteri direttivi (tra i quali la “commisurazione dell’imposta alla capacità contributiva del nucleo familiare tenendo conto del numero delle persone che lo compongono e dei redditi da esse posseduti” mediante l’applicazione dell’aliquota media corrispondente al reddito complessivo diviso per il numero dei componenti del nucleo).

Dopo aver inutilmente atteso qualcosa di concreto dall’entrata in vigore della legge delega ed a distanza di ben vent’anni dal primo monito (di cui alla citata prima sentenza n.179), il tema della discriminazione fiscale della famiglia matrimoniale venne nuovamente discusso in Parlamento  nelle sedute dei 7 e 8 febbraio 1995, nel corso delle quali vennero depositate ben dodici mozioni, in cui si “impegnava il Governo a realizzare un sistema di assegni familiari di idonea e significativa portata economica, con particolare riguardo alle famiglie numerose e monoreddito”, e lo si sollecitava ad emanare “provvedimenti per una più ampia tutela fiscale con l’introduzione del cosiddetto quoziente familiare o di un metodo equivalente che, nel tassare il reddito familiare, tenga conto del numero dei componenti, riducendo le imposte alle famiglie monoreddito e numerose”.

Poco dopo (ma a distanza di quattro lustri dal primo richiamo al Legislatore), la Corte Costituzionale, con la sentenza n.358 del 24 luglio 1995, verificò “conclusivamente che dai calcoli tributari si constata senza dubbio che l’attuale trattamento fiscale della famiglia penalizza i nuclei monoreddito e le famiglie numerose con componenti che non producono o svolgono lavoro casalingo. Queste famiglie infatti – che dovrebbero essere agevolate ai sensi dell’art. 31 della Costituzione – sono tenute a corrisponde re un’imposta sui redditi delle persone fisiche notevolmente superiore rispetto ad altri nuclei familiari composti dallo stesso numero di componenti e con lo stesso reddito, ma percepito da più di uno dei suoi membri. Tali effetti distorsivi furono – come si è già notato – segnalati più volte da questa Corte, dalla dottrina e dallo stesso legislatore che, con la legge n. 408 del 1990, delegò il Governo a provvedere adeguatamente, senza peraltro che tale delega abbia avuto, fino ad oggi, alcun seguito.

Ciò nonostante, è altrettanto evidente che i rimedi per il necessario ristabilimento dell’equità fiscale in materia e la tutela della famiglia sotto questo aspetto non possono essere apprestati da questa Corte mediante l’accoglimento della questione nei termini in cui è proposta, in quanto ciò implicherebbe pluralità di complesse scelte, come emerge dalle varie ipotesi prospettate dalla citata sentenza n.76 del 1983, dalle diverse esperienze di altri Stati e dall’ampio recente dibattito parlamentare: scelte che competono esclusivamente al legislatore. Né sarebbe percorribile la via indicata nell’ordinanza di rimessione, e cioè una pronuncia che, senza prefigurare in positivo l’articolazione di nuovi criteri di tassazione dei redditi della famiglia, di spettanza del legislatore, si limiti a dichiarare l’illegittimità costituzionale delle disposizioni vigenti: ciò infatti sarebbe fonte di inammissibili lacune nella disciplina, riguardo ad una materia che richiede, invece, il costante equilibrio del sistema. Nell’ambito della complessità delle scelte e della modulazione delle soluzioni che si intendono introdurre, al legislatore spetta pertanto tener conto anche delle eventuali ricadute delle auspicate innovazioni, oltre che del reperimento delle risorse relative alla ripercussione sul gettito tributario. In ogni caso, pur con queste cautele e nella prospettiva di tutto il quadro delle varie situazioni, il legislatore non dovrà consentire ulteriormente, per rispetto ai principi costituzionali indicati ed ai criteri di giustizia tributaria, il protrarsi delle indicate sperequazioni in danno delle famiglie monoreddito e numerose.”

La quarantennale discriminazione fiscale delle Famiglie monoreddito e/o numerose (il Piano Nazionale per la Famiglia, varato nel 2012 dal Consiglio dei Ministri, definisce numerosa la famiglia con almeno tre figli) continua ad impoverirle ed a penalizzarle, nonostante gli allarmanti dati demografici segnalino una denatalità galoppante che rende ormai insostenibile l’attuale sistema del welfare state (è in costante flessione il numero delle generazioni di lavoratori che devono e dovranno in futuro continuare a sostenere il peso crescente della spesa sanitaria e delle pensioni, incluse quelle di reversibilità, che aumenteranno sensibilmente dopo il varo della c.d. Legge Cirinnà).

Si tratta quindi di ristabilire con urgenza l’eguaglianza fiscale e poi passare finalmente all’attuazione delle agevolazioni di cui all’art.31 Cost., dopo avere posto sollecito rimedio all’odiosa discriminazione attuale.

Il contesto costituzionale appare però “ingessato” in attesa di una risposta legislativa organica ai pesanti e plurimi moniti della Corte Costituzionale degli ultimi quarant’anni.

Invero, se escludiamo l’ipotesi remota di un intervento di espunzione delle norme incostituzionali da parte del Giudice delle Leggi, non esiste un rimedio specifico per superare il perdurante immobilismo del Legislatore sull’argomento.

L’unica strada percorribile, dinanzi alla scelta prudenziale della Corte di non eliminare dall’ordinamento le norme tributarie discriminatorie delle famiglie monoreddito e/o numerose, resta l’auspicabile intervento del Presidente della Repubblica, quale garante della Costituzione, il quale potrebbe inviare messaggi alle Camere (art.87 Cost.) affinché legiferino per rimediare alle suindicate sperequazioni, che potrebbe convocarle all’uopo in via straordinaria (art.62 Cost.) e che potrebbe, in ogni caso, non promulgare quelle leggi in materia che non ristabiliscono l’agognata equità fiscale in questione, rinviandole alle Camere, con messaggio motivato (art.74 Cost.).

Del resto, non mancano certo le possibili soluzioni legislative al superamento della quarantennale discriminazione fiscale. Così, accanto a quella del c.d. “quoziente familiare”, si pone l’originale proposta elaborata nel 2010 e denominata “Fattore Famiglia”, che prevede un’area non tassabile proporzionale alle necessità primarie di ogni cittadino e della sua famiglia, che hanno (entrambi) il diritto costituzionale (art.36 Cost.) ad “un’esistenza libera e dignitosa”.

Tali necessità primarie non esprimono “capacità contributiva” ex art.53 Cost. e  quindi non vanno tassate.

Per individuare la “no tax area” relativa ai redditi necessari alla sopravvivenza “libera e dignitosa”, occorre previamente quantificare i costi di mantenimento e di accrescimento imprescindibili di ciascun cittadino (es. con riferimento alla soglia di povertà relativa, rilevata annualmente dall’Istat) a cui vanno sommati i costi di mantenimento e di accrescimento imprescindibili di ciascun componente del suo eventuale nucleo famigliare, secondo una scala di equivalenza modulata su numerosità e problematiche varie (non autosufficienza, disabilità, monogenitorialità, vedovanza ed eventuali ulteriori), connesse al nucleo stesso.

Ovviamente, i costi essenziali per “mantenere, educare ed istruire i figli”, costituendo un “dovere” ineludibile di rango costituzionale ex art.30 Cost., concorrono alla determinazione del reddito non tassabile, “con particolare riguardo alle famiglie numerose”, ex art.31 Cost..

Dunque, la soglia reddituale non tassabile sarà fissa per ciascun cittadino e si eleverà soltanto all’aumentare dei carichi familiari e nei limiti che verranno prestabiliti per gli stessi.

Superata tale soglia variabile di area non tassata, si applicheranno le attuali aliquote progressive Irpef previste ai livelli predefiniti, dato che il “Fattore Famiglia” procede partendo dal basso, cioè dalla parte bassa del reddito, non dalla parte alta (come invece avviene per il c.d. Quoziente Familiare).

La “no tax area” potrà risultare superiore al reddito (aumentato da eventuali carichi familiari). In tal caso, il problema potrà risolversi prevedendo un credito di imposta o erogando tale differenza in danaro in favore dei c.d. “incapienti”. Peraltro, la differenza in meno rispetto alla soglia reddituale non tassabile potrà essere colmata anche mediante il cumulo di entrambe le soluzioni. Si potrebbe cioè prevedere la coesistenza (in un rapporto percentuale da stabilirsi) di un credito di imposta e di una dazione in danaro in favore dei cittadini e delle loro famiglie “incapienti”, con una sorta di reddito di cittadinanza a misura di famiglia.

Il credito d’imposta potrebbe utilizzarsi senza limiti temporali e potrebbe configurarsi come credito del futuro datore di lavoro, che verrebbe così invogliato ad assumere, o a vantaggio del cittadino, che ne fruirà soltanto e nel momento in cui produrrà reddito (da lavoro dipendente o autonomo).

La questione è urgente e le soluzioni normative sono semplici. Ci auguriamo che non si risponda che non ci sono i soldi per rimediare ad una discriminazione vecchia di quarant’anni.

Avv. Bianchini Francesco

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