Alla luce delle evoluzioni dottrinali e giurisprudenziali in materia di distanze legali, sembra che possa dirsi sussistente una tendenza a preservare, ove possibile, il mantenimento delle costruzioni erette in violazione – più frequentemente – delle disposizioni codicistiche, laddove, ad esempio, si ravvisino gli estremi dell’acquisto ad usucapionem di una servitù di mantenimento a distanza illegale. Tale tendenza non solo è emersa nella giurisprudenza recente, bensì (e quasi paradossalmente) ha costituito un passaggio fondamentale per il consolidamento del regime dei rimedi avverso le predette violazioni.
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Il dato codicistico
Al fine di fornire un quadro generale in relazione alla tematica oggetto d’esame nonché al fine di garantire una maggiore comprensione delle considerazioni che si proveranno a svolgere nei successivi paragrafi, specie in relazione ad un excursus di pronunce giurisprudenziali che si intendono in questa sede segnalare in materia di distanze legali, può essere utile ricordare il contenuto delle norme codicistiche principali.
Più precisamente, il codice civile contiene, nel libro III, titolo II, sezione VI, rubricato “Delle distanze nelle costruzioni, piantagioni e scavi, e dei muri, fossi e siepi, interposti tra i fondi”, numerose norme in materia di distanze tra edifici contigui.
In questa sede si vuole porre l’accento esclusivamente sulle norme disciplinanti le costruzioni in quanto tali, tralasciando dunque le norme dedicate a luci, vedute, stillicidio ed acque.
Ai sensi dell’art. 873 cc, si legge che le costruzioni su fondi finitimi, se non sono unite o aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre metri. Tale limite, a mente dell’ultimo periodo, è derogabile, mediante previsione di una distanza maggiore, nei regolamenti locali.
La norma successiva, ancora, recita che: “ il proprietario di un fondo contiguo al muro altrui può chiederne la comunione per tutta l’altezza o per parte di essa, purché lo faccia per tutta l’estensione della sua proprietà. Per ottenere la comunione deve pagare la metà del valore del muro, o della parte di muro resa comune, e la metà del valore del suolo su cui il muro è costruito. Deve, inoltre, eseguire le opere che occorrono per non danneggiare il vicino”
Qualora il muro dovesse trovarsi ad una distanza dal confine minore di un metro e mezzo ovvero ad una distanza minore della metà di quella stabilita dai regolamenti locali, il vicino – chiarisce l’art. 875 cc – è chiamato a richiedere la comunione del muro, soltanto allo scopo di fabbricare contro il muro stesso. A tal fine è chiamato a pagare, oltre al valore della metà del muro, il valore del suolo da occupare con la nuova fabbrica, salvo che il proprietario preferisca estendere il suo muro sino al confine.
Pertanto, il vicino che intende domandare la comunione deve interpellare preventivamente il proprietario chiedendo se preferisca estendere il muro al confine o di procedere alla sua demolizione.
Il proprietario è chiamato a manifestare la propria volontà entro il termine di quindici giorni e deve procedere alla costruzione e demolizione entro sei mesi dal giorno in cui ha comunicato la risposta.
Gli artt. da 876 ad 881 cc., ancora, disciplinano rispettivamente, l’innesto nel muro di confine, la costruzione in aderenza, il muro di cinta, gli edifici non soggetti ad obbligo di mantenimento delle distanze legali, la presunzione di comunione del muro divisorio.
Volendo sintetizzare il contenuto delle predette norme, si può al riguardo ricordare come il legislatore abbia inteso regolamentare non solamente l’esatta quantificazione in metri della distanza tra due edifici (per il calcolo della quale, può essere utile ricordarlo, non si computa né il muro di cinta né ogni altro muro che non abbia un’altezza superiore ai tre metri), al fine di evitare la formazione di intercapedini, bensì abbia inteso disciplinare anche fenomeni di trasformazione delle stesse.
Più precisamente, a mente dell’art. 876 cc il legislatore ha previsto il pagamento di una indennità e non la comunione forzosa nell’ipotesi in cui il vicino volesse servirsi del muro esistente sul confine qualora intenda innestarvi un capo del proprio muro. Ancora, è possibile evitare la comunione del muro qualora il vicino intenda costruire si sul confine ma in aderenza e senza appoggiare la propria costruzione a quella preesistente.
Nulla esclude, invece, che il muro divenga comune, qualora pur essendo posto sul confine, venga utilizzato per finalità di appoggio, purché non preesista al di là un edificio a distanza inferiore di tre metri.
Ancora, il muro che serve per creare una divisione tra edifici si presume comune fino alla sua sommità e, in caso di altezze ineguali, fino al punto in cui uno degli edifici comincia ad essere più alto. Si presume, comunque, comune il muro che serve di divisione tra cortili, giardini ed orti o tra recinti nei campi (art. 880 cc.).
Tutto quanto sin qui riportato può essere considerato derogato nelle ipotesi indicate dall’art. 879 cc.
A mente del comma primo, si chiarisce che alla comunione forzosa non sono soggetti gli edifici appartenenti al demanio pubblico e quelli soggetti allo stesso regime, né gli edifici ai quali si attribuisce la valenza di edificio di interesse storico, archeologico o artistico, a norma delle leggi in materia. Il vicino, tra l’altro, non è chiamato neanche ad usare la facoltà concessa dall’art. 877 cc[1].
Ancor più significativo è il comma secondo, con il quale il legislatore ha espressamente chiarito che alle costruzioni che si fanno in confine con le piazze e le vie pubbliche non si applicano le norme relative alle distanze (e, quindi, non troverà applicazione il contenuto dell’art. 873 cc) , ma devono osservarsi le leggi ed i regolamenti che le riguardano.
Passando all’esame della fase patologica dei rapporti di vicinato, può essere utile riferirsi agli artt. 882 e 883 cc. A mente del primo comma, le riparazioni e le ricostruzioni necessarie del muro comune sono a carico di tutti quelli che vi hanno diritto ed in proporzione del diritto di ciascuno, salvo che la spesa sia stata cagionata dal fatto di uno dei partecipanti. Il comproprietario del muro comune può esimersi dall’obbligo di contribuire nelle spese di riparazione e ricostruzione, rinunziando al diritto di comunione, purché il muro comune non sostenga un edificio di sua spettanza.
Qualora, per contro, il proprietario voglia atterrare un edificio sostenuto da un muro comune può rinunciare alla comunione con il predetto muro ma, affinché possa esercitare liberamente questo diritto, dovrà farsi carico delle riparazioni e delle opere che la demolizione rende necessarie ed opportune al fine di garantire l’esenzione da danni del vicino.
Un ulteriore insieme di norme che compone la sezione VI, rilevanti per la presente indagine, è quello che ricomprende gli artt. da 884 ad 888 cc, con le quali il legislatore definisce gli ultimi poteri spettanti ai proprietari in relazione ai muri comuni, nonché definisce le distanze per pozzi, fabbriche e depositi nocivi, distanze per alberi, comunioni di siepi e fossi.
Con esse si attribuisce al comproprietario del muro comune la possibilità di fabbricare appoggiandovi le costruzioni, immettendo travi, purché le mantenga a distanza di cinque centimetri dalla superficie opposta, salvo il diritto dell’altro comproprietario di fare accorciare la trave fino alla metà del muro.
E’ consentito al proprietario di attraversare il muro comune con chiavi e catene di rinforzo, mantenendo la stessa distanza. Egli è, comunque, sempre tenuto a riparare i danni causati dalle opere compiute. Non può fare incavi nel muro comune, né eseguire altre opere che ne compromettano la stabilità o che in altro modo lo danneggi.
Qualora sussista un regime di comproprietà è possibile innalzare il muro comune, ma a carico del comproprietario sono poste tutte le spese di costruzione, conservazione della parte sopraedificata. Con riguardo alla costruzione, ciascuno può costringere il vicino a contribuire per metà nella spesa di costruzione di muri di cinta che separano le rispettive case, i cortili ed i giardini posti negli abitati.
Se di due fondi posti negli abitati uno è superiore e l’altro inferiore, il proprietario del fondo superiore deve sopportare per intero le spese di ricostruzione e conservazione del muro dalle fondamenta all’altezza del proprio suolo, ed entrambi i proprietari devono contribuire per tutta la restante altezza.
Sussiste esenzione dal contribuire alle spese di costruzione di un eventuale muro di cinta o divisorio, cedendo, senza diritto a compenso, la metà del terreno su cui il muro di separazione deve essere ricostruito. In tal caso il muro è di proprietà di colui che l’ha costruito, salva la facoltà del vicino di renderlo comune ai sensi dell’art. 874 cc, senza obbligo di pagare la metà del valore del suolo su cui il muro è stato costruito.
Infine, gli artt. da 889 ad 899 cc., contengono le ultime indicazioni per chiarire le effettive distanze tra pozzi, cisterne, fosse, tubi depositi novici o pericolosi, alberi presso strade, canali e sul confine di boschi, alberi a distanza non legale, divieto di ripiantare alberi a distanza legale, rescissione di rami protesi e di radici. Ancora sussistono distanze minime per gli apiari, comunioni di fossi, siepi ed alberi.
Brevemente, chi vuole aprire pozzi, cisterne fosse di latrina o concime è chiamato ad osservare la distanza di almeno due metri tra il confine ed il punto più vicino del perimetro interno delle opere predette. Chi vuole fabbricare presso il confine forni, camini magazzini di sale, stalle e simili, ovvero vuole piantare macchinari è chiamato ad osservare le distanze dei regolamenti o, in mancanza, quelle funzionali a garantire il mantenimento di un livello adeguato di solidità, salubrità, sicurezza.
Chi vuole scavare fossi o canali presso il confine deve osservare una distanza eguale alla profondità del fosso o canale. La distanza si misura dal confine al ciglio della sponda più vicina, la quale deve essere a scarpa naturale ovvero minuta di opere di sostegno. Chi desidera piantare alberi presso il confine deve osservare le distanze stabilite dai regolamenti e, in mancanza, dagli usi locali. Per ciascuna specie di albero, inoltre, la norma riporta le distanze effettivamente individuabili.
A differenza di quanto può accadere ad una costruzione edificata a distanza illegale, fatta salva l’usucapione, il vicino non ha facoltà di esigere che si estirpino gli alberi e le siepi che sono piantati o nascono a distanza minore rispetto a quella indicata nel codice civile.
Regola generale, posta allo specifico fine di garantire i buoni rapporti di vicinato, è quella secondo cui se sul fondo si protendono i rami degli alberi del vicino, quest’ultimo può in qualsiasi tempo essere costretto a tagliarli. Infine, il legislatore si preoccupa di chiarire che gli apiari devono essere collocati a meno di dieci metri da strade di pubblico transito e a non meno di cinque metri dai confini di proprietà pubbliche o private. Il rispetto delle distanze di cui al comma primo, non è obbligatorio se tra l’apiario ed i luoghi esistono dislivelli di almeno due metri o se sono interposti, senza soluzioni di continuità, muri, siepi o altri ripari idonei a non consentire il passaggio delle api.
Con riguardo ai fossi, ogni fosso interposto tra due fondi si presume comune. Si presume che il fosso appartenga al proprietario che se ne serve per gli scoli delle sue terre o al proprietario del fondo dalla cui parte è il getto della terra o lo spurgo ammucchiatovi da almeno tre anni. Con riguardo alle siepi, ogni siepe si presume comune ed è mantenuta a spese comuni, salvo che vi sia termine di confine o altra prova in contrario. Gli alberi sorgenti nella siepe comune sono comuni, gli alberi sorgenti sulla linea di confine si presumono comuni, salvo titolo o prova in contrario.
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La ratio delle distanze legali
“I confini del fondo segnano, in senso orizzontale, il limite entro il quale ciascun proprietario esercita la facoltà di godimento insita nel suo diritto di proprietà. In linea di principio, l’attività di godimento di ogni proprietario deve essere contenuta entro i propri confini[2]”. Eppure, l’intera ricostruzione normativa precedentemente riportata lascia agevolmente comprendere come non sia possibile, di fatto, non interagire con ciò che si cela al di fuori del proprio recinto. Pertanto, è indispensabile comprendere: a. la ratio della disciplina posta a tutela delle distanze legali; b. la ratio della consequenziale disciplina del principio di prevenzione.
Come precedentemente indicato, ai sensi dell’art. 873 cc è necessario che tra due costruzioni ci sia una distanza minima di tre metri, eventualmente aumentabile attraverso disposizioni extracodicistiche. La dottrina e la giurisprudenza dominanti, se non proprio unanimi, tendono ad attribuire emblematicamente a tale norma – ma, di fatto, implicitamente il ragionamento si estende anche a tutte le altre norme recanti discipline sulle distanze – una duplice funzione: di regolazione dei rapporti di vicinato, da un lato, e di tutela della salubrità dell’ambiente dall’altro, al precipuo fine di evitare la formazione di intercapedini ed infiltrazioni. Come si evince dalla lettura del precedente paragrafo, il linguaggio usato dal legislatore è volutamente inteso a far ricomprendere il senso della disciplina codicistica: si parla, infatti, di rimozione di cumuli di sporco e di rami da tagliare, se particolarmente lunghi.
L’intento, pertanto, è quello di garantire non solo la pacifica convivenza tra i consociati, ma anche quella di garantire un generale “ordine urbanistico”[3].
La necessità di regolare i rapporti tra vicini rende agevole comprendere per quale motivo possa acquisire rilievo l’esercizio del jus aedificandi da parte di uno dei proprietari per primo rispetto all’altro. Se, infatti, è necessario rispettare la distanza di tre metri, come chiarito dall’art. 873 cc e se A costruisce per primo rispetto a B, sarà B necessariamente a doversi adeguare ed a fare in modo che la propria costruzione sia distante tre metri da quella creata da A.
In ciò risiede l’essenza del cd. principio di prevenzione[4], attraverso il quale si tendono a regolare i rapporti tra primo e secondo costruttore.
Più precisamente e volendo prendere in prestito le parole di autorevole dottrina[5], esaminando l’intera disciplina delle distanze legali, è evidente che <<risulta favorito, tra due proprietari, quello che costruisce per primo (principio cosiddetto della prevenzione temporale): egli può costruire a meno di un metro e mezzo dal confine o sullo stesso confine, costringendo l’altro, se intende costruire a sua volta, ad arretrare il fronte della propria costruzione, in modo da rispettare la distanza di legge,o ad avanzarlo per costruire in appoggio al muro del vicino (pagando la metà del valore del muro, che diventa muro di comproprietà) o in aderenza ad esso e pagando il valore del suolo del vicino che abbia occupato con la sua costruzione. Se il secondo, invece, costruisce in modo da violare la distanza legale dalla preesistente costruzione, il primo può esigere la riduzione in pristino (art. 872, comma secondo cc.), ossia la demolizione di quella parte della costruzione che eccede le distanze consentite. Il favore legislativo per chi costruisce per primo si manifesta anche nel fatto che il vicino, costretto ad arretrare il fronte della propria costruzione, non ha diritto di farsi indennizzare per il valore del suolo rimasto inedificabile>>.
Ancora, gli stessi regolamenti comunali, oltre a prevedere distanze tra le costruzioni maggiori rispetto alla disciplina di tre metri prima individuata, possono imporre distanze non tra costruzioni bensì anche dal confine. Qualora sia prevista una disciplina di distanza legale anche rispetto al confine, il principio di prevenzione risulterà inoperante. Ciò in quanto sarà soggetta a riduzione in pristino anche la costruzione del primo costruttore[6]. Riguardo alla operatività o meno del principio di prevenzione in relazione alle distanze dal confine, occorre tuttavia fare qualche ulteriore precisazione.
Come detto, l’opinione maggioritaria vuole l’inoperatività del criterio di prevenzione nell’ipotesi in cui, effettivamente, il regolamento, integrante le norme codicistiche, preveda una distanza dal confine. In tali contesti neppure il primo costruttore potrebbe salvarsi da eventuali controversie.
Pur, tuttavia, non è apparso subito di immediata comprensione il caso in cui, invero, il regolamento si limiti ad aumentare la distanza tra costruzione rispetto ai tre metri, tacendo riguardo alla eventuale distanza che la costruzione dovrebbe possedere dal confine.
La risoluzione della questione ha comportato l’insorgenza di due diversi orientamenti.
Secondo un primo orientamento, si sarebbe dovuto ritenere esistente, seppur in via deduttiva ed implicita, anche una previsione di una distanza dal confine non inferiore alla metà di quella prevista dal regolamento derogatorio del regime codicistico. Ne discendeva l’inoperatività del criterio della prevenzione.
Un secondo e diverso orientamento, per contro, faceva leva sulla esigenza di evidenziare l’assenza di un esplicito dato normativo che regolasse la distanza anche dal confine. Pertanto, il principio di prevenzione poteva considerarsi applicabile[7].
A dirimere il contrasto sono intervenute le Sezioni Unite della Corte di cassazione, le quali hanno chiarito che la previsione, all’interno di un regolamento locale, di una distanza maggiore rispetto ai tre metri tra costruzione fungerebbe da automatico limite al principio di prevenzione. Ciò in quanto l’obbligo di rispetto delle distanze dovrebbe gravare tanto sul primo costruttore quanto sul secondo costruttore.
Pur tuttavia, tale conclusione dovrebbe essere considerata valida solamente nell’ipotesi in cui, effettivamente il regolamento preveda non solo una deroga all’art. 873 cc, bensì anche il divieto di costruzione in aderenza/appoggio. Laddove, per contro, tale chiara limitazione non si ravvisi, i supremi giudici hanno ritenuto di poter considerare operante il principio in parola dal momento che il regolamento locale si limita semplicemente ad integrare le norme sulle distanze, le quali ricomprendono anche il meccanismo della prevenzione.
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I rimedi avverso le violazioni delle distanze
Chiarito quali sono le norme più rilevanti e significative ed evidenziato l’ambito di operatività del principio di prevenzione, si può ora porre l’accento sui rimedi che possono essere individuati in ipotesi di violazione delle distanze legali, soprattutto alla luce degli orientamenti giurisprudenziali emersi sul tema.
La tematica non può prescindere dall’esame dell’art. 872 cc, rubricato proprio “violazione delle norme di edilizia”. La norma recita che le conseguenze di carattere amministrativo della violazione delle norme indicate dall’articolo precedente sono stabilite da leggi speciali. Colui che per effetto della violazione ha subito danno deve esserne risarcito, salva la facoltà di chiedere la riduzione in pristino.
La norma, dunque, rappresenta il fondamento normativo volto a garantire, da un lato, una tutela risarcitoria mediante azione personale (oltre a possibili tutele inibitorie). Dall’altro, come si evince ancora dal tenore letterale, sussiste una tutela reale, esperibile nei confronti del proprietario dell’immobile.
Se l’azione personale non pone problemi in quanto esperita nei confronti di chi ha commesso il fatto illecito, la tutela reale, per contro, impone qualche riflessione nell’ipotesi in cui ci siano terzi aventi causa.
Più precisamente, la tematica involge in sé il problema della trascrivibilità o meno delle domane volte a far emergere giudizialmente il mancato rispetto delle distanze legali. La predetta azione non appare qualificabile né alla stregua di una azione di rivendica né sussistono gli estremi per una sua qualificazione come actio negatoria servitutis. Pertanto, almeno in primo momento, si era ritenuto di non poterla far rientrare nella disciplina di cui all’art. 2653 cc.
La norma, nell’estendere l’elenco degli atti trascrivibili, si riferisce, non a caso, esclusivamente alle domande dirette a rivendicare la proprietà, i diritti reali di godimento su beni immobili nonché le domande volte all’accertamento dei diritti stessi, ma non ricomprende anche azioni non riconducibili nel genus dell’actio confessoria/negatoria.Ne discendeva la non trascrivibilità della domanda, con conseguente incautelabilità degli eventuali acquirenti.
Per ovviare a tali problematiche e, dunque, per includere l’azione diretta all’ottenimento dell’accertamento giudiziale della violazione del limite legale e della conseguente demolizione/arretramento nell’elenco di quelle trascrivibili, si era iniziato ad ipotizzare la possibilità che, decorsi venti anni dalla costruzione a distanza illegale, si potesse effettivamente verificare un acquisto a titolo di usucapione di una specie di diritto reale consistente nel mantenimento della costruzione a distanza illegale, poi meglio qualificato come diritto reale di servitù.
La possibile prospettazione di una cristallizzazione mediante possesso ad usucapionem di quello che si è poi qualificato come “diritto reale di servitù di mantenimento a distanza illegale di una costruzione” risolveva automaticamente il problema della qualificazione giuridica dell’azione ai fini della tutela del terzo ex art. 2653 cc. Ciò in quanto, in presenza di un diritto reale tipico e ben identificato, diveniva semplice qualificare l’azione volta all’accertamento della violazione della distanza ed arretramento come azione riconducibile nel novero delle actiones negatoriae[8] . L’individuazione del rimedio predetto a tutela del terzo – ovvero l’avente causa a titolo particolare che, chiaramente, ha tutto l’interesse a conoscere gli estremi delle possibili controversie che possono sorgere in relazione al diritto di proprietà che intende acquistare – ha origini non recentissime, in quanto l’evoluzione giurisprudenziale volta a garantire l’acquisto a titolo originario ad usucapionem del diritto – qualificato, come più volte ripetuto di servitù – di mantenimento a distanza illegale di una costruzione era già in essere negli anni Ottanta, volendo prendere in considerazione solamente la giurisprudenza più significativa.
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La giurisprudenza più rilevante dagli anni ’80 ad oggi
La tematica dei rimedi poc’anzi individuata impone conseguentemente di spender qualche rigo sulla consequenziale tematica dell’ammissibilità dell’usucapione di una servitù di mantenimento a distanza illegale di una costruzione.
Ai fini della comprensione delle principali perplessità sollevate a livello dottrinale e sconfessate dalla giurisprudenza, può essere utile sin da subito rilevare come non sussistano perplessità in ordine alla usucapibilità degli iura in re aliena, in virtù del chiaro dettato di cui all’art. 1158 cc. La norma, non a caso, chiarisce che non solo la proprietà di beni immobili ma anche gli altri diritti reali di godimento sui beni medesimi si acquistano in virtù del possesso continuato per venti anni.
Il problema, pertanto, non è, ovviamente, quello di andare a verificare se si possa usucapire un diritto di servitù (che, ai sensi dell’art. 1061 cc., deve necessariamente essere apparente), quanto quello di verificare se possa essere usucapito il particolare diritto di servitù di mantenimento a distanza illegale e, dunque, in violazione degli artt. 873 e ss cc. nonché dei regolamenti locali.
Le perplessità nascevano, in primo luogo, dalla esigenza di preservare il carattere – secondo i più – inderogabile delle norme poste a presidio delle distanze legali da abusi dei privati, idonei a sfociare in una cattiva regolazione dei rapporti di vicinato. In secondo luogo, dalla esigenza di individuare effettivamente gli estremi del possesso utile ad usucapionem.
Con riguardo proprio a questo ultimo aspetto, è prevalso l’orientamento volto a qualificare il mancato rispetto della distanza esemplificativamente di tre metri ex art. 873 cc., alla stregua del possesso di una servitù[9]. Ancora, l’obiezione a mente della quale non sarebbe ipotizzabile l’acquisto al fine di evitare il diffondersi di deroghe alla normativa legale è apparsa labile, dal momento che, a conti fatti, l’istituto dell’usucapione è funzionale a garantire una esigenza di pari rango identificabile nella garanzia di certezza giuridica.
Su tali basi, così succintamente riassunte, si è sviluppato un florido filone giurisprudenziale, sfociato nel consolidamento dell’idea della usucapibilità della predetta servitù. Al fine di ripercorrere l’iter che ha condotto alle più recenti sentenze sul tema, i cui caratteri in fatto e diritto rappresentano una perfetto connubio delle nozioni fornite nei precedenti paragrafi, può essere utile esaminare una sentenza degli anni Ottanta in materia di sopraelevazione a distanza illegittima[10].
Più precisamente, il caso concreto non riguardava l’esplicita tematica dell’usucapibilità della servitù, ma imponeva di interrogarsi sui rimedi da applicare in ipotesi di costruzioni a distanza illegittima.
Lo stesso riguardava due proprietari di due fondi confinanti, i quali avevano costruito in aderenza sulla linea di confine e uno di essi aveva poi, successivamente, sopraelevato a distanza inferiore alla minima legale. Con riguardo a questo particolare caso, la Corte concluse per la ravvisabilità, da un lato, della facoltà di ciascuno di sopraelevare sul filo della sottostante costruzione.
Dall’altro, chiarì l’esigenza di far sorgere in capo al proprietario, autore della sopraelevazione a distanza illegale, solamente l’obbligo di arretrare la costruzione fino a mantenere la distanza minima tra questa e il confine, ma non quello di avanzarla fino al confine stesso.
Ai casi, come quello poc’anzi riportato, a mezzo dei quali emergeva un netto disfavore verso il mantenimento di costruzioni a distanza illegale, si iniziarono ad affiancare, tuttavia, anche negli stessi anni, sempre più spesso casi in cui, per contro, occorreva garantire il mantenimento della costruzione per garantire il prevalere delle sopra richiamate esigenze di certezza del diritto.
Basti pensare, guardando al ventennio successivo, alla sentenza n. 2159 del 2002, con la quale si sancì l’ammissibilità dell’acquisto ad usucapionem delle servitù di veduta illegittime.
Le stesse, rispecchiando il requisito della apparenza di cui all’art. 1061 cc, erano (e sono) usucapibili con il decorso del termine ventennale.
Coerentemente con quanto indicato in tema di rimedi, la Corte, in relazione al caso concreto sottoposto alla sua attenzione, ebbe altresì modo di precisare che, anche in relazione a tali vedute, l’azione negatoria rappresentava pur sempre uno strumento validamente proponibile, potendo il proprietario del fondo su cui si esercita la veduta da distanza illegale chiedere l’accertamento dell’inesistenza della servitù stessa ed anche la sua eliminazione.
Acclarata così l’ammissibilità dell’usucapibilità della servitù di mantenimento a distanza illegale di una costruzione, restava da interrogarsi in ordine al dies a quo del ventennio, al fine di comprendere quanto effettivamente la servitù poteva di dirsi usucapita e quindi, consolidata.
Sin dagli anni Novanta si iniziò a chiarire che, ai fini del calcolo della decorrenza del tempo necessario ad usucapionem, occorresse tener conto non del momento di inizio della attività edificatoria illegale, bensì della venuta ad esistenza della costruzione[11]. Il predetto orientamento può dirsi attualmente ancora in vigore, oltre che pacificamente accolto.
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Una recente sentenza del 2019
A chiusura del breve excursus di norme, principi rimedi e giurisprudenza più significativi, si vuole, infine, soffermare l’attenzione su una recente sentenze del 2019 che, pur non affrontando espressamente la tematica della usucapibilità della servitù di mantenimento a distanza illegale, consente ugualmente di individuare alcune argomentazioni a sostegno dell’esistenza di un certo favor espresso dalla giurisprudenza verso la conservazione della costruzione.
La sentenza sposta l’attenzione sulla costituzione della servitù mediante contratto[12]. Più nel dettaglio, i supremi giudici chiariscono che per mantenere una costruzione a distanza minore di quella prescritta dalla legge, non può dirsi sufficiente una scrittura unilaterale del proprietario del fondo vicino che autorizza la corrispondente servitù, ma si rende pur sempre opportuna la stipula di un contratto – essendo inidoneo, per i diritti reali, un atto ricognitivo – che dia luogo alla costituzione di una servitù prediale, ex art. 1058 c.c.
Pertanto,<<per l’esistenza di una valida volontà costitutiva di servitù in deroga alle distanze delle costruzioni o vedute, pur non occorrendo alcuna formula sacramentale, è comunque indispensabile che detta volontà sia deducibile da una dichiarazione scritta da cui risultino i termini precisi del rapporto reale tra vicini, nel senso che l’accordo faccia venir meno il limite legale per il proprietario del fondo dominante, che così acquista la facoltà di invadere la sfera esclusiva del fondo servente>>.
Tali assunti, da un lato, consentono dunque di confermare ancora una volta la ratio della disciplina delle distanze legali. Dall’altro, implicitamente ed in via deduttiva, fungono da strumento per superare quelle perplessità erano sorte in ordine alla ammissibilità della usucapione della servitù di mantenimento a distanza illegale, ancorata al carattere in teoria – ma evidentemente non nella pratica – inderogabile dell’art. 873 cc ( cui si contrappone il più certo carattere inderogabile delle disposizioni regolamentari sempre in materia di distanze).
Se, infatti, la prassi sembra consentire la deroga pattizia ai canonici tre metri, allora conseguentemente non possono dall’art. 873 cc essere tratte argomentazioni valide per negare il consolidarsi della servitù acquisita a titolo originario ad usucapinem. Ancora, la recente sentenza consente di comprendere la maggiore certezza raggiungibile mediante l’acquisto a titolo originario della servitù de qua, rispetto alla costituzione della stessa ex contractu.
Nel primo caso, infatti, per consolidare la stessa è sufficiente l’accertamento dei requisiti legali del possesso (che si è detto essere ammissibile anche in relazione all’attività di mantenimento) oltre al decorso del tempo (il cui dies a quo può dirsi oggi pacificamente indicato nella venuta ad esistenza della costruzione, come confermato non solo da sentenze remote, bensì anche da quelle più recenti). Nel secondo caso, per contro, si richiederebbe la più gravosa verifica del consenso di ambo le parti, atteso che,come chiarito, i supremi giudici hanno negato possa essere attribuito rilievo alle dichiarazioni unilaterali.
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Note
[1] Il predetto articolo, già richiamato nel corpo dello scritto, recita che : Il vicino, senza chiedere la comunione legale del muro posto sul confine, può costruire sul confine stesso in aderenza, ma senza appoggiare la sua fabbrica a quella preesistente.
[2] Così Galgano F., Trattato diritto civile, Vol. I, 2015, p. 412.
[3] Galgano, op. cit., chiarisce che : “gli interessi protetti dall’art. 873 cc non sono solo interessi privati: è protetto anche l’interesse alla pubblica igiene; perciò, i diritti che nascono da questa norma sono indisponibili; ed il proprietario non può validamente costituire sul proprio fondo una servitù che abiliti il vicino a costruire in deroga alle distanze legali tra costruzioni”.
[4] Sul punto, può essere utile ricordare la sentenza n. 3536 del 25/03/1995, in Giust. civ. Mass. 1995, 687
Univ. di Bari Facolta Giurisprudenza, secondo la quale : << In materia di costruzioni nella zona di confine, il principio della prevenzione conferisce al prevenuto la facoltà di avanzare la propria costruzione fino a quella posta nel fondo confinante a distanza illegale ma non gli toglie il diritto, ove non intenda avvalersi di questa facoltà, di chiedere l’arretramento della predetta costruzione>>. Ancora, rilevante la sentenza della Corte di cassazione civile sez. II – 20/04/1996, n. 3769, in Giust. civ. Mass. 1996, 616. Della stessa, relativa ad un caso in cui si è ritenuto inoperante il principio della prevenzione per l’esistenza di una servitù di passaggio che veniva esercitata su una striscia di terreno contigua al confine e che impediva al prevenuto di avanzare la sua costruzione fino a quella del preveniente, posta a distanza illegale, si riporta una massima: <<In tema di costruzioni sulla zona di confine, la scelta offerta al preveniente dal combinato disposto degli art. 873, 874, 875, 877 c.c. è subordinata alla possibilità, per il vicino, di esercitare, a sua volta, nella prima e nella terza ipotesi, il diritto di costruire in appoggio o in aderenza al muro del preveniente con la conseguenza che la predetta facoltà deve essere negata al preveniente se, in forza di un divieto di legge (norme del regolamento edilizio) o di particolari vincoli nascenti da negozio privato (es. servitù) o di situazioni giuridiche (canali di bonifica, corsi d’acqua) o dell’appartenenza a terzi di tale zona (o di parte di essa), non sia possibile al vicino spingere il proprio fabbricato sino a quello del preveniente; in questo caso, è il preveniente che deve rispettare il distacco legale dal confine e che si espone al rischio, nel caso di costruzione a distanza inferiore, di essere costretto dal vicino ad arretrare la sua costruzione fino a raggiungere la prescritta distanza legale dal confine>>.
[5] Galgano, op. cit.
[6] Così Cass. n. 23693 del 2014 e Cass., 5 Ottobre 2001, n. 12291 e Cass., 2 Ottobre 2000, n. 13007, in Mass. Foro It.
[7] La sintesi dei due orientamenti si deve ad R. Galli, nuovo corso di diritto civile, p. 361 e ss.
[8] Sul punto, in modo più esaustivo, R. Galli, Appendice di aggiornamento al “nuovo corso di diritto civile” ed al “nuovo corso di diritto penale”, 2017/2018, p. 35. Ed ancora, R. Galli, nuovo corso di diritto civile, op. cit. p. 363.
[9] Basti pensare al fatto che, con Cassazione civile sez. II – 05/08/1983,n. 5261, in Giust. civ. Mass. 1983, fasc. 8, si è chiarito che <<se la violazione dei limiti legali di buon vicinato non può essere repressa sul piano possessorio con l’azione di reintegrazione, perché lo spoglio postula una privazione del possesso, inconcepibile nel mero fatto della
costruzione dei balconi e di apertura di finestre a distanza illegale,l’inosservanza dei detti limiti può, tuttavia, concretare una molestia possessoria al vicino, tutelabile con l’azione di manutenzione, in quanto rivolta a far valere l’interesse a preservare sia in via provvisoria che definitiva l’integrità del fondo>>.
[10] Cass. n. 1991 del 14/03/1985, in Giur. it. 1986, I,1,112.
[11] Così, ex multis, Cassazione civile sez. II – 29/12/2005, n. 28784, in Giust. civ. Mass. 2005, 12; Cassazione civile sez. II – 20/01/2010, n. 934, in Riv. giur. edilizia 2010, 3, I, 848; Tribunale – Massa, 20/06/2018, n. 451, in Redazione Giuffrè 2018.
[12] Cassazione civile sez. II , – 29/05/2019, n. 14711. In alcuni significativi passaggi motivazionali si legge che: […] per mantenere una costruzione a distanza minore di quella prescritta dalla legge, non è sufficiente una scrittura unilaterale del proprietario del fondo vicino che autorizza la corrispondente servitù, ma è necessario un contratto –
essendo inidoneo, per i diritti reali, un atto ricognitivo – che dia luogo alla costituzione di una servitù prediale, ex art. 1058 c.c., risolvendosi in una menomazione di carattere reale per l’immobile che alla distanza legale avrebbe
diritto, a vantaggio del fondo contiguo che ne trae il corrispondente beneficio (arg. da Cass. Sez. 2, 29/04/1998, n. 4353). Ed allora, per l’esistenza di una valida volontà costitutiva di servitù in deroga alle distanze delle costruzioni o
vedute, pur non occorrendo alcuna formula sacramentale, è comunque indispensabile che detta volontà sia deducibile da una dichiarazione scritta da cui risultino i termini precisi del rapporto reale tra vicini, nel senso che l’accordo
faccia venir meno il limite legale per il proprietario del fondo dominante, che così acquista la facoltà di invadere la sfera esclusiva del fondo servente (cfr. Cass. Sez. 3, 29/01/1982, n. 577; Cass. Sez. 2, 14/06/1976, n. 2207; Cass. Sez. 2,
19/06/1984, n. 3630). La Corte di Appello di Catania ha negato l’univocità dell’esistenza di un generale accordo tra le parti, in deroga alle distanze legali, operante per l’intero confine tra i fondi in questione, in forza del contratto del
(OMISSIS), e l’indagine sull’effettiva volontà dei contraenti in ordine all’eventuale costituzione di una servitù prediale, ovvero sulla individuabilità del fondo dominante, di quello servente e del contenuto dell’assoggettamento di
quest’ultimo all’utilità del primo, costituisce accertamento di fatto insindacabile in sede di legittimità se non nei limiti di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Per altro verso, i ricorrenti non considerano che, secondo consolidato
orientamento giurisprudenziale, mentre le deroghe pattizie sono consentite relativamente alle norme sulle distanze di cui all’art. 873 c.c., dettate a tutela dei reciproci diritti soggettivi dei singoli, non altrettanto può dirsi in relazione alle
disposizioni regolamentari in materia di distanze, poichè in tal caso la concessa azione di riduzione in pristino è volta a mantenere in vita un potere privato, concorrente con quello amministrativo, idoneo ad assicurare, attraverso la
rimozione dell’opera illegittima, lo stesso risultato pratico perseguibile con i propri mezzi dalla P.A. e la completa attuazione dell’interesse generale alla realizzazione del modello urbanistico prefigurato: ciò a maggior ragione quando
la norma regolamentare imponga di calcolare la distanza dal confine tra i fondi. Ne consegue che, ove pure l’atto del (OMISSIS) fosse inteso come esplicitante la volontà delle parti di derogare alle norme in tema di distanze dal confine
contenute nel P.R.G. del Comune di (OMISSIS), si tratterebbe comunque di convenzione senz’altro invalida, trattandosi di norme inderogabili perchè non si limitano a disciplinare i rapporti intersoggettivi di vicinato, ma mirano a tutelare
anche interessi generali (cfr. Cass. Sez. 2, 04/05/2018, n. 10734; Cass. Sez. 2, 28/09/2004, n. 19449; Cass. Sez. 2, 04/02/2004, n. 2117; Cass. Sez. 2, 23/11/1999, n. 12984; Cass. Sez. 2, 29/04/1998, n. 4353; Cass. Sez. 2,
16/11/1985, n. 5626). Qualora, inoltre, i regolamenti edilizi stabiliscano espressamente la necessità di rispettare determinate distanze dal confine, come nel caso del Comune di (OMISSIS), non ha nessun rilievo se sussista, o meno, in concreto la facoltà per il vicino di sfruttare la residua suscettibilità edificatoria del fondo contiguo (come
oppongono i ricorrenti), in quanto l’imposizione di un distacco assoluto dal confine mira a tutelare interessi generali, quali l’assetto urbanistico di una certa zona e la densità degli edifici in relazione all’ambiente, e non soltanto ad evitare
la formazione di intercapedini fra edifici frontistanti nocive all’igiene, alla salute ed alla sicurezza. Nè è comprensibile la sovrapposizione che fanno i ricorrenti nel terzo motivo fra il D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, art. 9, comma 1, n. 2, quanto alla distanza minima assoluta di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, stabilita con fonte normativa statuale, sovraordinata rispetto agli strumenti urbanistici locali, e le disposizioni regolamentari comunali che impongano, invece, una determinata distanza dal confine>>
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