Riferimento normativo: Cod. proc. pen., art. 282-ter
Indice:
- Il fatto
- I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
- Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione
- La posizione assunta dalla Procura generale
- Le valutazioni giuridiche formulate dalle Sezioni Unite
- Conclusioni
Il fatto
Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Palermo disponeva nei confronti di una persona, indagata per il reato di maltrattamenti ex art. 572 c.p. nei confronti della madre, la misura coercitiva di cui all’art. 282-ter c.p.p. “divieto di avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa, con le prescrizioni di mantenere la distanza di almeno 300 m dall’abitazione della madre…. e dalla stessa persona offesa ovunque si trovi…”, oltre al divieto di comunicazione con la medesima.
A sua voltas, il Tribunale di Palermo, decidendo sulla richiesta di riesame ex art. 309 c.p.p., confermava l’ordinanza applicativa della misura, rilevando innanzitutto la sussistenza di gravi indizi di abituali condotte vessatorie dell’indagato nei confronti della madre con reiterate aggressioni verbali e fisiche, tali da mortificare la persona offesa e, poi, un serio rischio di prosecuzione di tali maltrattamenti, considerati i recentissimi accadimenti e l’indole violenta dell’indagato.
Si riteneva, quindi, adeguata alla tutela della vittima la misura disposta che impediva il contatto diretto tra le parti, quanto alle prescrizioni del divieto di avvicinamento all’abitazione e alla persona offesa. Rispetto a quest’ultima prescrizione, valutate le specifiche deduzioni della difesa, il Tribunale considerava altresì che, secondo la interpretazione corretta dell’art. 282 ter c.p.p., non vi è necessità di specificazione dei luoghi di operatività del divieto, poiché in situazioni come quella in oggetto, caratterizzate dalla persistente ricerca di avvicinamento della vittima, il contatto ben può avvenire anche al di fuori dei luoghi che potrebbero essere preventivamente individuati.
I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Avverso il provvedimento summenzionato il difensore dell’indagato proponeva ricorso per Cassazione con cui erano dedotti i seguenti motivi: 1) violazione e falsa applicazione degli artt. 273, 275, 292, 125 e 192 c.p.p., e art. 572 c.p., rilevandosi innanzitutto la nullità delle ordinanze di applicazione e conferma della misura cautelare poiché, per il ricorrente, sarebbe mancata un’autonoma valutazione del materiale indiziario sia da parte del Giudice per le indagini preliminari, che del Tribunale, per poi considerare, sulla scorta dal contenuto degli elementi indiziari che indica analiticamente, che la ricostruzione dei fatti oggetto della vicenda era erronea, facendosi a tal riguardo presente che, essendo solo due gli episodi significativi verificatisi in quattro anni, non poteva affermarsi che sia integrata una condotta abituale di maltrattamenti; 2) violazione di legge e vizio di motivazione in riferimento agli artt. 275, 292 e 282 ter c.p.p., e art. 572 c.p. poiché, per la difesa,
la motivazione sulla applicazione della misura cautelare era generica non essendoci stata l’indicazione dei luoghi determinati per i quali vigeva il divieto di avvicinamento mentre la misura disciplinata dall’art. 282 ter c.p.p., richiede la indicazione specifica e dettagliata dei luoghi determinati ai quali il ricorrente non si deve avvicinare, non essendo sufficiente precludere l’accesso a qualunque luogo in cui la vittima si trovi.
Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione
La Sezione a cui era stato assegnato il ricorso, vale a dire la sesta sezione, rimetteva il procedimento alle Sezioni Unite ravvisando sul tema posto dal secondo motivo di ricorso un contrasto nella applicazione dell’art. 282 ter c.p.p., comma 1.
In particolare, l’ordinanza rilevava che, secondo un primo indirizzo, al destinatario della misura cautelare può essere imposto l’obbligo di mantenere una determinata distanza dalla persona offesa ovunque essa si trovi, senza specificare i luoghi oggetto del divieto, nel caso in cui la condotta da prevenire sia caratterizzata dalla persistente ricerca di avvicinamento alla vittima indipendentemente dal luogo in cui la stessa si trovi di volta in volta, indicandosi all’uopo i seguenti precedenti: Sez. 5, n. 18139 del 26/03/2018; Sez. 6, n. 42021 del 13/09/2016; Sez. 5, n. 28677 del 14/03/2016; Sez. 5, n. 30926 del 08/03/2016; Sez. 5, n. 48395 del 25/09/2014; Sez. 5, n. 19552 del 26/03/2013; Sez. 5, n. 36887 del 16/01/2013; Sez. 5, n. 13568 del 16/01/2012.
Più nel dettaglio, secondo tale interpretazione, il divieto di avvicinamento a luoghi determinati frequentati dalla vittima è destinato, invece, a trovare applicazione nel caso in cui la condotta paventata sia limitata a contatti nei luoghi di svolgimento della vita quotidiana della persona offesa fermo restando che, a sostegno di questa interpretazione, era richiamata la Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio U.E. n. 2001 del 13 dicembre 2011, in tema di ordine di protezione Europeo, che all’art. 5, lett. c), contempla il divieto di avvicinamento alla persona protetta entro un “perimetro” definito.
Secondo una diversa interpretazione dell’art. 282 ter c.p.p., comma 1, invece, è necessario che il provvedimento del giudice specifichi in ogni caso i luoghi per i quali vige divieto di avvicinamento dal momento che tale indicazione risulta necessaria ai fini della concreta esecuzione del provvedimento impositivo e del controllo del rispetto delle prescrizioni tenuto conto altresì del fatto che, in tale modo, inoltre, si ottiene la massima garanzia della vittima con il minore sacrificio per la persona sottoposta alle indagini, rimarcandosi al contempo come tale linea esegetica sia stata argomentata nelle susseguenti sentenze: Sez. 5, n. 28225 del 26/05/2015; Sez. 6, n. 8333 del 22/01/2015; Sez. 5, n. 5664 del 10/12/2014; Sez. 6, n. 14766 del 18/03/2014; Sez. 5 n. 27798 del 04/04/2013; Sez. 6, n. 26819 del 07/04/2011, essenzialmente in situazioni nei quali la misura era applicata per il reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p..
In conclusione, era stato richiesto di sciogliere il dubbio interpretativo sul se, nel disporre la misura cautelare del divieto di avvicinamento alla persona offesa, ex art. 282 ter c.p.p., il giudice debba necessariamente determinare in modo specifico i luoghi oggetto di divieto.
La posizione assunta dalla Procura generale
Il Procuratore generale presso la Corte di Cassazione, dal canto suo, presentava note di udienza con le quali, sul punto oggetto del contrasto, rilevava come la lettera della disposizione dell’art. 282 ter c.p.p., consentisse di prospettare due alternative.
Infatti, se, secondo la prima opzione esegetica, la specificazione del mantenimento di una data distanza dalla persona offesa è strettamente connessa alla previsione del tenersi a distanza dai luoghi frequentati dalla stessa fermo restando che, da un lato, secondo tale lettura della disposizione, la misura potrebbe essere formulata, in modo alternativo, nei termini o di obbligo di mantenimento di una data distanza dai luoghi in ogni caso oppure solo quando la persona offesa in quei luoghi sia effettivamente presente, dall’altro, tale diversa modalità di applicazione, che condiziona l’operatività della misura alla presenza effettiva della persona offesa nel luogo per il quale è imposto il divieto di avvicinamento, si presta a risolvere le situazioni nelle quali, ad esempio, le abitazioni di entrambe le parti siano poste in un medesimo contesto spaziale, in base alla seconda alternativa interpretativa il testo della disposizione, utilizzando la disgiunzione “o” tra la previsione della fissazione di una data distanza da mantenere dai “luoghi determinati” ovvero dalla “persona offesa“, disciplina due prescrizioni diverse: una prima consistente nell’obbligo di mantenersi a distanza da un luogo in quanto tale, una seconda in cui il divieto di avvicinamento è riferito alla persona offesa, ovunque essa si trovi.
Orbene, tale ultima soluzione era ritenuta dal Procuratore generale la più ragionevole sulla base di ampie argomentazioni con le quali rilevava come si tratti di una misura dal contenuto ben determinato e che non comporta un’eccessiva limitazione della libertà dell’indagato.
La conclusione proposta dal Procuratore generale, quindi, era nel senso che la previsione del divieto di avvicinamento alla persona offesa in quanto tale è una misura cautelare tipica, determinata nella previsione con indicazione di precise modalità esecutive, pienamente proporzionale rispetto alle libertà fondamentali dell’indagato e alle esigenze di tutela della persona offesa.
Le valutazioni giuridiche formulate dalle Sezioni Unite
Prima di entrare nel merito della questione, le Sezioni Unite procedevano a delimitarla nei seguenti termini: “se, nel disporre la misura cautelare prevista dall’art. 282 ter c.p.p., il giudice debba determinare specificamente i luoghi oggetto del divieto di avvicinamento e di mantenimento di una determinata distanza”.
Premesso ciò, si evidenziava innanzitutto come fosse in discussione la concreta modalità di applicazione della misura cautelare di cui all’art. 282 ter c.p.p. la cui rubrica recita “divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa”.
Tale misura è difatti finalizzata ad impedire condotte minacciose o violente nei confronti di vittime predeterminate ed appare funzionale alla tutela dell’incolumità della persona offesa non solo da aggressioni verbali o fisiche, ma anche nella sfera psichica in conseguenza del turbamento derivante dall’incontro con l’indagato o dalla percezione della vicinanza dello stesso fermo restando che il suo contenuto è duplice potendo il giudice prescrivere all’intimato di “non avvicinarsi a luoghi determinati”, in funzione del fatto che sono abitualmente frequentati dalla persona offesa, o imporre al medesimo di “mantenere una determinata distanza da tali luoghi o dalla persona offesa”.
Oltre a ciò, era altresì rilevato come la misura de qua abbia posto nella prassi applicativa un problema interpretativo sulla necessaria specificità delle prescrizioni in relazione ai singoli casi concreti.
Come segnalato nell’ordinanza di rimessione, invero, sulla questione sono intervenute soluzioni giurisprudenziali prima facie differenti: parte delle decisioni ha affermato che è sempre necessario che il provvedimento cautelare indichi in modo specifico e dettagliato i luoghi rispetto ai quali è inibito l’accesso all’indagato; altra parte, invece, ha ritenuto sufficiente l’imposizione generica del divieto di avvicinamento alla persona offesa ovunque la stessa si trovi.
A fronte di tale criticità applicativa, le Sezioni Unite osservavano come l’ordinanza di rimessione avesse individuato quale interpretazione corretta la seconda, ritenendo, però, che alle relative conclusioni si potesse giungere solo sulla base di un’interpretazione logica e non, invece, su più solide basi testuali.
Considerato, pertanto, che la lettera della disposizione non appare sufficientemente precisa per disciplinare senza incertezze una misura coercitiva, era stato dunque ritenuto necessario un intervento delle Sezioni Unite.
Chiarito ciò, siffatte Sezioni procedevano ad illustrare i contenuti essenziali delle decisioni che possono iscriversi nell’ambito dei due indirizzi considerando che, come già dava atto la stessa ordinanza di rimessione, le contrapposizioni sono spesso piuttosto sfumate, perché le scelte operate nei casi particolari oggetto di giudizio tengono conto di situazioni di fatto alquanto diverse, trattandosi di una misura che deve essere variamente calibrata per la concreta fattispecie.
Ebbene, secondo un primo indirizzo giurisprudenziale, l’ordinanza applicativa della misura cautelare deve determinare specificamente i luoghi oggetto del divieto di avvicinamento alla persona offesa, fermo restando che tale indirizzo trova la sua ragion d’essere non solo nel dato normativo nel quale si fa espresso riferimento a luoghi “determinati“, ma soprattutto nel fatto che le limitazioni poste all’indagato risulterebbero, altrimenti, eccessivamente gravose rispetto ai suoi diritti di libertà e locomozione; difatti, senza una chiara indicazione dell’ambito geografico del divieto di avvicinamento, egli verrebbe assoggettato a compressioni della propria libertà personale di carattere indefinito.
Solo tipizzando la misura, in effetti, il provvedimento cautelare assume una conformazione completa, che consente il controllo delle prescrizioni funzionali al tipo di tutela che la legge intende assicurare, garantendo, così, il giusto contemperamento tra le esigenze di sicurezza, improntate alla tutela della vittima, e il minor sacrificio della persona sottoposta ad indagini, trattandosi di una linea espressa da Sez. 6, n. 26819 del 7/4/2011, particolarmente argomentata, intervenuta in un caso di atti persecutori e maltrattamenti commessi dal coniuge separato.
In particolare, in tale decisione, veniva fatto presente come la Corte di legittimità abbia messo in luce la peculiarità di questo nuovo tipo di misura che, differenziandosi dalle tradizionali misure cautelari “interamente predeterminate“, generalmente non necessitanti di integrazioni prescrittive, rimette al giudice la individuazione del contenuto prescrittivo della misura: “… sia la misura di allontanamento dalla casa familiare, che quella del divieto di avvicinamento si caratterizzano perché affidano al giudice della cautela il compito, oltre che di verificare i presupposti applicativi ordinari, di riempire la misura di quelle prescrizioni essenziali per raggiungere l’obiettivo cautelare ovvero per limitare le conseguenze della misura stessa” e tale peculiarità del contenuto della misura, oltre ad imporre una “accurata raccolta di informazioni da parte degli organi inquirenti” per poter indicare prescrizioni effettivamente adeguate al caso concreto, non fa venir meno la necessità di “indicare in maniera specifica e dettagliata i luoghi oggetto del divieto, perché solo in tal modo il provvedimento assume una conformazione completa, che ne consente l’esecuzione ed il controllo delle prescrizioni funzionali al tipo di tutela che si vuole assicurare”.
La conclusione a cui si giungeva, pertanto, è che un provvedimento calibrato sul mantenimento di una data distanza dalla persona offesa, ovunque essa si trovi in un dato momento, non rispetta il contenuto legale e, comunque, prescrive una condotta generica atteso che un provvedimento che imponga di “”mantenere una distanza non inferiore a metri 100 in caso di incontro occasionale” con la persona offesa”, applicabile persino nel caso in cui l’indagato non abbia cercato il contatto con la vittima, sarebbe caratterizzato da “eccessiva gravosità e (…) sostanziale ineseguibilità”.
Terminata la disamina di siffatta pronuncia, gli Ermellini evidenziavano come gli argomenti di questa decisione siano sempre stati richiamati espressamente dalle successive decisioni che sono giunte a conclusioni analoghe, e segnatamente, le seguenti: 1) Sez. 5 n. 27798 del 04/04/2013, pronunciando in materia di atti persecutori, tradottisi in continui appostamenti e pedinamenti ai danni della vittima, osserva che “non è concepibile una misura cautelare che si limiti a fare riferimento genericamente a “tutti i luoghi frequentati” dalla vittima, o prescriva di “mantenere una determinata distanza” dai luoghi frequentati dalla persona offesa, giacché si tratterebbe di un provvedimento che finirebbe con l’imporre una condotta di non tacere indeterminata rispetto ai luoghi, la cui individuazione finirebbe per essere di fatto rimessa alla persona offesa” mentre è, invece, sufficientemente determinato l’obbligo che faccia riferimento a luoghi ben individuati e noti all’indagato, “sicché non risulta compromessa la chiarezza dell’obbligo, né viene imposto un obbligo esorbitante dalle finalità della cautela”; 2) Sez. 6, n. 14766 del 18/3/2014, afferma la necessità di determinare i luoghi oggetto del divieto che non possono essere individuati sulla scorta dei movimenti della persona offesa; il Collegio rileva, difatti, che la norma richiede la determinatezza dei luoghi e che non si può, per via interpretativa, ridefinire il contenuto correlandolo alla individuazione dei movimenti della persona offesa: “il giudice ha la possibilità di adeguare l’intervento cautelare previsto dall’art. 282 ter c.p.p., alle esigenze di specie attraverso le tre diverse flessioni previste, ma la scelta del divieto di avvicinamento ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa deve rispettare la connotazione legale che lo vuole riferito a determinatì luoghi, che è compito del giudice indicare a pena di una censurabile indeterminatezza”; 3) Sez. 5, n. 495 del 21/10/2014, chiamata a pronunziarsi in un caso in cui la misura aveva disposto il divieto di avvicinamento alla parte offesa minore e all’abitazione della stessa con contestuale obbligo di osservare una distanza non inferiore a metri 200, ha ritenuto la “assoluta carenza di completezza delle prescrizioni imposte all’indagato, il quale effettivamente non appare nella condizione di rispettare l’obbligo che gli è imposto, non essendo stati indicati i luoghi dai quali lo stesso deve rispettare una distanza di almeno 200 m.”; 4) Sez. 6, n. 8333 del 22/01/2015, relativamente ad un caso di maltrattamenti in cui era stato imposto all’imputato il divieto di avvicinarsi “ai luoghi frequentati” dalla persona offesa, ha sostenuto, con una motivazione sostanzialmente adesiva a Sez. 6, n. 26819 del 7/4/2011, la necessità di indicazione in modo specifico dei “luoghi” oggetto del divieto, tenuto conto altresì del fatto che la decisione considera, ferma restando “la necessità che il prevenuto non si accosti fisicamente alla persona offesa ovunque la possa intercettare”, il contenuto del provvedimento cautelare come un qualcosa il quale deve porre l’indagato (o imputato) in condizione di conoscere preventivamente, quali siano i luoghi frequentati dalla persona offesa ai quali non deve avvicinarsi in via assoluta atteso che un provvedimento privo di tali indicazioni, invece, non ha il contenuto legale richiesto espressamente dalla norma e, soprattutto, è del tutto generico, imponendo una condotta di non facere del tutto indeterminata e la cui individuazione è di fatto affidata alla persona offesa, eccessivamente gravoso e ineseguibile; 5) Sez. 3, n. 1629 del 6/10/2015, in un caso in cui era in contestazione il reato di atti persecutori in concorso con il delitto di cui all’art. 609-bis c.p., ha affermato che “il divieto di avvicinamento ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa deve necessariamente indicare in maniera specifica e dettagliata i luoghi oggetto del divieto, perché solo in tal modo il provvedimento assume una conformazione completa, che ne consente l’esecuzione ed il controllo delle prescrizioni funzionali al tipo di tutela che si vuole assicurare”.
All’opposto, le decisioni riconducibili all’altra linea interpretativa considerano le finalità della disposizione in esame la cui introduzione è stata condizionata dalla necessità di tutelare situazioni frequenti soprattutto nel caso di commissione del reato di atti persecutori, ovvero quando la condotta oggetto della temuta reiterazione abbia i connotati della persistente ed invasiva ricerca di contatto con la vittima in qualsiasi luogo in cui la stessa si trovi.
In tali situazioni, invero, la norma consente di riferire il divieto di avvicinamento non a luoghi “statici“, bensì alla persona offesa in qualsiasi luogo si trovi.
Con un tale provvedimento, quindi, non è più rilevante individuare i luoghi di abituale frequentazione della vittima.
Anzi, quando ricorrano tali condizioni di pericolo, l’obbligo di indicazione dei luoghi rischia di essere addirittura “dissonante con le finalità della misura“, potendosi risolvere in un’autentica impossibilità di tutelare il libero svolgimento della vita sociale della vittima al di fuori di spazi predefiniti.
Oltre a ciò, era fatto altresì presente che queste decisioni, poi, considerano come sia sostanzialmente irrilevante il rischio di una seria compressione della libertà dell’indagato: alle date condizioni vi è un contenuto coercitivo sufficientemente definito nel divieto di contatti ravvicinati con la persona offesa, la presenza della quale in un certo luogo è sufficiente ad indicare lo stesso come precluso all’accesso dell’indagato, rilevandosi al contempo che, in detti termini, si segnala innanzitutto Sez. 5, n. 13568 del 2012, V., Rv. 253297 e Rv. 253296 che ha deciso in un caso di imposizione del divieto di avvicinamento al coniuge, persona offesa del reato di cui all’art. 612 bis c.p., la cui motivazione si confronta espressamente con gli argomenti della citata sentenza n. 26819 del 07/04/2011 sul rischio di imporre un divieto dal contenuto indeterminato.
Seguono, poi, numerose altre decisioni sulla medesima linea, quali: Sez. 5, n. 28677 del 14/03/2016; Sez. 5, n. 30926 dell’8/3/2016; Sez. 5, n. 48395 del 25/9/2014; Sez. 5, n. 14297 del 27/2/2013, non mass., e Sez. 5, n. 36887 del 16/01/2013, con riferimento a procedimenti per il reato di atti persecutori, le quali affermano che non è necessaria una specifica predeterminazione dei luoghi frequentati dalla vittima ed interdetti all’indagato, essendo sufficiente il richiamo ai luoghi “abitualmente” frequentati, né può ritenersi che in tale modo l’indagato sia sottoposto a “… limitazioni della propria libertà personale di carattere indefinito, estranee alle proprie intenzioni persecutorie e di fatto dipendenti dalla volontà della persona offesa. Le prescrizioni, anche quando limitate al generico riferimento al divieto di avvicinarsi alla persona offesa ed ai luoghi in cui la stessa in concreto si trovi, mantengono invero un contenuto coercitivo sufficientemente definito nell’essenziale imposizione di evitare contatti ravvicinati con la vittima, la presenza della quale in un certo luogo è sufficiente ad indicare lo stesso come precluso all’accesso dell’indagato” (Sez. 5, n. 19552 del 26/3/2013).
In questi casi, quindi, facendo concreto riferimento a modalità tipiche di manifestazione del reato di cui all’art. 612-bis c.p. quali il “costante pedinamento della vittima (..) anche in luoghi nei quali la prima si trovi occasionalmente”, si sostiene che è ben possibile imporre tale particolare misura perché consente di soddisfare le esigenze di tutela della vittima “anche laddove la condotta dell’autore del reato assuma connotazioni di persistenza persecutoria slegata da particolari ambiti territoriali” fermo restando che, a queste condizioni, tale particolare prescrizione non ha “un contenuto generico o indeterminato, come talvolta si è sostenuto, pure in dottrina, perché rimanda ad un comportamento specifico, chiaramente individuabile: quello di non ricercare contatti, di qualsiasi natura, con la persona offesa…” (Sez. 5, n. 5664 del 10/12/2014).
Inoltre, con riferimento al reato di cui all’art. 572 c.p., si è affermato come il divieto di avvicinamento ai “luoghi” e l’obbligo di non avvicinarsi alla persona offesa (ovvero di allontanarsi da essa) rappresentino due possibili contenuti della medesima misura che possono essere o meno applicati entrambi, “senza incorrere nel limite di cumulo precisato dalle S.U. di questa Corte con la sentenza 30 maggio 2006, n. 29907” (Sez. 6, n. 28666 del 23/6/2015; Sez. 6, n. 2242 del 19/1/2021, non mass., Sez. 5, n. 7633 del 29/1/2019, Sez. 6, n. 42021 del 13/9/2016, relative al reato di maltrattamenti, Sez. 5, n. 18139 del 26/03/2018, relativa al reato di cui all’art. 612 bis c.p., Sez. 3, n. 19180 del 14/3/2018, non mass., in tema di violenza sessuale, sostanzialmente negli stessi termini).
Orbene, a questo punto della disamina, gli Ermellini ritenevano necessario considerare la peculiare portata dell’indubbio contrasto di applicazione dell’art. 282 ter c.p.p. e ciò era fatto nei seguenti termini: “L’interpretazione riconducibile al secondo indirizzo valorizza il dato testuale della disposizione e ritiene la piena legittimità di un provvedimento adottato ai sensi dell’art. 282 ter c.p.p., che, quale criterio regolatore in concreto della misura rispetto alla sua previsione astratta, indichi esclusivamente la distanza da mantenere dalla persona offesa ovunque la stessa si trovi nel dato momento. Secondo tale orientamento vi è una netta differenza tra il divieto di avvicinamento ai “luoghi” ovvero alla “persona”: si tratta, nell’ambito della stessa misura cautelare, di due diverse prescrizioni che possono essere applicate sia in modo alternativo che congiuntamente, quando ricorra un significativo rischio di aggressione, fisica o psicologica, ad opera dell’indagato. La funzione è quella di realizzare uno schermo di protezione per la persona offesa, perché possa svolgere liberamente la sua vita quotidiana. Secondo le vicende concrete, potrà essere necessario o meno che tale “schermo” accompagni la persona offesa ovunque si trovi nel dato momento; in varie decisioni si chiarisce come ciò avvenga soprattutto per le condotte “persecutorie” che realizzano il reato dell’art. 612 bis c.p.. (…) Rispetto a tale interpretazione, va considerato che il punto di effettivo contrasto che si individua nell’altra linea ermeneutica è rappresentato principalmente da quelle decisioni che non considerano dirimente il dato testuale per consentire l’applicazione di un divieto “mobile” fondato sulla posizione, anche occasionale, della vittima e ritengono che tale previsione abbia una connotazione generica e indeterminata. Alcune decisioni sottolineano come vi sia il rischio di porre a carico dell’indagato le conseguenze della trasgressione per il solo fatto di essersi ritrovato casualmente alla presenza della persona offesa; il tutto, poi, con la inevitabile conseguenza di trasformare la misura coercitiva in una imposizione di condotte positive, di un facere il cui contenuto è rimesso alla potestà della persona offesa. (…) Quindi, le pronunce che partono dalla argomentata Sez. 6, n. 26819 del 7/4/2011 e quelle che ad essa fanno espressamente rinvio pongono in realtà un problema di individuazione dei presupposti e del perimetro della misura anche in prospettiva costituzionale. Dal confronto, tra le altre, delle motivazioni delle citate Sez. 5, n. 30926, dell’8.3.2016, S., Rv. 267792 e Sez. 5, n. 18139 del 26/3/2018, B., Rv. 273173 appare come il dibattito è caratterizzato da sfumature ed accenti diversi che ben si notano là dove si fa riferimento alle diverse fattispecie applicative dell’art. 282 ter c.p.p., e alle differenti esigenze di tutela del caso concreto; si richiede l’indicazione specifica dei luoghi in quelle particolari situazioni in cui la condotta criminosa si vada ad estrinsecare nei luoghi di riferimento abituali della persona offesa, mentre, nei casi in cui la condotta paventata sia volta alla ricerca di contatto con la vittima ovunque si trovi, quest’ultima diviene il riferimento centrale del divieto di avvicinamento per cui è irrilevante l’individuazione dei luoghi di abituale frequentazione della medesima vittima. In sostanza, la diversità di decisioni che ha dato luogo al contrasto appare determinata anche da differenti situazioni di fatto nelle singole vicende. E’, perciò, corretta la valutazione della Sezione rimettente la quale argomenta che le due opzioni interpretative non sono necessariamente da intendere in termini di alternatività, ma che occorre piuttosto “l’adozione delle opportune precisazioni circa i limiti di applicazione delle prescrizioni secondo le necessità richieste dalla specificità del caso”. “L’art. 282 ter c.p.p., consente di modulare il divieto di avvicinamento sia guardando ai luoghi frequentati dalla vittima che prendendo come parametro di riferimento direttamente il soggetto che ha patito l’azione delittuosa, potendo l’iniziativa cautelare essere strutturata imponendo all’indagato di tenersi ad una certa distanza dalla vittima” (cfr. in tal senso ordinanza di rimessione)”.
Considerato ciò, i giudici di piazza Cavour stimavano necessario richiamare il quadro normativo in cui si inserisce l’istituto in oggetto, e ciò era effettuato nel susseguente modo: “La misura del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa è stata prevista nell’ambito di una serie di riforme mirate ad introdurre, nell’ambito del sistema penale, e non solo, misure orientate alla tutela specifica della vittima del reato. (…) La L. 4 aprile 2001, n. 154 ha inserito l’art. 282 bis c.p.p., che disciplina la misura dell’allontanamento dalla casa familiare e prevede al comma 2, con una formulazione prima facie simile a quella successivamente adottata nella disciplina del divieto di avvicinamento, la possibilità per il giudice di prescrivere, nel caso di allontanamento dalla casa familiare, anche il divieto di avvicinamento dell’indagato ai luoghi ove la persona offesa svolge la sua vita di relazione. (…) Il successivo D.L. 23 febbraio 2009, n. 11, recante “Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori”, convertito, con modificazioni, dalla L. 23 aprile 2009, n. 38, al fine dichiarato di maggiore incisività della tutela offerta rispetto ad allarmanti condotte persecutorie non adeguatamente contrastate, ha introdotto: – sul piano del diritto sostanziale, il delitto di atti persecutori (art. 612-bis c.p.) che di solito si caratterizza per la reiterazione assillante di condotte intrusive, quali appostamenti, pedinamenti, telefonate, comunicazioni in forma elettronica e per l’assunzione di atteggiamenti minacciosi e intimidatori percepibili dalla persona offesa anche in assenza di diretto contatto fisico; il sistema penale, difatti, presentava fino a quel momento un vuoto di tutela rispetto ad una condotta illecita grave e frequente suscettibile di inquadramento in paradigmi normativi inidonei a contrastare efficacemente questo tipo di condotta; – sul piano processuale, per offrire una risposta incisiva nel caso di condotte illecite mirate ad una vittima determinata o ai suoi congiunti, il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa (art. 282 ter c.p.p.), nuova misura cautelare coercitiva che riprende ratio e struttura dell’art. 282 bis, costituendone una sorta di “perfezionamento”. La disposizione, nella intenzione del legislatore, mira sostanzialmente a prevenire sviluppi criminogeni potenzialmente degenerativi, in quanto la distanza tra l’indagato e la persona offesa dal reato dovrebbe evitare le occasioni di contatto agevolatrici della prosecuzione di condotte delittuose.
(…) Ulteriore perfezionamento del sistema di protezione della vittima è rappresentato dalla L. 19 luglio 2019, n. 69, recante “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere”, che ha introdotto: a) regole di priorità di trattazione dei procedimenti per i delitti previsti dagli artt. 572, 609 bis, 609 ter, 609 quater, 609 quinquies, 609 octies, 612 bis e 612 ter, 582 e 583 quinquies, nelle ipotesi aggravate ai sensi dell’art. 576 c.p., comma 1, nn. 2, 5 e 5.1, e art. 577 c.p., comma 1, n. 1, e comma 2, considerati “spia” della degenerazione delle relazioni familiari o comunque personali; b) l’inasprimento delle pene dei reati che costituiscono tipiche manifestazioni di complesse relazioni domestiche; c) l’introduzione di nuove fattispecie di reato, tra cui l’art. 387 bis c.p., che punisce la violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa. Tale disposizione costituisce l’attuazione dell’art. 53 della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, (“Convenzione di Istanbul”), ratificata con L. 27 giugno 2013, n. 77, nel punto in cui dispone che la violazione delle misure dell’allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento e comunicazione con la vittima ad opera del destinatario deve essere sanzionata penalmente o comunque deve dare luogo a “sanzioni legali efficaci, proporzionate e dissuasive”. (…) Infine, con il D.L. n. 93 del 2013, e la citata L. n. 69 del 2019, è stata prevista anche per le misure degli artt. 282 bis e 282 ter c.p.p., la possibilità di utilizzo delle procedure di controllo mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici (c.d. braccialetto elettronico), già disciplinata dall’art. 275 bis c.p.p., per la misura degli arresti domiciliari”.
Ciò posto, terminato tale excursus normativo, la Suprema Corte notava che la soluzione, da cui le Sezioni Unite dovevano partire, involgeva innanzitutto dall’interpretazione letterale della disposizione in questione che, peraltro, come aveva anche chiaramente indicato il Procuratore generale, è abbastanza lineare e univoca, laddove nel comma 1, correla il divieto di avvicinamento ai luoghi “determinati” abitualmente frequentati dalla parte offesa ovvero l’obbligo di mantenimento di una determinata distanza da “tali luoghi“.
Una volta fatto ciò, per la Corte di legittimità, occorreva, poi, seguire una lettura-logico sistematica unitamente all’art. 282 bis c.p.p., nonché una valutazione di compatibilità con i principi fondamentali in tema di diritti costituzionali di libertà e locomozione atteso che questi ultimi sono i profili che appaiono giustificare una lettura contraria alla possibilità di imporre un gravoso divieto “dinamico” di avvicinamento alla persona offesa, oltre che di allontanamento nel caso di incontro casuale, tenuto conto altresì del fatto che l’inserimento dell’art. 282 ter c.p.p., nell’elenco delle misure coercitive come concepite nella originaria previsione del codice di procedura (artt. 272 – 286 bis c.p.p.) rende necessaria la valutazione della nuova disposizione nell’ambito di quelle precedenti e seguenti e delle altre regole introdotte con la stessa normativa, tutti elementi necessari per ottenere la chiave di lettura dell’istituto.
Chiarito ciò, il Supremo Consesso osservava, innanzitutto, considerando l’inserimento della misura dell’art. 282 ter c.p.p., nel capo II delle misure cautelari personali, quindi tra le misure coercitive “tradizionali” del codice di rito, coma andasse preliminarmente considerato il già citato rapporto con l’art. 282 bis c.p.p., che per primo introduceva una misura coercitiva mirata esclusivamente a prevenire uno specifico rischio dovuto a tipici rapporti tra indagato e persona offesa, mantenendo le limitazioni “delle” libertà del destinatario della misura, per quanto possibile, entro i limiti strettamente necessari alla tutela della vittima, atteso che, in precedenza, un simile risultato poteva ottenersi, e solo in via indiretta, con il divieto di dimora mentre, per il resto, soltanto con alcune delle misure interdittive le limitazioni di facoltà (più che di libertà) erano, già sul piano della previsione astratta, tendenzialmente mirate a fare coincidere le prescrizioni in danno dell’indagato a quanto necessario a tutela della specifica vittima del reato per il quale si procede e non, in termini più generali, a tutela della collettività.
Detto ciò, si evidenziava che l’art. 282 bis c.p.p., comma 1, prevede quale prescrizione principale l’allontanamento dell’indagato dalla casa familiare con la possibilità di autorizzazione del giudice al rientro (tipicamente per la visita ai figli), mentre il comma 2 della medesima disposizione introduce anche la possibilità di un’ulteriore prescrizione, ossia il divieto di avvicinamento a “luoghi” determinati: “Il giudice, qualora sussistano esigenze di tutela dell’incolumità della persona offesa o dei suoi prossimi congiunti, può inoltre prescrivere all’imputato di non avvicinarsi a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa, in particolare il luogo di lavoro, il domicilio della famiglia di origine o dei prossimi congiunti”, rilevandosi al contempo che tale seconda prescrizione è facoltativa e aggiuntiva rispetto alla misura principale dell’allontanamento (“può inoltre“), dato significativo per l’interpretazione dell’art. 282 ter c.p.p., ed è espressamente riferita solo ai “luoghi determinati“: il destinatario della misura deve essere informato dei luoghi ai quali non può avvicinarsi, indipendentemente dalla effettiva presenza della persona offesa nel dato momento.
Oltre a ciò, era altresì fatto presente come questa misura e, più in generale, l’intervento complessivo della L. n. 154 del 2001, con le ulteriori successive modifiche poi intervenute, dimostri che si è in presenza di un sostanziale adattamento del nostro sistema a modelli tipicamente di matrice angloamericana, in cui sono previsti provvedimenti che limitano le occasioni di contatto tra vittima e aggressore anche in ambito civile posto che la stessa L. n. 154 del 2001, ha introdotto, con l’art. 342 bis c.c., il nuovo modello di misura cautelare civile “ordini di protezione contro gli abusi familiari”: “Quando la condotta del coniuge o di altro convivente è causa di grave pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà dell’altro coniuge o convivente, il giudice, qualora il fatto non costituisca reato perseguibile d’ufficio, su istanza di parte, può adottare con decreto uno o più dei provvedimenti di cui all’art. 342 ter” fermo restando che tali provvedimenti sono adottati dal giudice con provvedimento reclamabile; il decreto emesso in sede di reclamo non è ricorribile (Sez. 6 civ., ord. n. 29492 del 07/12/2017) mentre la violazione dell’ordine di protezione integra il reato (introdotto dalla medesima legge e oggi confluito nell’art. 388 c.p., con la “riserva di codice”) di “elusione di ordini di protezione contro gli abusi familiari”: quindi, si utilizza la sanzione penale per rafforzare un obbligo che mal si presta ad una esecuzione forzata civilistica.
A completare un quadro di contemporanea tutela penale e civile in tale materia, veniva infine segnalato che l’art. 282 bis c.p.p., prevede che il giudice penale adotti provvedimenti di imposizione di un assegno di mantenimento a carico dell’”allontanato” e a favore dei familiari, in assenza o comunque sino all’adozione dei provvedimenti in materia del giudice civile.
Orbene, a fronte di quanto sin qui esposto, per la Corte, è indubbio come il campo effettivo di applicazione della misura dell’art. 282 bis c.p.p., sia quello dei reati in cui è particolarmente significativa la componente vittimologica poiché, nella casistica, il reato più frequente è quello di maltrattamenti dell’art. 572 c.p. mentre sul piano astratto, comunque, valgono le regole generali per le misure coercitive: l’art. 282 bis c.p.p., u.c., prevedendo che non trovino applicazione i limiti di pena di cui all’art. 280 c.p.p., se si procede per taluni dei reati ivi indicati, qualora commessi nei confronti dei conviventi prossimi congiunti (fermo restando il limite insito nella “casa familiare“), dimostra invero che, salvo la individuazione di esigenze cautelari specifiche, si tratta di misura applicabile per qualsiasi reato nel rispetto delle condizioni di legge.
Ciò posto, la disamina di questa norma procedurale proseguiva essendo stato messo in risalto il fatto che l’art. 282 ter c.p.p., è stato inserito nel codice dal D.L. n. 11 del 2009, insieme al reato di “atti persecutori”, rilevandosi al contempo, per un verso, che il “divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa”, come evidente e, del resto, rilevato da pressoché tutta la giurisprudenza che se ne è interessata, è calibrato fondamentalmente sulle particolari esigenze di tutela della vittima dello staiking, non essendo quindi casuale che tutte le decisioni sopra citate riguardino o questo reato o il reato di maltrattamenti per il quale, anche se era già applicabile l’art. 282 bis c.p.p., è risultato maggiormente funzionale il divieto di avvicinamento alla persona offesa nei termini della nuova disposizione, di contenuto più ampio rispetto alla analoga previsione del comma 2, della norma sull’allontanamento dalla casa familiare, per altro verso, che il contenuto della misura è disciplinato nel comma 1 dell’articolo citato: “il giudice prescrive all’imputato di non avvicinarsi a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa ovvero di mantenere una determinata distanza da tali luoghi o dalla persona offesa” mentre, da una parte, il comma 2 della medesima disposizione estende il divieto, se necessario, impedendo l’avvicinamento rispetto alle persone in rapporti familiari e affettivi con la vittima, dall’altra, il comma 3 disciplina un’ulteriore misura, in quanto il giudice può imporre il divieto di comunicazione con la persona offesa (e gli altri soggetti del comma 2), con qualsiasi mezzo.
La disposizione in questione, così strutturata, prevede dunque due prescrizioni finalizzate al precludere il contatto fisico tra persona offesa e indagato e una terza riferita ai contatti a distanza (spaziando dalla comunicazione gestuale alla telematica) che, però, non è prevista come autonoma, bensì, come aggiuntiva (“il giudice può, inoltre, vietare…”) mentre la preclusione del contatto fisico tra persona offesa e indagato è assicurata dal “divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa” ovvero “di mantenere una determinata distanza da tali luoghi o dalla persona offesa” fermo restando che, con specifico riferimento a questa seconda prescrizione, oggetto specifico del contrasto di giurisprudenza, per la Suprema Corte, occorreva evidenziare che l’obbligo di tenersi ad una data distanza può essere, in base al dato letterale, determinato in due modi diversi: mediante il mantenimento della distanza dai “luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa” ovvero “dalla persona offesa” in quanto tale.
La norma, quindi, è inequivoca nel prevedere la possibilità di applicare una misura il cui contenuto sia esclusivamente quello del divieto di avvicinamento alla persona fisica ovunque essa effettivamente si trovi nel dato momento e, pertanto, in ragione della natura dell’istituto, misura cautelare da adottare nella ricorrenza delle condizioni di cui agli artt. 273 e 274 c.p.p., l’applicazione graduale delle varie prescrizioni andrà correlata alla intensità delle esigenze cautelari da soddisfare soprattutto in ragione del rischio di aggressione fisica o psicologica della vittima, facendo riferimento al criterio generale di adeguatezza e proporzionalità di cui all’art. 275 c.p.p., commi 1 e 2.
Oltre a ciò, era fatto altresì presente come la previsione di questa nuova misura cautelare trovi piena corrispondenza nella normativa sovranazionale di promozione della tutela delle vittime di aggressioni mirate giacché la Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio U.E. n. 2001 del 13/12/2011 sull’”ordine di protezione Europeo” prevede la possibilità di disporre una misura di protezione in ambito Europeo quando sia stata adottata in base al diritto nazionale una “misura di protezione che impone alla persona che determina il pericolo uno o più dei seguenti divieti o delle seguenti restrizioni”.
In particolare, le misure cui tale direttiva fa riferimento sono (art. 5): – lett. a) “divieto di frequentare determinate località, determinati luoghi o determinate zone definite in cui la persona protetta risiede o che frequenta”; – lett. b) interdizione da contatti telefonici/telematici etc.; – lettera c), “divieto o regolamentazione dell’avvicinamento alla persona protetta entro un perimetro definito”.
In definitiva, ad avviso del Supremo Consesso, vi è una assoluta corrispondenza fra norma interna e norma “Europea“: quest’ultima distingue più chiaramente in tre alinea le medesime tre ipotesi contemplate nell’art. 282 ter c.p.p.: – può essere interdetto l’avvicinamento ai luoghi (casa, luogo di lavoro, aree abituali di svago etc); in questo caso si prescinde dalla presenza nel dato momento della persona offesa, in quanto la parte non vi deve comunque accedere/avvicinarsi; – può essere interdetto l’avvicinamento alla persona offesa dovunque essa si trovi; qui, in termini più chiari, la norma Europea ipotizza la indicazione di una determinata distanza che la giurisprudenza ritiene, comunque, necessaria per dare contenuto alla prescrizione così genericamente definita; – può essere interdetta qualsiasi forma di contatto a distanza, telefonico o telematico (nella disciplina interna tale prescrizione è sempre “aggiuntiva” rispetto alle prescrizioni principali).
Di conseguenza, per gli Ermellini, la formulazione letterale dell’art. 282 ter c.p.p., e il suo raffronto con l’art. 282 bis c.p.p., comma 2, e con la Direttiva citata, dimostrano come sul piano testuale la norma introduca prescrizioni autonome che possono essere applicate alternativamente o congiuntamente atteso che, anche in questo caso, il dato testuale ha chiara spiegazione nelle esigenze concrete che la norma intende salvaguardare, dal momento che, sia sul piano astratto, che sulla scorta di un semplice esame della casistica risultante dagli stessi precedenti citati, emerge come la varietà delle situazioni da salvaguardare renda utile e opportuna l’una o l’altra delle misure, ovvero entrambe.
Invece, quanto alla applicabilità congiunta, veniva innanzitutto dato atto della sostanziale unitarietà dell’effetto della misura di cui all’art. 282 ter c.p.p., la cui finalità è quella di evitare il contatto tra indagato e persona offesa, dovendosi graduare la misura secondo il concreto rischio del caso concreto; perciò, le due diverse prescrizioni possibili non definiscono due misure cautelari diverse, ma sono espressioni di un’unica misura, spettando al giudice il compito di determinare in concreto quali siano le modalità più idonee in concreto a tutelare, da un lato, le esigenze della persona offesa e, dall’altro, a salvaguardare comunque l’ambito di libertà personale dell’indagato.
Come spesso segnala la giurisprudenza in precedenza richiamata, in effetti, proprio il reato di atti persecutori – di cui si ribadiva lo stretto collegamento con la misura, rispetto al quale la condotta oggetto della temuta reiterazione può avere i connotati della persistente ed invasiva ricerca di contatto con la vittima in qualsiasi luogo in cui la stessa si trovi – tendenzialmente impone il ricorso ad entrambe le prescrizioni considerato che il divieto di avvicinamento ai “luoghi” consente di valutare con sospetto ogni avvicinamento anche in assenza attuale della vittima.
La “unicità” della misura cautelare, modulabile con più prescrizioni funzionali a garantire la massima tutela nel caso concreto per la persona offesa con la minima compressione dei diritti di libertà e circolazione dell’indagato, esclude, quindi, per la Corte di legittimità, che possa ritenersi violato il divieto di cumulo di più misure cautelari, e ciò anche perché la somma delle prescrizioni non ha certamente l’effetto di creare “una “nuova” misura non corrispondente al paradigma normativo tipico” (Sez. U, n. 29907 del 30/05/2006) ma, anzi, realizza l’unico modello e i suoi effetti.
Veniva dunque solo ribadito che manca un rapporto di subordinazione tra le due misure previste dall’art. 282 ter c.p.p., comma 2, (previsto, invece, come si è detto, dall’art. 282 bis c.p.p.) ma la prescrizione del comma 3 può essere aggiunta a quelle disciplinate nel comma precedente, se si considera che l’alternatività, fra le misure contemplate dal comma 2, è una necessità funzionale: basti pensare all’ipotesi del personaggio perseguitato in luoghi “esterni” ove esercita l’attività (esponente politico, dello spettacolo, etc) che mantenga segreto il dato della residenza e dei luoghi abituali; qualora si ritenesse necessaria l’indicazione “comunque” dei luoghi, si suggerirebbe allo stalker trasgressivo dove estendere la sua attività di persecuzione.
La soluzione prescelta dalle Sezioni Unite nel caso di specie, a loro avviso, oltre a trovare un solido fondamento nel dato testuale, derivava da una sintesi delle posizioni assunte dalla giurisprudenza sopra citata, diverse ma conciliabili visto che il criterio di giudizio consiste nel considerare che la norma prevede una pluralità di prescrizioni che possono essere imposte alternativamente o cumulativamente, dovendo essere modulate in base alle esigenze di cautela da garantire nel caso concreto.
La disposizione, seguendo e completando il sistema già adottato con l’art. 282 bis c.p.p., introduce infatti una misura che ha la caratteristica di essere espressamente mirata alla tutela della singola persona offesa, in favore della quale intende creare un vero e proprio schermo di protezione rispetto a condotte dell’indagato mirate all’aggressione fisica o psicologica posto che, secondo le necessità del caso concreto, la persona offesa deve potere godere di tranquillità e libertà di frequentazione dei propri luoghi abituali e deve potersi muovere liberamente anche al di fuori di un contesto predeterminato con la certezza che il soggetto che minaccia la sua libertà fisica o morale si terrà a debita distanza, essendo obbligato all’allontanamento anche in caso di incontro fortuito.
Terminate queste considerazioni, le Sezioni Unite, prima di svolgere ulteriori osservazioni, ritenevano necessario valutare e superare le obiezioni poste dal primo indirizzo.
Si evidenziava a tale riguardo prima di tutto che i dubbi manifestati dalle decisioni qui disattese non derivano da una diversità di lettura di un testo di per sé sufficientemente chiaro, ma dalla natura della misura fondata sulla posizione “mobile” e imprevedibile della persona offesa e, in quanto tale, “eccessivamente gravosa“, oltre che sostanzialmente ineseguibile “tanto da conferire natura quasi abnorme alla misura disposta” (Sez. 6, n. 26819 del 7/4/2011), ancora di più se si considera che l’obbligo troverebbe applicazione persino nel caso in cui non sia l’indagato a cercare volontariamente il contatto con la vittima.
Da ciò se ne faceva discendere che la necessità di “indicare in maniera specifica e dettagliata i luoghi rispetto ai quali all’indagato è fatto divieto di avvicinamento” consegue all’esigenza di conformare la misura al rispetto delle regole di esigibilità della condotta e conoscibilità delle prescrizioni, visto che la misura, con le dovute indicazioni sulla distanza da tenere, risulta sufficientemente specifica ed eseguibile così come non vi è ragione che precluda la esigibilità di una condotta di allontanamento dell’indagato in caso di incontro con la vittima, senza ignorare pure il fatto che, poiché rilevano solo le eventuali violazioni dolose delle prescrizioni, non vi è motivo per ipotizzare il pericolo di applicare una sanzione per un incontro involontario.
I dubbi posti dalle decisioni in questione, comunque, per la Cassazione, toccano anche aspetti più generali per cui andava considerato se una misura così peculiare nel limitare i diritti dell’imputato secondo schemi decisamente nuovi per il nostro ordinamento, sia conforme ai diritti fondamentali dal momento che, a carico dell’indagato, vengono posti limiti alla libertà di movimento e non è sufficiente, appunto per la atipicità rispetto ai modelli previgenti, fare riferimento ad una generale copertura costituzionale di tutte le misure cautelari in ragione della loro funzione e non, invece, della specifica portata limitativa dei diritti fondamentali, rilevandosi al contempo che Sez. U, n. 29907 del 30/05/2006, ha affrontato il tema della cumulabilità delle misure cautelari svolgendo argomenti che, mutatis mutandis, possono essere riferiti anche alla misura del divieto di avvicinamento.
In particolare, in tale pronuncia, si afferma che, nell’ambito delle disposizioni generali poste quali pilastri fondamentali del sistema cautelare, rileva innanzitutto l’art. 272 c.p.p., che sancisce il principio di stretta legalità, stabilendo che “le libertà della persona possono essere limitate con misure cautelari soltanto a norma delle disposizioni del presente titolo”, ma, per la Corte, quella espressa dall’art. 272, non è la mera sottolineatura della necessità di previsione legale, che già scaturisce dalla doppia riserva, di legge e di giurisdizione, dettata dall’art. 13 Cost., comma 2, per ogni forma di compressione della libertà personale, riflettendosi in essa piuttosto il proposito di ridurre a un “numero chiuso” le figure di misure limitative della libertà utilizzabili in funzione cautelare nel corso del procedimento penale, sicché non possono essere applicate misure diverse da quelle espressamente considerate.
Quindi, proprio perché la disposizione di riferimento nella disciplina delle “limitazioni alle libertà della persona” dell’art. 272 c.p.p., è l’art. 13 Cost., tale generico e ampio richiamo alle libertà della persona e non più alla libertà personale induce a ritenere che il legislatore del codice abbia pensato, nel formulare tale disposizione di apertura del Titolo IV, dedicato alle misure cautelari personali, non solo a strumenti idonei ad incidere sulla libertà personale stricto sensu intesa, ma anche a misure volte a comprimere altri diritti fondamentali dell’individuo quali la libertà di movimento e di circolazione.
Del resto, il codice del 1989, sin dal testo originario, ha previsto misure che impongono prescrizioni, sia principali che accessorie, che riguardano la possibilità di “locomozione” della persona e non in senso stretto la libertà quale libera disponibilità fisica di se stesso: in tale ambito, quali misure che applicano limiti o imposizione di movimento della persona che, in sé, resta “fisicamente” libera, si considerano il divieto di espatrio, l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria, il divieto di dimora, l’obbligo di dimora, fermo restando che la stessa collocazione dell’art. 282 ter c.p.p. (e dell’art. 282 bis c.p.p.) tra la misura dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria (art. 282 c.p.p.) e quelle dell’obbligo e del divieto di dimora (art. 283 c.p.p.) dimostra che il legislatore ha ritenuto che le relative prescrizioni facciano capo alle stesse tipologie di limitazioni ponendosi in una scala di graduazione delle misure disciplinate dagli artt. da 280 a 285 c.p.p..
Orbene, per la Corte di legittimità, tale lettura data dalle Sezioni Unite nel 2006 si ricollega a quanto in precedenza affermato da Sez. U, n. 8 del 10/10/1987, quale, nel vigore del codice di rito previgente, ha esaminato la questione se il ritiro del passaporto integri un atto limitativo della libertà di cui all’art. 13 Cost., da collocare nell’ambito dei “… provvedimenti sulla libertà personale pronunziati da organi giurisdizionali…”, avendo la Corte affermato che, nella disposizione dell’art. 13 Cost., è necessario distinguere il principio generale della inviolabilità della libertà personale, enunciato dal comma 1, dalla più particolare regolazione di determinati aspetti della libertà stessa con prevalente riguardo alle esigenze della difesa penale in relazione all’esplicazione di poteri coercitivi concernenti la detenzione, l’ispezione o la perquisizione personale fermo restando però che, per l’esatta determinazione della portata dell’art. 13 Cost., comma 2, e’, tuttavia, indispensabile interpretare il significato della formula di chiusura ivi apposta: “né qualsiasi altra restrizione della libertà personale”.
La formulazione ampia e generalizzata del comma 1, dell’articolo in questione ed il riferimento nel comma 2, a restrizioni coercitive ed a qualsiasi altra restrizione fa infatti intendere che quest’ultima è qualcosa di diverso dalla prima e, quindi, il costituente ha voluto garantire non solo quelle restrizioni che annullano totalmente, attraverso misure coercitive, la disponibilità che l’individuo ha della propria persona fisica (detenzione, ispezione o perquisizione personale), ma anche altre privazioni della libertà personale che comprimono o restringono tale libertà visto che il significato del termine “restrizione” non è quello di una completa soggezione dell’individuo alla coercizione esercitabile dalle autorità pubbliche, ma sta ad indicare qualsiasi costrizione che restringa la libertà individuale.
La conclusione delle Sezioni Unite era, allora, nel senso che, sulla scorta della lettura dell’art. 13 Cost., “le libertà” dell’art. 272 c.p.p., non vanno intese quali riferite alla sola libertà in termini “fisici“, interpretazione che del resto restringerebbe le misure coercitive alle sole due più gravi, ma alla libertà personale nella più larga accezione del termine in cui rientra anche la libertà di locomozione e, pertanto, a loro avviso, non vi è ragione di dubitare della piena conformità della misura del divieto di avvicinamento alla persona offesa, alla pari delle altre misure diverse dagli arresti domiciliari e dalla custodia cautelare in carcere, ai principi fondamentali, essendo situazioni che trovano disciplina nell’art. 13 Cost., per cui si è in presenza di libertà che, nella cornice della rigida disciplina legale, possono essere limitate nel rispetto di una esigenza costituzionale di proporzione e gradualità che deve trovare riscontro nella “scelta” fatta con il provvedimento del giudice e nella sua motivazione.
Oltre a ciò, era poi considerata anche l’ulteriore obiezione che una interpretazione che consentisse di applicare il divieto di avvicinamento (e immediato allontanamento) “mobile” alla persona offesa ovunque si trovi non rispetterebbe i principi di tipicità e determinatezza delle misure cautelari.
Una tale misura, si osservava, obbliga l’indagato a tenere una condotta imprevedibile, condizionata dai movimenti della persona offesa; si consideri anche che quest’ultima, addirittura, scegliendo di avvicinarsi volontariamente, avrebbe la potestà assoluta di imporre l’allontanamento dell’indagato. Così interpretata, quindi, la disposizione sarebbe caratterizzata da eccessiva gravosità e risulterebbe sostanzialmente ineseguibile ma, a parere delle Sezioni Unite, alla stregua delle argomentazioni sin qui enunciate, risultava per loro superabili tali dubbi nei seguenti termini: “(…) Innanzitutto, a fronte di una interpretazione letterale, le obiezioni sulla “gravosità” non possono ritenersi determinanti, essendo una chiara scelta legislativa. In ogni caso, trattandosi di una misura coercitiva, il giudice chiamato ad applicarla ha ampia discrezionalità nella scelta e nella graduazione per il caso concreto con la valutazione circa l’intensità delle esigenze cautelari e l’applicazione delle comuni regole di valutazione dell’adeguatezza e proporzionalità della misura per il caso concreto. E’ quanto è stato ben chiarito nelle decisioni dell’indirizzo qui condiviso che hanno ritenuto adeguata la misura “mobile” in quelle situazioni fattuali caratterizzate da “persistente e invasiva ricerca di contatto con la vittima, ovunque questa si trovi” (Sez. 5, n. 13568 del 16/01/2012, V., Rv. 253296). La comune applicazione delle regole dell’art. 272 c.p.p. e ss., garantisce che la prescrizione venga disposta solo se strettamente necessaria nel caso concreto, con possibilità di sindacare nel merito la scelta in sede di impugnazione.
D’altra parte, la situazione va valutata anche considerando che, a ben vedere, la misura in questione ha un profilo di favore proprio per l’indagato che, certamente, vedrà una minore limitazione della propria libertà rispetto alle altre misure maggiormente afflittive (art. 284 c.p.p. e ss.) in grado di impedire il contatto fisico e visivo con la persona offesa. Difatti, discutendosi di una “comune” misura cautelare, alla sua specifica individuazione si arriva dopo una valutazione di gravità degli indizi e di sussistenza delle esigenze cautelari che la giustificano nel caso concreto. Se, quindi, si dovesse affermare l’impossibilità di applicare un divieto di avvicinamento “mobile” ovunque si trovi la parte offesa, la scelta della misura cautelare utile nel singolo cadrebbe inevitabilmente su una di quelle maggiormente limitative della libertà personale rispetto a quella prevista dall’art. 282 ter c.p.p.. Tali rilievi consentono, quindi, di superare l’obiezione sulla “eccessiva gravosità” e di affermare che la misura del divieto di avvicinamento, proprio per la sua peculiarità rispetto alle misure “generaliste”, non solo non è troppo afflittiva ma, anzi, riduce al massimo la compressione dei diritti di libertà dell’indagato, limitandoli, ben più di altre misure, a quanto strettamente utile alla tutela della vittima”.
Superata anche tale criticità, relativamente al contenuto delle prescrizioni, il Collegio osservava quanto segue: “Per ragioni di interpretazione letterale e logico-sistematica la prescrizione del divieto di avvicinamento ai “luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa” non può prescindere dalla chiara indicazione di quali siano tali luoghi. La individuazione di tali spazi serve a garantire che la persona offesa sia libera nei suoi contesti quotidiani. In questo caso, è del tutto irrilevante che la persona offesa sia presente o meno: il divieto vale anche se all’indagato è noto che il soggetto protetto si trovi in tutt’altro posto; semplicemente, sia per la massima garanzia della vittima che per la facilità ed efficacia dei controlli, l’indagato deve sempre e comunque tenersi a distanza da tali luoghi che potranno anche essere indicati in forma indiretta, purché si raggiunga la finalità di dare certezza all’indagato sulla estensione del divieto. La prescrizione del divieto di avvicinamento alla persona offesa impone all’indagato di non cercare il contatto con la stessa con la conseguenza che, persino in ipotesi d’incontro casuale, il soggetto, acquisita la consapevolezza della presenza della persona offesa, è tenuto ad allontanarsi, ripristinando la distanza determinata a lui imposta. 11.1. Si consideri, poi, che trattandosi di misure coercitive inserite nel corpo del codice insieme alle altre, in assenza di divieti legislativi, valgono le regole generali: la misura e’, in astratto, applicabile per qualsiasi reato e per tutte le esigenze cautelari previste dall’art. 274 c.p.p..
E’ indubbio che l’art. 282 ter c.p.p., contempla una misura cautelare legata da “un rapporto privilegiato” con il delitto di atti persecutori e, quindi, volta ad attuare la protezione del “soggetto debole”. E’ altrettanto pacifico che la disposizione è destinata a trovare applicazione anche a reati “affini” al delitto di cui all’art. 612 bis c.p., come, ad esempio, i delitti di maltrattamenti, di lesioni aggravate, altri reati con minaccia e violenza nei confronti della data vittima, ben ipotizzabili in uno stadio di condotte persecutorie che non abbiano realizzato l’evento richiesto per l’art. 612 bis c.p. (neanche allo stadio di tentativo). (…) Non vi e’, però, ragione di escludere l’adozione della misura per reati obiettivamente di altra natura in cui risulta necessario tutelare la persona da aggressioni mirate. Quindi, non potrà mai ritenersi la misura formalmente applicabile esclusivamente per reati astrattamente conformi alla ratio normativa del I D.L. n. 11 del 2009, come, invece, affermato da Sez. 4, n. 2147 del 13/01/2021, omissis, Rv. 28048. Non vi è alcun dubbio che la legge abbia introdotto la nuova misura avendo di mira determinate materie, ma la stessa legge ha in modo altrettanto indiscutibile scelto di inserire la disposizione nella materia generale delle misure coercitive senza alcuna limitazione”.
In conclusione, alla luce delle considerazioni sin qui esposto, al quesito proposto era data la seguente risposta: “il giudice che ritenga adeguata e proporzionata la sola misura cautelare dell’obbligo di mantenere una determinata distanza dalla persona offesa (art. 282 ter c.p.p., comma 1) può limitarsi ad indicare tale distanza. Nel caso in cui, al contrario, nel rispetto dei predetti principi, disponga, anche cumulativamente, le misure del divieto di avvicinamento ai luoghi da essa abitualmente frequentati e/o di mantenimento della distanza dai medesimi, deve indicarli specificamente“.
Conclusioni
In relazione a quanto sancito dall’art. 282-ter, co. 1, cod. proc. pen. che, come è noto, prevede che, con “il provvedimento che dispone il divieto di avvicinamento il giudice prescrive all’imputato di non avvicinarsi a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa ovvero di mantenere una determinata distanza da tali luoghi o dalla persona offesa, anche disponendo l’applicazione delle particolari modalità di controllo previste dall’articolo 275-bis” cod. proc. pen., la pronuncia in commento è assai interessante essendo ivi chiarito quando il giudice può limitarsi a stabilire l’obbligo di mantenere una determinata distanza dalla persona offesa, indicando tale distanza e quando, invece, è tenuto a menzionare i luoghi abitualmente frequentati dalla vittima, rispetto ai quali vige tale divieto.
Difatti, in tale sentenza, dopo un lungo e articolato ragionamento giuridico, si afferma che, se il giudice che ritenga adeguata e proporzionata la sola misura cautelare dell’obbligo di mantenere una determinata distanza dalla persona offesa (art. 282 ter c.p.p., comma 1), costui può limitarsi ad indicare tale distanza mentre, nel caso in cui, al contrario, nel rispetto dei predetti principi, disponga, anche cumulativamente, le misure del divieto di avvicinamento ai luoghi da essa abitualmente frequentati e/o di mantenimento della distanza dai medesimi, l’organo giudicante è tenuto ad indicarli specificamente.
Tale provvedimento, quindi, deve essere preso nella dovuta considerazione dal giudice della cautela qualora debba applicare questa disposizione legislativa.
Ad ogni modo, il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatta decisione, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su codesta tematica procedurale, non può che essere positivo.
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