Il sistema penale è retto dal principio di legalità[1], principio di rango costituzionale e sovranazionale che trovasi enunciato nella Carta Fondamentale nell’art. 25, Cost.; in particolare il comma 2, art. 25, Cost., prevede il principio di legalità dei reati e delle pene, ovvero che “Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”. Il comma 3 della stessa previsione costituzionale estende l’operatività del principio di legalità alle misure di sicurezza.
Corollario del principio di legalità sono la riserva di legge, il principio di tassatività e il principio dell’irretroattività (sfavorevole) della norma penale. Si tratta di principi accomunati dalla stessa logica garantista, ossia la funzione di tutela della libertà individuale. La riserva di legge, come è noto, nel riservare al monopolio della legge la funzione di definire la norma incriminatrice, concerne le fonti del diritto penale e, dunque, tutela la libertà individuale dagli arbitri del potere esecutivo. Il principio di tassatività assolve la stessa funzione garantista, vincolando il Legislatore nell’utilizzo delle tecniche di redazione della norma e, dunque, tutela il singolo dagli abusi del potere giudiziario. Infine l’irretroattività garantisce la libertà individuale contro gli arbitri dello stesso Legislatore.
Evidenziata la ratio comune dei principi summenzionati, è di immediata comprensione la logica che sottende uno dei corollari del principio di tassatività, ossia il divieto di analogia. A un’analisi più specifica dell’ubi consistam del divieto di analogia nel diritto penale nonché delle sue connessioni con l’interpretazione estensiva, opportuna è una premessa sui caratteri del principio di tassatività.
Diversamente dalla tesi che considera come unico principio la tassatività, la determinatezza e la precisione, parte della dottrina[2] aderisce a un’impostazione tripartita. In particolare si distingue tra principio di precisione, ossia il vincolo del Legislatore nel descrivere in modo sufficientemente preciso la fattispecie incriminatrice e principio di determinatezza che, invece, impone di punire un fatto che sia empiricamente e processualmente accertabile. Ancora diverso è il principio di tassatività, principio ch può qualificarsi come rivolto tanto al Legislatore tanto al giudice. In generale dalla tassatività si ricava il divieto di applicare la norma incriminatrice oltre i casi in essa espressamente previsti.
Con riguardo al Legislatore, la tassatività è alla base dei limiti che la fonte primaria incontra nell’utilizzo di elementi vaghi o indeterminati nella descrizione della fattispecie penalmente rilevante. A ciò si aggiunge il limite per il Legislatore nel costruire la fattispecie incriminatrice con la tecnica c.d. dell’ “analogia esplicita”. Le fattispecie ad analogia esplicita ricorrono tutte le volre in cui il Legislatore penale, al fine di completare un’elencazione esemplificativa degli elementi costitutivi del reato, rinvia ai “casi simili”, “casi analoghi”, e così via. È evidente che una disposizione così formulata autorizza l’interprete a far ricorso allo strumento analogico in modo abusivo, specie quando non sia chiara l’individuazione del criterio da utilizzare per specificare quale sia il “caso analogo”.
Lo stesso principio di tassatività, nella forma del divieto di analogia, opera nei confronti del giudice.
L’analogia, nelle parole di Bobbio[3], consiste nell’operazione logica di estensione del predicato di un termine ad altro termine al primo legato da un rapporto di somiglianza in base a un elemento comune, secondo lo schema a=b, b=c e, conseguentemente, a=c. Con riguardi allo speciale sistema del diritto penale, ubi eadem ratio, ibi eadem dispositio; in presenza di un rapporto di similitudine tra un caso, espressamente disciplinato, e un caso non previsto, l’analogia consente di estendere al secondo la previsione utilizzata per il primo.
La norma di riferimento del meccanismo analogico è l’art. 12, disp. prel. c.c. Qualora una controversia non possa essere decisa con una specifica disposizione, da interpretarsi ai sensi del comma 1, art. 12, disp. prel. c.c., secondo i canoni dell’interpretazione letterale, sistematica, teleologica e storica, il giudice può (rectius deve) ricorrere all’analogia legis, ovvero estendere al caso non previsto la norma positiva dettata per casi simili o materie analoghe. “Se il caso rimane ancora dubbio”, opera l’analogia iuris, ossia l’applicazione dei principi generali dell’ordinamento giuridico. L’analogia costituisce, dunque, un meccanismo integrativo dell’ordinamento, l’operazione che consente al giudice di decidere comunque, anche in presenza di una lacuna normativa, in ossequio al divieto di non liquet. La regola generale così delineata dell’ubi eadem ratio, ibi eadem dispositio, incontra un’eccezione nella norma dell’art. 14, disp. prel. c.c. Tale disposizione contempla espressamente il divieto di ricorrere all’analogia nell’applicazione delle norme eccezionali e delle “leggi penali”. Il sistema penale è, infatti, ispirato alla logica del favor libertatis e, pertanto, un’applicazione analogica di una norma punitiva contrasterebbe con la finalità di garanzia per l’individuo.
Come si è già detto, il divieto di analogia nel diritto penale è un precipitato del principio di tassatività e non della riserva di legge[4]. Una conferma in tal senso si ricava dagli esempi dei codici penali degli ordinamenti nazista e comunista che, pur prevedendo la riserva di legge in materia penale, autorizzavano l’interprete a ricorrere allo strumento analogico nei giudizi penali[5].
Quanto al rango costituzionale del divieto di analogia, non si dubita più, nonostante la mancanza di un’esplicita enucleazione del divieto in parola nel testo costituzionale. Il divieto di analogia si trova sancito, a parere di taluno, negli artt. 1 e 199, c.p. che, rispettivamente, con riguardo ai reati e alle pene e alle misure di sicurezza, utilizzano l’espressione “espressamente”. Quanto al fondamento giuridico-sostanziale la dottrina, dunque, tende a riconoscere negli artt. 25, Cost. e 1 e 199, c.p., questi ultimi con valore di costituzione materiale, i referenti normativi del divieto[6]. Opposto orientamento dottrinale, ravvisa un’ulteriore base normativa del divieto di analogia negli artt. 24 e 112, Cost[7]. Nello specifico, infatti, si sostiene che ove la norma incriminatrice non fosse formulata rispettando il principio di tassatività, né l’imputato né l’accusa saprebbero da quale reato o per quale fatto, rispettivamente, difendersi ovvero esercitare l’azione penale.
Un aspetto su cui si discuteva in passato riguarda la natura assoluta ovvero relativa del divieto di analogia.
La tesi che sostiene il carattere assoluto del divieto di analogia faceva leva su argomentazioni di natura letterale e formale e, soprattutto, sostanziale[8]. In particolare si sottolineava il carattere unitario, monolitico, del sistema penale come tale incompatibile con un’ applicazione differenziata del divieto di abalogia rispetto alla norma punitiva e alle norme favorevoli[9].
Attualmente è nettamente prevalente la tesi che ammette la relatività del divieto di analogia che, dunque, opererebbe solo come divieto in malam, in senso peggiorativo per il reo, non anche nel caso di analogia in bonam, favorevole al reo. La natura relativa del divieto di analogia si poggia su due argomentazioni. In primis il tenore letterale dell’art. 14, disp. prel. c.c.; per “leggi penali” si deve intendere il complesso delle sole norme punitive in senso stretto, ossia le norme che prevedono il reato, la sanzione penale, gli effetti penali e le misure di sicurezza, non anche le norme favorevoli al reo. La tesi è, poi, avvalorata dall’argomento teleologico che fa leva sulla ratio intriseca del divieto di analogia. Se è vero, dunque, che la funzione del divieto in parola è quella di garantire la libertà individuale del singolo dagli arbitri del potere giudiziario, è evidente che la medesima esigenza di tutela non sussiste quando si debba applicare una norma di favor. Pertanto dal favor rei che ispira il sistema penale deriva la piena ammissibilità dell’analogia quando in bonam partem. Le uniche eccezioni al ricorso all’analogia in bonam partem sussistono quando la norma, da applicarsi analogicamente, sia norma eccezionale, nonché quando la lacuna normativa sia frutto di una scelta intenzionale del Legislatore.
A quanto fin qui premesso si collega la distinzione tra analogia, vietata, e interpretazione anche estensiva della norma penale. L’interpretazione estensiva della legge penale non è vietata ma, al contrario, è consentita al giudice. È opportuno, quindi, delineare i tratti distintivi delle due figure in questione, anticipando, quanto si dirà, che non sempre la giurisprudenza ha mostrato un atteggiamento univoco sul tema.
Sussiste interpretazione e non analogia ogni qual volta la norma venga applicata a un caso da essa previsto, nel rispetto, quindi, del tenore letterale della norma. L’interpretazione è l’attività dichiarativa, di chiarimento del significato della norma come emerso alla luce dei canoni ermeneutici menzionati (letterale, teleologico, sistematico e storico)[10]. L’interpretazione estensiva si caratterizza rispetto all’interpretazione restrittiva con riguardo al risultato dell’attività interpretativa, risultato che si mantiene comunque all’interno dei possibili significati della disposizione. L’analogia è operazione diversa che porta ad applicare la norma oltre i casi in essa, espressamente o implicitamente, contemplati. Si tratta, quindi, di attività creativa, di integrazione dell’ordinamento, che, nella evidenziata logica di favor rei, è bandita nell’ordinamento penale.
La distinzione appena descritta non è operata negli stessi termini chiari ed univoci nella casistica giurisprudenziale. Da un’analisi attenta delle applicazioni giurisprudenziali, si evince, infatti, che talvolta i giudici applicano in modo più elastico il criterio distintivo tra analogia e interpretazione, come avviene nel caso del reato di getto pericoloso di cose, ex art. 674, c.p., in cui si è ricompresa l’ipotesi della propagazione di onde elettromagnetiche[11]; altre volte la giurisprudenza ha applicato in modo rigoroso il divieto di analogia in malam partem per escludere l’applicazione delle norme incriminatrice dell’omissione di soccorso, ex art. 593, c.p., al caso di chi abbia avuto notizia generica del pericolo, in assenza di un “trovare” in senso stretto[12].
Allo stesso modo, in materia di stampa online, la recente giurisprudenza della Cassazione[13] ha applicato il divieto di analogia in malam partem per escludere l’estensione di alcune norme incriminatrici espressamente dettate per la stampa cartacea anche ai fatti commessi per mezzo telematico, online.
Nello specifico la sentenza della Cassazione n. 44126 del 2011[14], chiamate a pronunciarsi sull’applicabilità del reato ex art. 57, c.p., anche ai casi di stampa telematica, ha optato per la soluzione negativa. La ragione alla base della pronuncia è proprio il divieto di analogia che impedisce di assimilare la stampa cartacea alla stampa telematica, con effetto sfavorevole per l’imputato. L’art. 57, c.p., in particolare, prevede il reato di Direttore responsabile della testata giornalistica che abbia omesso di esercitare sul contenuto del periodico da lui diretto il controllo necessario ad impedire la commissione di reati col messo della pubblicazione. A detta della Cassazione la stampa online non presenta i caratteri tipici della stampa cartacea, come risultano descritti nell’art. 1, L. n. 47/1948. quest’ultima disposizione individua i due requisiti necessari che debbono congiuntamente sussistere ai fini dell’applicazione della disciplina penale della stampa.
In particolare, il primo requisito è che, a monte, vi sia una riproduzione tipografica, ossia un contenuto stampato su un supporto materiale mediante l’utilizzo di messi meccanici o chimico-fisici.
Secondo elemento è che le distribuzione della pubblicazione, a valle, finalizzata alla divulgazione della stessa presso un numero indefinito di destinatari.
Nel caso del quotidiano periodico online mancano entrambi i due requisiti. Da un lato manca la riproduzione tipografica del giornale online dal momento che sulla pagina web è riprodotta un’immagine in via telematica, senza l’utilizzo di un supporto fisico-meccanico. Se è vero, infatti, che è pure possibile una riproduzione stampata della versione originaria, questa non è realizzata a monte, come un prius rispetto all’impaginazione telematica, secondo quanto, al contrario, sembra richiedere la disciplina della L. n. 47/1948.
In secondo luogo è carente il requisito della distribuzione con finalità divulgativa attraverso gli ordinari canali dell’edicola, della consegna porta a porta e così via. Nel caso di giornale telematico, infatti, la pagina web è messa a disposizione di un numero indefinito di utenti i quali vi accedono di propria iniziativa.
Analogo ragionamento è seguito da un’altra pronuncia della Cassazione, sentenza n. 23230 del 2012[15], che affronta il problema della estensione della norma incriminatrice del reato di stampa clandestina anche ai casi di omessa registrazione del giornale telematico. Come è noto, l’art. 5, l. n. 47/1948, impone la registrazione del giornale o periodico presso la Cancelleria del Tribunale nella cui circoscrizione la pubblicazione deve effettuarsi. Il successivo art. 16 punisce il reato di stampa clandestina, ossia il reato di chi intraprende la pubblicazione del giornale o periodico senza che sia stata eseguita la registrazione prescritta dall’art. 5.
La pronuncia in questione, facendo propri i ragionamenti già sviluppati dalla Cassazione nel 2011, conclude escludendo che l’omessa registrazione di un giornale web possa configurare il reato di stampa clandestina espressamente punito con riferimento alle pubblicazioni cartacee. Qualora, infatti, si assoggettasse la stampa telematica alla disciplina dettata per la stampa cartacea, si finirebbe per violare gli artt. 25, comma 2, Cost. e art. 14, disp. prel. c.c., ossia le norme alla base del divieto di analogia.
In questo contrasto si colloca la pronuncia delle Sezioni Unite del 2015, n. 31022[16]. Tale sentenza rislve la questione relativa ai limiti alla sequestrabilità della stampa e, in particolare, alla possibilità di estendere la disciplina di favore dettata a tutela della libertà di stampa anche ai giornali telematici o in generale ai siti web. La soluzione accolta dal Supremo Consesso della giurisprudenza di legittimità è quella favorevole all’estensione dei limiti di sequestrabilità anche ai giornali web, purchè siano presenti i presupposti che consentono di assimilare il periodico telematico a quello cartaceo. Le Sezioni Unite pongono in essere un’interpretazione, a loro detta, etensiva e costituzionalmente orientata che conduce ad assimilare la stampa online a quella cartacea tutte le volte in cui si possono individuare i requisiti ontologico-strutturale e teleologico-funzionale che caratterizzano la nozione di stampa. La conclusione è che non ogni pagina web può essere considerata alla stregua della più ampia nozione di stampa ma occorre distinguere tra la testata giornalistica telematica di tipo professionale e ogni altra forma di espressione. Quando sussistono i caratteri della professionalità della pubblicazione, ovvero quello strutturale di un’organizzazione editoriale con a capo un Direttore Responsabile e quello teleologico della finalità di divulgazione della cronaca, al giornale telematico si estendono le garanzie apportata dalla legge in caso di sequestro preventivo.
Per tutte le altre forme di siti web, come forum, blog, Facebook, e così via, in assenza dell’elemento professionale e trattandosi di manifestazioni di idee divulgate in modo spontaneo e individuale, non è ammissibile un’equiparazione alla stampa propriamente detta ai fini della disciplina sui limiti al sequestro.
Ciò detto è opportuno ricordare che il sequestro preventivo ex art. 321, c.p.p., in presenza del fumus commissi delicti e del periculum in mora, può essere disposto soltanto in presenza di casi tassativamente previsti dal Legislatore; tra questi non rientra il caso, all’esame delle Sezioni Unite, in cui si proceda per il reato di diffamazione ex art. 656, c.p. E’ evidente, infatti, che la finalità di reprimere l’offesa arrecata con la condotta diffamatoria ha carattere recessivo rispetto alla libertà di manifestazione del pensiero costituzionalmente garantita ai sensi dell’art. 21, Cost. In particolare il comma 3, art. 21, Cost., prevede che si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria nei casi espressamente previsti dalla legge in materia di stampa. La soluzione adottata dalle Sezioni Unite deriva, dunque, da un’interpretazione estensiva della disciplina in parola favorita da una lettura costituzionalmente orientata alla luce degli artt. 3 e 21, Cost.
[1] Sul principio di legalità si veda: VASSALLI, Nullum crimen, nulla poena sine lege, in Dig. Disc. Pen., Torino, 1994, p. 278; CORDERO, Legalità penale, in Enc. Giur. Treccani, Roma, 1990, 1; GRASSO, Il principio “nullum crimen sine lege” nella Costituzione italiana, Milano, 1972.
[2] DOLCINI-MARINUCCI, Il principio di determinatezza. Fonti e definizioni, in Codice penale commentato, pt. Gen., Milano, 1999, 57 ss.
[3] BOBBIO, Contributi ad un dizionario giuridico, Torino, 1994, 4
[4] CONTENTO, Corso di diritto penale, Bari, 1989, 58
[5] GAROFOLI, Manuale di diritto penale, NelDiritto, Roma, 2015, p. 176
[6] In senso favorevole BRICOLA, La discrezionalità nel diritto penale, Milano, 1965, 267; FIANDACA-MUSCO,Diritto penale, Bologna, 2001, 94; in senso contrario ESPOSITO, Irretroattività e legalità delle pene nella nuova Costituzione, in Scritti giuridici in onore di Francesco Carnelutti, Padova, 1950, IV, 511
[7] GAROFOLI, cit., p. 176
[8] SABATINI, Istituzioni di diritto penale, I, Catania, 1946, 120
[9] Si veda PANNAIN, Manuale di diritto penale, Torino, 1967, 142 e ss.
[10] GAROFOLI, cit., 178
[11] Corte Cass. Pen., sez. III, 26 settembre 2008, n. 36845, in Cass. pen., 2008, 3, 927
[12] Cass. Pen., 31 gennaio 1978, n. 378
[13] Cass. Pen., 29 novembre 2011, n. 44126, in Cass. Pen., 2012, 11, 3768; Cass. Pen., 13 giugno 2012, n. 23230, in Dir. Informatica, 2012, 6, 1118; Cass. Pen., Sez. Un., 29 gennaio 2015, n. 31022, in Cass. Pen., 2015, 10, 3437.
[14] Cass. Pen., 29 novembre 2011, n. 44126, cit.
[15] Cass. Pen., 13 giugno 2012, n. 23230, cit.
[16] Cass. Pen., Sez. Un., 29 gennaio 2015, n. 31022, cit.
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