Legislazione
Legge . 23 dicembre 1978, n. 833
Legge 8 giugno 1990, n. 142
Codice di Deontologia medica (approvato dal Consiglio Nazionale e in vigore dal 25 giugno 1995)
Bibliografia
M. Aimonetto, Le ordinanze del sindaco, Maggioli Editore – Rimini, III Ed.
R. Romboli, La libertà di disporre del proprio corpo, dal Commentario del Codice Civile Scialoja-Branca, Nicola Zanichelli Editore-Bologna, pag. 338
Dottrina e Giurisprudenza
Procura Repubblica Potenza 8 maggio 1978
Pretore di Torino, del 28 settembre 1981
Cons. di Stato Sez IV, 6 dicembre 1985, n. 605
Corte Cass. Civ. Sez. Un., 5 dicembre 1987, n. 9096
Cass. penale sez. II, 11 maggio 1990
1. – Premessa
Ho già avuto modo di affrontare questo argomento su queste stesse pagine, ma con ben altre finalità. In quelle occasioni infatti, la mia attenzione era tutta focalizzata sul ruolo della polizia municipale nell’ambito delle attività materiali di accompagnamento e di assistenza al disturbato psichico, in quanto quest’ultimo, soggetto al provvedimento di trattamento sanitario obbligatorio o T.S.O.
In quella sede volli far notare come l’attività di pubblica sicurezza della polizia municipale, si inserisse in un contesto ben più ampio di assistenza sociale, scaturente dall’eredità giuridica di cui al d.P.R. 616 del 1977 e come quella stessa istituzione pubblica agisse comunque quale organo di polizia del comune, preposto alla corretta esecuzione dei provvedimenti amministrativi dell’ente locale.
Quella che invece propongo oggi è una nuova chiave di lettura, non solo del T.S.O., ma così anche dell’accertamento sanitario obbligatorio (A.S.O.), in ordine al diritto amministrativo e più in particolare al diritto degli enti locali.
2. Il Sindaco, nella sua veste di autorità sanitaria locale
2.1 Il potere di ordinanza del sindaco, in materia sanitaria
Il potere di ordinanza è quel potere mediante il quale la Pubblica Amministrazione «avvalendosi della potestà di supremazia, impone ad una o più persone o alla collettività dei comandi (di fare o di dare) o dei divieti (di non fare) per motivi di pubblico interesse» ([1]). Ciò detto, le ordinanze di A.S.O. o di T.S.O. sono da qualificarsi ordinanze normali o ordinarie, in quanto emanate dal Sindaco (o in sua assenza dal Vice Sindaco) per l’osservanza e l’attuazione di una norma di legge. Più in particolare la norma di specie è rinvenibile negli artt. 33 (Norme per gli accertamenti ed i trattamenti sanitari volontari e obbligatori), 34 (Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori per malattia mentale) e 35 (Procedimento relativo agli accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori in condizioni di degenza ospedaliera per malattia mentale e tutela giurisdizionale) della legge . 23 dicembre 1978, n. 833 ([2]), istitutiva del servizio sanitario nazionale.
Sebbene l’art. 13 della richiamata legge n. 833, attribuisca al sindaco la qualifica di «autorità sanitaria locale», la stessa legge non chiarisce bene se il medesimo organo agisca nella sua veste di ufficiale di Governo o di capo dell’amministrazione comunale. Questo fatto peraltro, non assume affatto un’importanza marginale se si tiene conto che le ordinanze del sindaco emesse in qualità di capo dell’amministrazione comunale sono da ritenersi definitive, a differenza delle altre. E qui soccorre – sebbene successivamente ad una diversa decisione del Consiglio di Stato ([3]), l’art. 38, primo comma, lett. b), della legge 8 giugno 1990, n. 142 sul nuovo ordinamento delle autonomie locali dove si precisa che il sindaco, quale ufficiale del Governo, sovrintende alla emanazione degli atti che gli sono attribuiti dalle leggi e dai regolamenti in materia di ordine e di sicurezza pubblica, di sanità e di igiene pubblica.
Ciò detto, appare evidente che le ordinanze del sindaco poste alla nostra attenzione non sono da considerarsi definitive e quindi, contro di esse è ammesso ricorso gerarchico al Prefetto o, in via alternativa, al Tribunale Amministrativo Regionale ([4]).
2.2 Il potere del sindaco in materia di accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori per malattia mentale
Come già detto, quando il sindaco emette un provvedimento di natura amministrativa come l’accertamento sanitario obbligatorio o il trattamento sanitario obbligatorio, nell’un caso come nell’altro agisce nella sua qualità di Ufficiale di Governo e quindi, nell’intento di fare osservare in sede locale, un provvedimento di natura legislativa.
Ora c’è da dire che l’entrata in vigore della legge 833 del 1978, fa seguito all’accertata condizione di vita individuale dei così detti alienati mentali (più propriamente, alienati sociali): individui lasciati soli a se stessi, il cui unico torto è stato quello di avere una malattia nella mente, anziché nel corpo. Una malattia che molto spesso incuteva (come oggi tutto sommato incute) un certo timore a rilevanza sociale; la convinzione pubblica della inesistenza di cure adeguate e della pericolosità sociale dell’alienato mentale, che faceva quindi di questo, non più un essere umano ma tutto sommato, un umanoide da mantenere in vita forse, per sola ragione di coscienza.
Dico questo, perché se non si comprendono le motivazioni vere che hanno portato il legislatore a trasfondere – fino a sostituirlo – il concetto di disturbato psichico in quello di alienato mentale, nella più volte citata legge n. 833 del 1978 (che segue a ruota la coeva – e forse più conosciuta, in tal senso – legge 180 o Legge Basaglia), neppure è possibile comprendere quanto e fino a che punto il sindaco deve emettere provvedimenti atti a fare osservare questa norma giuridica.
E tornando quindi indietro di un passo, ciò dicendo dobbiamo riferirci necessariamente al dettato costituzionale indicato nell’art. 32:
“Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.”
Due quindi paiono gli imperativi categorici della carta costituzionale, rispetto all’attuazione dei T.S.O.: la disciplina giuridica del trattamento e nell’ambito di questa, il rispetto della persona umana.
Ed infatti, la citata legge istitutiva del S.S.N. prevede quali punti fermi della disciplina giuridica dei T.S.O.:
1) la libera scelta di sottoporsi ad accertamento o trattamento sanitario da parte del disturbato psichico. La malattia mentale, così come ogni altro tipo di patologia, non necessariamente rende l’ammalato inabile e/o incapace d’intendere e di volere. Fintanto che esiste nell’ammalato mentale una seppur minima possibilità di partecipazione volitiva all’accertamento o al trattamento sanitario, questa deve essere rispettata e fatta rispettare; fatta ovviamente salva la tutela dell’ordine pubblico.
E del resto, lo stesso codice di deontologia medica (approvato dal Consiglio Nazionale e in vigore dal 25 giugno 1995), all’art. 31 (Consenso informato) prevede che «il medico non deve intraprendere attività diagnostica o terapeutica senza il consenso del paziente validamente .informato. […] Il procedimento diagnostico e il trattamento terapeutico che possano comportare grave rischio per l’incolumità del paziente, devono essere intrapresi, comunque, solo in caso di estrema necessità e previa informazione sulle possibili conseguenze, cui deve far seguito una opportuna documentazione del consenso. In ogni caso, in presenza di esplicito rifiuto del paziente capace di intendere e di volere, il medico deve desistere da qualsiasi atto diagnostico e curativo, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà del paziente, ove non ricorrano le condizioni di cui al successivo articolo 33.»
Più in particolare, l’art. 33 (Trattamento sanitario obbligatorio) del citato codice dispone che «l’opposizione del paziente o del rappresentante legale non ha effetto nei casi per i quali sia previsto dalla legge trattamento sanitario obbligatorio. Al medico non è peraltro, consentito di porre direttamente in essere, anche in caso di trattamento sanitario obbligatorio, trattamenti fisicamente coattivi.»
2) Appare evidente che l’obbligatorietà del trattamento sanitario non può essere disposta direttamente dal medico curante, la cui funzione giuridica e deontologica è quella e solo quella di assistere il paziente con quelle cure che l’arte medica ritiene necessarie per la salvaguardia della salute dell’ammalato; ma questo ovviamente, sempre che l’ammalato capace, accetti su di sé l’esercizio di tale arte sanitaria.
Parte della dottrina sostiene infatti la tesi del c.d. diritto ad ammalarsi, ovvero della «libertà del soggetto di autodeterminarsi con riguardo alla propria salute, decidendo sui trattamenti consigliati o consigliabili e sulle modalità di cura e rifiutando, quando creda, di assoggettarsi agli stessi, il che quindi non va necessariamente contro la salute, ma può addirittura realizzare tale valore, se non nel suo aspetto fisico, quanto meno sotto quello psichico» ([5]).
Si potrebbe senz’altro condividere questa tesi dottrinale, fin dove però la capacità intellettiva del soggetto passivo e più in particolare la sua capacità d’intendere e di volere non divenga inesistente, talché non sarebbe più affermabile in capo al soggetto una reale capacità di autodeterminazione. Si potrebbe altresì affermare, che quella conseguenza deriva inevitabilmente da una scelta originaria e che proprio nel momento in cui ciò accade, questa scelta si realizza concretamente.
Ma si potrebbe continuare anche a dire che ogni scelta di libertà è tale, fintanto che il soggetto titolare di quel diritto è libero da ogni forma di coercizione e/o condizionamento fisico e psichico e che quindi, paradossalmente, il raggiungimento del fine preordinato, che inevitabilmente comporti il venir meno delle capacità psichiche del soggetto stesso, determina una riduzione di quel diritto di autodeterminazione proprio di ogni individuo: ergo, proprio lo Stato e proprio in quel momento, in ragione di un principio di solidarietà giuridica che sovrasta l’ordinamento costituzionale è tenuto ad intervenire, nell’interesse non solo della salute individuale ma anche della salute pubblica della quale, proprio quella individuale ne rappresenta un momento di importante estrinsecazione.
Il momento dell’obbligatorietà dell’accertamento o del trattamento sanitario obbligatorio è quindi di pertinenza dell’organo della pubblica amministrazione deputato a dare esecuzione alle leggi (il sindaco), mentre al medico è richiesto un mero intervento di ordine tecnico-diagnostico, idoneo a far decidere il sindaco se adottare o meno il provvedimento qui in discussione. Appare altresì evidente che l’emissione dell’ordinanza di A.S.O. o T.S.O non avviene né può avvenire secondo una sorta di automatismo giuridico (solo perché esiste una certificazione medica atta a dimostrare lo stato in cui versa il paziente), ma secondo un canone non più deontologico, ma bensì di ordine amministrativo, che tenga conto se viene effettivamente minacciato l’interesse pubblico e quindi se si renda oggettivamente necessario intervenire.
E’ infatti evidente che anche l’ordinanza di A.S.O. o di T.S.O. deve essere adeguatamente motivata, a nulla rilevando ai fini della validità del provvedimento, che siano state presentate le certificazioni mediche previste dalla legge.
Giova qui richiamare alcuni passi del decreto di mancata convalida di un T.S.O. da parte del Giudice tutelare ([6]), laddove si afferma che «per quanto qui interessa, il procedimento si articola in tre fasi, ciascuna delle quali mette capo ad un atto, specificatamente disciplinato dalla legge:
1) fase medica: il primo sanitario intervenuto formula una proposta motivata (art. 33, 3°comma), che potrà o meno essere convalidata da un medico dell’USL (art. 34, 4° comma);
2) fase sindacale: il sindaco, nella qualità di autorità sanitaria locale, sulla base degli atti precedenti, dispone, o meno, l’adozione del tso in condizioni di assistenza ospedaliera od extraospedaliera (art. 33, 3° comma);
3) fase giudiziale: il giudice tutelare, esaminati gli atti precedenti, assunte le informazioni del caso, disposti gli accertamenti eventualmente opportuni, emana un decreto motivato con il quale convalida, o meno, il provvedimento del sindaco (art. 35, 3° comma)».
Ora, proseguendo nella lettura appare evidente che «detto procedimento configura tre distinte competenze, tendenti, nella loro sintesi, alla attuazione del precetto di cui all’art. 32 Cost.:
la prima, dei sanitari, costituita dall’esercizio obbligatorio della discrezionalità tecnica, esercizio da attuarsi in condizioni di piena e approfondita controllabilità;
la seconda, del sindaco, costituita dall’obbligo di controllo dell’operato dei sanitari, e dalla valutazione più ampia e complessiva del caso, anche in rapporto allo stato dei servizi ospedalieri ed extraospedalieri, ove la legge vuole avvenga prioritariamente l’intervento terapeutico (art. 34, 4° comma);
la terza, del giudice, di garanzia piena della libertà individuale del cittadino (art. 13, 2° comma, Cost.), e di osservanza sostanziale dei limiti di rispetto della persona umana (art. 32, 2° comma, Cost., art. 33, 2° comma legge cit.)».
Fatte queste dovute premesse si conclude che «solo in presenza di una proposta sanitaria motivata (contenente cioè anamnesi; descrizione del fatto che ha determinato il tso; comportamento del paziente, soprattutto durante il periodo di ricovero già effettuato; intervento terapeutico svolto sia in condizioni di degenza ospedaliera, che extraospedaliera; diagnosi e prognosi prevedibile) è possibile al sindaco valutare se occorra, o meno, prorogare il tso, se mutare la degenza ospedaliera in assistenza ambulatoriale ecc., ed al giudice valutare comparativamente le ragioni terapeutiche con quelle di libertà del paziente, eventualmente anche disponendo controlli e verifiche sanitarie» e che quindi « l’annotazione di una sommaria diagnosi costituisce una mera postulazione di principio (il paziente è affetto da bouffèe delirante, e pertanto deve essere ricoverato con tso, ciò al momento del primo ricovero; il paziente deve continuare il ricovero essendo affetto da bouffèe delirante, ciò al momento della proroga), il che non consente alcun controllo vero, e non fornisce alcuna delle indicazioni ridette».
Proprio in ragione della mancanza di un’adeguata motivazione dell’ordinanza sindacale, il Pretore a decretato la sua inapplicabilità.
E’ quindi il sindaco che il fase di emissione dell’ordinanza di che trattasi deve bel valutare tutte quelle condizioni che afferiscono la sfera volitiva del disturbato psichico e quindi, il suo diritto di autodeterminazione, diritto soggettivo questo che può ben essere degradato a mero interesse legittimo; questo ovviamente in stretta correlazione alla valutazione della capacità cognitiva del personale medico. Certamente, ci accorgiamo che la scelta di operare in un senso anziché in un altro non è delle più semplici e che l’eventuale annullamento del provvedimento, o addirittura la sua nullità ([7]) può comportare per il sindaco o comunque e solidalmente al primo, per il Ministero dell’Interno, il risarcimento di un eventuale danno patrimoniale che possa essere derivato dall’esecuzione del provvedimento stesso.
Ciò premesso il provvedimento diviene obbligatorio mediante l’adozione di sanzioni indirette, dovendosi escludere la possibilità di una esecuzione coattiva in forma specifica.
E’ ovvio che il grado di alterazione mentale comporta l’applicazione di una serie di misure personali, correlativamente più gravi, quanto più grave e pericoloso diventa lo stato del paziente sottoposto a T.S.O., tutto ciò ovviamente nell’ambito di quelle azioni positive considerate dall’ordinamento giuridico. Questo per dire che il ricorso a strumenti di coercizione dovrà essere l’estrema conseguenza di fronte ad un comportamento tale da minacciare l’ordine pubblico e la vita delle persone, ivi compresa quella del disturbato psichico, sino a raggiungere quella condizione di stato di necessità di cui all’art. 54 del c.p.
2.3 I provvedimenti del sindaco in materia di accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori per malattia mentale
E’ evidente che il provvedimento originario disposto dal sindaco altro non può essere che l’ordinanza di A.S.O. o di T.S.O. che più avanti avremo modo di osservare nelle relative particolarità e differenziazioni.
Tale provvedimento, rientrando nel concetto più generale di regolamento e più specificatamente di ordine emesso da un Ufficiale di Governo nell’esercizio delle sue funzioni è tipicamente da qualificarsi come atto recettizio e in tale veste giuridica, deve essere notificato al soggetto interessato dal provvedimento o, in sua mancanza, ad altra persona idonea a riceverlo in sua vece.
Torniamo a ripetere che nessun individuo può essere obbligato a sottoporsi anche ad un semplice accertamento sanitario, ancorché ritenuto malato di mente, se non per sua scelta volontaria. Questo sta a significare che solo un atto emesso dell’autorità giudiziaria o amministrativa, in conformità con lo specifico ordinamento giuridico, può limitare la libertà di autodeterminazione dell’individuo; ma questo in ragione del fatto che quello stesso soggetto, proprio in virtù di quello stesso provvedimento (interdizione, T.S.O.,…) non è da ritenersi più capace di intendere e di volere e quindi ritenuto inidoneo ad autodeterminarsi liberamente.
In questo caso ovviamente, l’atto ricettizio non può essere notificato al soggetto incapace e quindi è necessario che il medesimo venga notificato ad altra persona idonea riceverlo e ad operare nell’interesse dell’infermo mentale.
All’indirizzo di residenza anagrafica, il provvedimento può essere senz’altro notificato a persona di famiglia che vi conviva o persona addetta alla famiglia e questo ai fini degli effetti della notificazione dell’atto. Va da sé che il provvedimento deve essere comunque notificato, entro 48 ore dal ricovero, tramite messo comunale, al giudice tutelare nella cui circoscrizione rientra il comune.
Il giudice tutelare, entro le successive 48 ore, assunte le informazioni e disposti gli eventuali accertamenti, provvede con decreto motivato a convalidare o non convalidare il provvedimento e ne dà comunicazione al sindaco. In caso di mancata convalida il sindaco dispone la cessazione del trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera.
Questo ovviamente quando il provvedimento viene emesso dal sindaco del comune di residenza dell’infermo di mente; nell’altro caso, il sindaco deve notificare l’ordinanza di T.S.O. al sindaco del Comune di residenza del disturbato psichico e contestualmente al competente Giudice tutelare.
Ancora, qualora l’infermo di mente sia un cittadino comunitario, straniero o apolide (e qui le cose si complicano anche per un problema di comprensione della lingua rendendosi quindi necessaria ed opportuna la presenza di un interprete), l’ordinanza deve essere notificata al Ministero dell’Interno e al consolato competente, tramite il prefetto competente per territorio.
Come già detto, non si può ritenere che l’emanazione dell’ordinanza di T.S.O. sia da ritenersi un atto dovuto, quanto piuttosto un provvedimento amministrativo di natura discrezionale. Questo viene infatti confermato dal fatto che lo stesso sindaco, convinto delle ragioni che lo hanno portato ad emettere il proprio provvedimento, può proporre ricorso al tribunale competente per territorio, contro l’eventuale mancata convalida del T.S.O. da parte del giudice tutelare, entro trenta giorni dalla emissione del decreto giudiziale.
Nello stesso termine e con le medesime modalità, ma questa volta contro il decreto di convalida del T.S.O., è ammesso ricorso da parte del disturbato psichico o da quanti altri ne abbiano interesse.
Al sindaco, viene altresì presentata proposta motivata di protrazione del termine del T.S.O. – quando questo supera i sette giorni consecutivi – da parte del responsabile del servizio sanitario all’uopo predisposto e in ragione di tale proposta in sindaco è tenuto a decidere in merito, predisponendo gli atti e le comunicazioni precedentemente indicate.; così come l’eventuale dimissione del paziente o la cessazione degli effetti del T.S.O.
Come è intuibile quindi, nel sindaco si fulcrano il riconoscimento e la tutela di un insieme di diritti soggettivi e di interessi legittimi; un relativo potere discrezionale, sia di ordine formale che sostanziale; di controllo e garanzia del procedimento amministrativo connesso e di tutela dei diritti del disturbato psichico. Una serie di incombenze che, sempre a mente dell’art. 35 della citata legge n. 833, possono rendere il sindaco responsabile del reato di omissioni di atti d’ufficio, salvo che il fatto non costituisca più grave reato ([8]).
Un’attività procedimentale per la quale ogni pubblica amministrazione dovrebbe dotarsi di personale di vigilanza specializzato, sia da un punto di vista psicoattitudinale, che amministrativo.
E’ ovvio che il contesto sociale dei disturbati psichici è caratterizzato dalla presenza di “soggetti passivi” – prima ancora che dello stesso provvedimento di T.S.O – rispetto allo stesso disturbato psichico (amici, familiari,…); individui che interessano il sistema sanitario psichiatrico, solo al culmine di un’esperienza personale e affettiva devastante sul piano psicologico e morale. Molto più spesso il provvedimento di T.S.O. scaturisce proprio da una richiesta (sofferta) di assistenza da parte di questi soggetti e, in ragione di questo, dalla difficile circostanza che queste stesse persone o, ancor più raramente, la persona trattata, propongano ricorsi e siano nella condizione di dimostrare l’inadeguatezza del provvedimento emesso, rispetto al caso trattato.
Ma rimane pur il fatto che un intervento di T.S.O. con modalità abbastanza discutibili (certificazioni mediche di tipo meramente prescrittivo, convalidazioni della struttura sanitaria preposta avvenute via cavo, possibilità di procedere al trattamento nel luogo di dimora,…) pone il sindaco nella condizione di rendersi indirettamente responsabile – se non altro per averlo ordinato – di fattispecie delittuose, quali la violazione di domicilio, il sequestro di persona, le lesione personali.
3. L’accertamento e il trattamento sanitario obbligatorio
L’osservanza dei provvedimenti emanati dall’autorità amministrativa viene garantita dalla forza pubblica e più in particolare o molto più spesso dal personale della Polizia Municipale, dotato di qualifica di pubblica sicurezza. Si ricorda infatti che il sindaco, nell’emettere il provvedimento di A.S.O. o di T.S.O. agisce in qualità di Ufficiale di Governo e non già di capo dell’amministrazione comunale e quindi nell’interesse non già e non solo della comunità locale, ma dell’ordine pubblico e quindi come «il complesso dei beni giuridici fondamentali e degli interessi pubblici primari sui quali si regge l’ordinata e civile convivenza nella comunità nazionale, nonché alla sicurezza delle istituzioni, dei cittadini e dei loro beni» (ex art. 159, comma 2, d. Lgs. 112/98).
Ciò detto, appare evidente che il legislatore del 1978 ha previsto due ben diverse modalità d’intervento in capo al soggetto ritenuto disturbato psichico delle quali una, relativa alla fase dell’accertamento (A.S.O.) e l’altra relativa alla fase del trattamento (T.S.O.). Due diverse forme d’intervento che comunque vanno ad incidere – degradandolo – sul diritto di autodeterminazione del cittadino: più in particolare sul diritto della scelta dell’assistenza sanitaria e del tipo di assistenza sanitaria. L’ordinamento prevede a tal scopo due momenti d’intervento ben diverso e diversamente garantiti.
Come già detto, l’accertamento della condizione psichica di un individuo non può essere ritenuta obbligatoria, se non per atto motivato dell’autorità sanitaria locale (il sindaco), su proposta di un medico. Qualora l’accertamento sanitario avvenga senza il consenso dell’interessato e in mancanza del provvedimento emanato dal sindaco, l’atto di accertamento è da ritenersi illecito (in mancanza del provvedimento amministrativo sindacale, permane il diritto soggettivo del cittadino a farsi assistere nell’ an e nel quomodo).
Parliamo ovviamente di accertamento e quindi di tutta una serie di attività concrete, atte ad accertare l’eventuale stato e grado di patologia psichica, riferibile ad un determinato soggetto, giustificabile ovviamente da un suo comportamento ritenuto quanto meno, palesemente anomalo.
3.1 L’accertamento sanitario obbligatorio
In questo caso si possono osservare due quadri fenomenologici, ovvero quello relativo alle turbe psichiche documentate (di chi è già stato affetto da una qualche sindrome psichica) e quelle documentabili od occasionali. E’ ovvio, che nel primo caso il soggetto è generalmente conosciuto come disturbato psichico e in ragione di ciò si può rilevare anche un eventuale livello di gravità (quindi pericolosità sociale) della malattia.
Nel secondo caso, le cose si complicano, quanto meno in riferimento all’emanazione del provvedimento di A.S.O. e all’effettivo livello di gravità della malattia ovvero di capacità d’intendere e di volere del soggetto, oggetto dell’accertamento.
Rimane pur il fatto, che nell’un caso, come nell’altro, l’intervento del personale sanitario deve (e può) avvenire solo ed esclusivamente in forza dell’emissione del provvedimento di A.S.O. da parte del sindaco.
In questo caso, quel diritto soggettivo originario di autodeterminazione viene degradato – in forza del titolo emesso – a mero interesse legittimo e quindi, l’accertamento e tutto ciò che ne consegue, può essere posto in essere, quanto meno fintanto che il provvedimento stesso non viene formalmente ed eventualmente riconosciuto illegittimo
Ciò che ci domandiamo, è se l’A.S.O. debba o non debba essere eseguito in condizioni di degenza ospedaliera.
La norma giuridica (ex art. 33 Legge 833/78) certo qui non soccorre, limitandosi infatti la stessa a stabilire che «gli accertamenti ed i trattamenti sanitari obbligatori sono disposti con provvedimento del sindaco nella sua qualità di autorità sanitaria, su proposta motivata di un medico». Ancora una volta la nostra attenzione si pone sulla figura del sindaco, come autorità ovvero, quale centro di attribuzione di poteri in materia sanitaria, deputata in questo caso ad emanare un ordine affinché il soggetto sia sottoposto ad accertamento sanitario obbligatorio.
Accertamento questo. idoneo a stabilire se esista o meno una qualche patologia mentale tale da rendere il soggetto incapace di intendere e di volere e, se da questa incapacità possa derivare un danno personale e/o sociale.
Sembra quindi che al medico sia dato il compito di stabilire in primis se la condizione apparente del soggetto sia in qualche modo da ritenersi (quanto meno) sospetta, sul piano della sua condizione mentale. Ora, sarebbe altresì necessario stabilire se qualsivoglia medico (più spesso e nel caso di specie, un medico volontario presso una qualche pubblica assistenza in servizio per il 118) sia idoneo a stabilire scientificamente (quindi sulla base di parametri oggettivi) se un determinato individuo sia veramente affetto da una malattia mentale e comunque, anche in tale ipotesi, sino a che punto la patologia mentale può determinare una menomazione consistente – sul piano della coscienza e delle volontà – dell’individuo da sottoporsi all’accertamento. Ma già una valutazione di tal fatta è da qualificarsi in qualche modo, un accertamento che, per le ragioni su esposte può essere qualificato documentale (maggior certezza) o documentato (certezza occasionale o dell’intervento). Più correttamente, un accertamento meramente sanitario che solo in virtù del provvedimento emanato dal sindaco, diviene obbligatorio e quindi tale da incidere nella sfera giuridica del soggetto controllato.
Sino a questo punto i dubbi – quanto meno sul piano giuridico – non sembrano poi molti.
Ciò che semmai ci preoccupa è la successiva fase dell’accertamento sanitario (quello coatto) e cioè se lo stesso può, e quindi perché, possa avvenire eventualmente presso il presidio ospedaliero.
Da una prima lettura della norma, sembrerebbe evidente che solo il T.S.O. può essere eseguito in condizione di degenza ospedaliera, giusto quanto disposto dall’art. 35 della più volte citata legge 833 del 1978. Questo appare evidente, quanto meno sul piano di una prima interpretazione letterale, tenuto conto che i precetti che ne scaturiscono non giungono mai a definire in qualche modo gli accertamenti sanitari obbligatori, se non i soli trattamenti sanitari obbligatori.
Ma appare altresì evidente – con rilevante importanza per l’interprete – che il titolo del citato art. 35 della legge in parola è proprio «Procedimento relativo agli accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori in condizioni di degenza ospedaliera».
Da tutto ciò scaturisce, che la fase del primo accertamento sanitario mentale (quella del medico proponente) è il prodromo di tutta una serie di accertamenti sanitari (obbligatori) di tipo specialistico – che possono determinare anche il trasporto coatto del disturbato psichico – presso la struttura sanitaria e quindi, presso il medico appartenente alla struttura stessa, idoneo a stabilire con certezza la patologia mentale e le cure necessarie per risolverla.
Si parla ovviamente di accertamenti e quindi, sino alla eventuale emanazione dell’ulteriore ordinanza di T.S.O., non sono ammesse pratiche sanitarie diverse da quelle necessarie a stabilire le condizioni psichiche dell’ammalato. Questo per dire che sino a questo momento, l’ammalato non può essere soggetto ad alcuna forma di intervento diretto di tipo invasivo, quale prelievi ematici, somministrazioni di farmaci, prelievo di liquidi organici, ecc., tutti da qualificarsi veri e proprio trattamenti sanitari, senza il consenso dell’interessato: e a stretto rigor di logica, lo stesso dicasi anche di fronte al consenso di un disturbato psichico incapace di intendere e di volere.
3.2 Il trattamento sanitario obbligatorio
Tutto sommato, del T.S.O. abbiamo ampiamente parlato nel punto 2) di questa trattazione.
Ma è giusto tornare a parlarne per meglio comprendere il diverso intervento sanitario coatto, definito appunto T.S.O.
Così dicendo, credo sia opportuno richiamare l’attenzione del lettore sul fatto che il provvedimento di l’A.S.O. non dovrebbe mai sostituire il più grave provvedimento di T.S.O.
Per una sorta di filosofia dell’accorpamento e del risparmio sul personale degli enti pubblici (tipica di questo tempo), potrebbe infatti accadere che per evitare di distogliere il personale ospedaliero (specializzato) dai propri reparti, si proceda con eccessiva metodicità ad accompagnamenti coatti mediante provvedimenti di A.S.O., che divengono T.S.O. solo in sede ospedaliera.
Il ricorso a tale espedienti di economia sociale credo debbano essere in ogni modo banditi e proprio al sindaco compete il non semplice compito di evitare di emettere provvedimenti di A.S.O. che soddisfino o possano in qualche modo soddisfare a tali finalità. Lo stesso dicasi per quei provvedimenti di T.S.O. emessi sulla base di una proposta medica rilasciata dal medico di base, ma ancor più di una convalida medica rilasciata dallo specialista, quando quest’ultimo non abbia accertato icto oculi lo stato dell’ammalato sul luogo dell’accertamento.
Basti pensare che taluni interventi coattivi di tal fatta, possono indurre anche una persona normale – ma debole sul piano psichico e del controllo delle emozioni – a reagire in modo fuorviante, sulla sola base di quel meccanismo istintuale che deriva dal timore della perdita della libertà personale o da una pura ricerca di giustizia sostanziale, rispetto all’atto (solo) formalmente legittimo, ma sostanzialmente arbitrario.
Questo stato di esagitazione o addirittura di crisi isterica, può determinare nel personale specialistico del reparto ospedaliero – anche perché convinto di operare nella piena legittimità di un provvedimento amministrativo, originario o derivato – un intervento di tipo invasivo sul paziente trattato, mediante la somministrazione di farmaci ritenuti utili allo scopo.
Ma ben al di là di quanto sin qui detto – grave di per se sul piano deontologico medico/sociale – è abbastanza evidente che il medico specialistico che convalida la proposta del medico proponente senza avere visitato il paziente, financo sulla base delle indicazioni cliniche fornite dal medico di base, può essere ritenuto responsabile del reato di falso ideologico in atto pubblico (ex art. 481 c.p.). E in tal senso, il sindaco, in quanto pubblico ufficiale, è tenuto a denunciare all’Autorità Giudiziaria o ad un Ufficiale di P.G. quanto da esso accertato nell’esercizio delle sue funzioni, indipendentemente dall’emissione concreta del provvedimento. L’eventuale omissione della denuncia comporta per quest’ultimo responsabilità penali in ordine al reato di cui all’art. 361 c.p. e l’eventuale emissione del provvedimento di T.S.O., può essere inficiato non solo sul piano della legittimità (annullabilità o nullità dell’atto, con riconosciute responsabilità civili in capo alla Pubblica Amministrazione e solidalmente al sindaco) ma anche della liceità, comportando quindi responsabilità civili dirette per il sindaco.
E’ altresì ovvio che le medesime responsabilità – quanto meno per quanto attiene all’omissione di denuncia – possono essere ascrivibili agli organi di polizia che assistono il personale sanitario e che accertano il verificarsi dei fatti.
Quindi, di fronte ad una richiesta motivata di T.S.O. da parte di un medico generico, è necessario che il sindaco precedentemente alla emissione del provvedimento richiesto, valuti attentamente:
1) se e come il medico proponente, abbia accertato lo stato di alterazione psichica del paziente;
2) se e perché il paziente rifiuta la visita e le eventuali cure mediche che ne possono derivare;
3) se e perché non è possibile trattare il paziente presso il luogo di dimora;
4) se il medico convalidante abbia effettivamente accertato sul posto lo stato del paziente e quali sono le ragioni che hanno portato questi a convalidare l’atto di accertamento originario;
5) se esistono e quali sono le condizioni di pericolosità individuale e sociale del paziente.
Una volta ritenute soddisfatte dette condizioni, il sindaco può emettere tranquillamente il provvedimento di che trattasi, tenendo comunque presente che se ci troviamo davanti ad una ipotesi di A.S.O. e solo successivamente, di T.S.O in reparto ospedaliero appartenente ad altro territorio comunale, è il sindaco di quest’ultimo comune che deve provvedere ad emettere il provvedimento di T.S.O., comunicandolo al sindaco del comune di residenza del soggetto trattato.
3.2.1 Sue particolarità
Come ormai più volte chiarito, con l’emissione del T.S.O. il soggetto cui il provvedimento si riferisce è da definirsi un disturbato psichico, ma comunque idoneo di per se a commettere azioni illecite o addirittura delittuosa. In ragione di tale circostanza gli organi di polizia addetti all’assistenza per il trasporto coatto, sono tenuti non solo a vigilare sull’ammalato al fine di prevenire condizioni di pericolo per se e per gli altri (attività di pubblica sicurezza), ma anche al fine di portare a conoscenza la competente Autorità Giudiziaria del verificarsi di alcune azioni di rilevanza sociale comunque poste in essere dall’ammalato. L’incapacità d’intendere e di volere non consegue infatti all’emissione del provvedimento di T.S.O. (attività meramente esecutiva della P.A.), quanto piuttosto al giudizio dell’Autorità Giudiziaria espresso in ordine alla consumazione di un reato, ancorché il soggetto attivo sia da considerarsi un disturbato psichico. E’ quindi ovvio che ogni ipotesi di reato ascrivibile al soggetto trattato (oltraggio a P.U., resistenza a P.U., minaccia a P.U., danneggiamento, lesioni,…) deve essere tempestivamente comunicata all’A.G., e questo se non altro al fine di poter dare dar luogo – ove ritenuto necessario – ad una delle misure amministrative di sicurezza di cui all’art. 222 del c.p. ([9]).
Contro il provvedimento del T.S.O. è ammesso ricorso. Entro il termine di dieci giorni il sindaco è tenuto ad accogliere o a rigettare il ricorso.
Tenuto conto che il T.S.O. ha una durata minima di sette giorni – salvo dismissione del soggetto trattato – è presumibile che il ricorso venga presentato successivamente al ricovero coatto. In ogni modo, ai fini della valutazione degli scritti difensivi, il ricorrente dovrebbe dimostrare che la diagnosi è palesemente errata, che è stata falsamente certificata, che l’eventuale alterazione mentale riscontrata non era tale da giustificare il ricovero coatto, che il trattamento era stato accordato dall’ammalato, che la cura farmacologica non era stata rifiutata,…
Giova infine sottolineare che l’utilizzazione dei c.d. mezzi di contenzione fisica (lacci, camicia di forza,…) dovrebbe essere eventualmente disposta dal solo psichiatra e soltanto nella condizione di grave stato di necessità (ex art. 54 c.p.) e per il tempo strettamente necessario a risolvere la situazione contingente ed urgente.
Da ciò consegue e a maggior ragione che il ricorso all’uso dei c.d. mezzi di coazione fisica (manette, sfollagente, armi da sparo,…), – fatte comunque salve le ipotesi di cui agli artt. 51 e 52 del c.p. – può essere autorizzato solo e soltanto se ritenuto necessario ([10]) al fine di adempiere il dovere d’ufficio, di respingere una violenza o di vincere una resistenza e comunque di impedire la consumazione dei delitti di strage, omicidio volontario o sequestro di persona (ex art. 53 c.p.). Ovviamente, a queste tre ipotesi delittuose specifiche (ex art. 14 L. 152 del 975 a tutela dell’ordine pubblico), si aggiungono quelle generiche (ivi compresa la violenza o la resistenza attiva eventualmente posta in essere dal disturbato psichico) alle quali il pubblico ufficiale deve necessariamente e proporzionalmente rispondere, al fine di adempiere il dovere del proprio ufficio.
Note:
(*) Istruttore di vigilanza urbana nel Corpo della Polizia Municipale di Forte dei Marmi (LU).
([1]) M. Aimonetto, Op. cit., pag. 29.
([2]) Pubblicata nella Gazz. Uff. 28 dicembre 1978, n. 360, S.O.
([3] ) Sez IV, 6 dicembre 1985, n. 605
[4] In questo senso, va fatto notare come lo Staderini afferma che «per la precisione, va notato che, in relazione alle funzioni elencate, la norma in esame assegna al Sindaco solo la sovraintendenza, che sembrerebbe essere qualcosa di meno impegnativo rispetto a quanto attribuitogli dal precedente ordinamento (in cui il Sindaco era «incaricato» di…), ma se si raccorda questa disposizione con quella dell’art. 10.2 della Legge, che invece parla di esercizio di queste funzioni da parte del Sindaco-Ufficiale di Governo, è corretto ritenere che nulla sia cambiato neppure sotto questo profilo».
([5] ) R. Romboli, Op. cit., pag. 338.
([6] ) Decreto del Pretore di Torino, del 28 settembre 1981 (tratto da Foro It. 1981, I, c. 3011).
([7] ) «Un’azione risarcitoria davanti al giudice ordinario, basata sull’illegittimità del provvedimento medesimo, può essere esperita solo quando il giudice amministrativo abbia pronunciato tale illegittimità, rimuovendo così l’affievolimento dell’originario diritto soggettivo» (Corte Cass. Civ. Sez. Un., 5 dicembre 1987, n. 9096; in Le Ordinanze del Sindaco, Op. Cit.).
[8] Relativamente alle eventuali responsabilità del sanitario di turno giova quindi ricordare che «il ricovero coattivo di infermi di mente deve essere disposto come rimedio estremo con carattere temporaneo, mentre, d’altro canto, non possono essere posti a carico del medico del centro di igiene mentale compiti di polizia il cui svolgimento può essere reso necessario dal malato di mente. Ne consegue che non può essere ritenuto responsabile del reato di cui all’art. 328 c.p. il medico del centro di igiene mentale che abbia omesso di promuovere un ricovero finalizzato alla rimozione di una stabile situazione familiare di generica pericolosità» (Cass. penale sez. II, 11 maggio 1990)
[9] «Non e’ manifestamente infondata – in riferimento agli art. 3 comma 1, 32 commi 1 e 2; 111 comma 1 e 24 comma 2 cost. – la questione di legittimità costituzionale dell’art. 222 (commi 1 e 2) c.p. nella parte in cui impone ‘applicazione della misura di sicurezza del ricovero in manicomio anche nei confronti di persone che non versano più in stato di infermità psichica» (Procura Repubblica Potenza 8 maggio 1978).
([10] ) In questo senso, lo stato di necessità deve necessariamente essere inteso come l’extrema ratio, cui si può fare ricorso soltanto quando il fine non può raggiungersi in altro modo, salvaguardando sempre l’integrità fisica degli individui.
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