1.Il principio di diritto – 2.Il caso – 3.La motivazione della sentenza – 3.1.Premessa – 3.2. Gli orientamenti precedenti conformi della giurisprudenza – 3.3. L’iter motivazionale – 4.Conclusioni
Il principio di diritto
La Suprema Corte con la sentenza n. 5160 del 26 febbraio 2020, nel dichiarare illegittima l’integrazione in appello dei motivi dell’accertamento attraverso nuove eccezioni, ha enucleato il seguente principio di diritto: “il divieto di domande nuove previsto all’art. 57, co. 1, d.lgs. n. 546/1992, trova applicazione anche nei confronti dell’Ufficio finanziario, al quale non è consentito, innanzi al giudice d’appello, avanzare pretese diverse, sotto il profilo del fondamento giustificativo, e dunque sul piano della causa petendi, da quelle recepite nell’atto impositivo.”
Più precisamente, i giudici di ultima istanza, in tale pronuncia hanno evidenziato che il processo tributario di appello, non permette all’ Amministrazione Finanziaria di dedurre in secondo grado profili diversi rispetto a quelli indicati nell’avviso di accertamento, così da mutare i termini della contestazione; da ciò ne consegue che l’avviso di accertamento deve contenere specificamente le ragioni della pretesa erariale, atteso che è esclusa la possibilità per l’Ufficio di integrarle successivamente in giudizio.
2.Il caso.
Una società ha impugnato un avviso di accertamento con il quale l’Agenzia delle Entrate ha disconosciuto alcuni costi di pubblicità sostenuti per la sponsorizzazione di autovetture da gare. La Ctp ha accolto integralmente il ricorso e l’Ufficio ha proposto appello avverso tale decisione sostenendo che predetto costo costituisse una spesa di rappresentanza e, come tale, deducibile solo parzialmente. I giudici di secondo grado hanno ritenuto fondata la tesi dell’ Ufficio confermando la debenza della pretesa sul punto.
La società ha così proposto ricorso per Cassazione censurando la pronuncia essenzialmente per violazione degli artt. 7 co. 1 ed 1 co. 2, d.lgs. n. 546/1992, nonché dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 co. 1, n. 4 c.p.c. per aver introdotto con l’atto d’appello un nuovo motivo a fondamento della pretesa fiscale.
3.La motivazione della sentenza
3.1.Premessa
Tanto premesso, prima di esaminare l’iter motivazionale seguito dal Supremo Consesso nella decisione in oggetto, appare opportuno dare contezza degli orientamenti giurisprudenziali precedenti conformi al principio enucleato dai giudici di legittimità nella sentenza de qua.
3.2 Gli orientamenti precedenti conformi della giurisprudenza
Il Legislatore tributario ha introdotto il divieto dello ius novorum nel disposto normativo dell’articolo 57 del Dlgs n.546/1992; tale norma rappresenta una radicale innovazione rispetto alla disciplina normativa previgente (D.P.R n.636/1972) – che difettava totalmente di una tale previsione- e al comma 1 stabilisce che nel giudizio di appello non possono proporsi domande nuove e, se proposte, debbono essere dichiarate inammissibili, anche d’ufficio dal giudice.
Precisamente, l’intentio legis è stata quella delimitare il più possibile l’ambito oggettivo del giudizio di appello rispetto alle domande avanzate dalle parti o rispetto al contenuto della sentenza di primo grado; tale divieto di ius novorum ha carattere assoluto ed è posto a tutela del principio di ordine pubblico di garantire il rispetto del doppio grado di giurisdizione che, altrimenti, resterebbe inapplicato se si consentisse l’introduzione di nuove domande nel giudizio di appello, che non potrebbero essere successivamente oggetto di riesame.
Tanto chiarito, giova evidenziare che i giudici di legittimità nel loro iter motivazionale hanno fatto riferimento ai precedenti arresti di legittimità che si sono pronunciati in tal senso, ossia nel ritenere illegittima l’integrazione nel processo tributario di appello da parte dell’Ufficio dei motivi di accertamento, adducendo nuovi motivi di contestazione.
Il Supremo Consesso nella pronuncia de qua (Cass. n.5160/2020) ha rammentato che con la decisione n. 25909 del 29/10/2008, la Corte aveva peraltro evidenziato che nel processo tributario di appello, l’Amministrazione Finanziaria non può mutare i termini della contestazione, deducendo motivi e circostanze diversi da quelli contenuti nell’atto di accertamento, in quanto il divieto di domande nuove, previsto all’art. 57, comma 1, del D.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, trova applicazione anche nei confronti dell’Ufficio finanziario, al quale non è consentito, innanzi al giudice d’appello, avanzare pretese diverse, sotto il profilo del fondamento giustificativo- e dunque sul piano della causa petendi– da quelle recepite nell’atto impositivo
In caso contrario, verrebbe lesa la concreta possibilità per il contribuente di esercitare il diritto di difesa attraverso l’esternazione dei motivi di ricorso, i quali, necessariamente, vanno rapportati a ciò che nell’atto stesso risulta esposto(Cass. n.9810/2014; Cass. n.12467/2019).
In altre termini, l’Agenzia delle Entrate non può introdurre in appello elementi nuovi, di cui non aveva mai addotto prima, e che non erano riportati all’interno dell’avviso di accertamento.
Quanto affermato, trova conferma altresì nella recente pronuncia della Corte di Cassazione, la n.13754 del 22 maggio 2019, nella quale è stato ribadito che nel processo tributario d’appello, l’Amministrazione Finanziaria non può mutare i termini della contestazione, deducendo motivi diversi da quelli contenuti nell’atto di accertamento, in quanto il divieto di domande nuove previsto all’art. 57, comma 1, del D.lgs. n. 546/1992 trova applicazione anche nei confronti dell’Ufficio finanziario.
A parere degli Scriventi, appare opportuno rammentare che in senso conforme si è espressa anche la giurisprudenza di merito, ritenendo che l’avviso di accertamento non è integrabile in appello(CTR Catanzaro, sentenza n.2373/2016, depositata il 29 settembre 2016).
Inoltre, analogamente si è espressa la CTR di Bari, che con la sentenza del 25 febbraio 2011, n. 49/23/11, ha sottolineato che “gli avvisi di accertamento necessitano di essere adeguatamente motivati, giacché la motivazione costituisce uno degli elementi fondamentali degli atti impositivi; se, però, essi ne sono sprovvisti all’origine, non vi può essere una successiva integrazione in giudizio e, pertanto, l’atto così viziato risulta nullo”.
3.3. L’iter motivazionale
I giudici di legittimità, sulla scorta dei precedenti giurisprudenziali conformi al principio di diritto enunciato nella sentenza in esame-innanzi rammentati- hanno così dato risoluzione al caso di specie.
Ebbene, precisamente il Supremo Consesso ha enucleato il principio di diritto secondo cui, in tema di contenzioso tributario, il divieto di domande nuove previsto all’art. 57, comma 1, del D.lgs. n. 546 del 1992, si applica anche nei confronti dell’Amministrazione Finanziaria, alla quale non è consentito, innanzi al giudice d’appello, mutare i termini della contestazione,deducendo motivi diversi, sotto il profilo del fondamento giustificativo, da quelli contenuti nell’atto impositivo.
Sulla scorta di tanto e venendo al caso di specie, i giudici di legittimità hanno evidenziato che “ fondare la pretesa impositiva sulla assenza di inerenza del costo sostenuto per la sponsorizzazione di autovetture partecipanti a gare automobilistiche, con ciò recuperando a tassazione l’intero importo dei costi, e, successivamente e in sede d’appello, qualificare i
medesimi costi quali spese di rappresentanza, sostenendo che il contribuente poteva dedurne solo 1/3, palesemente infrange il limite imposto dal TUIR, articolo 57, nel cui alveo trova corretta qualificazione e collocazione giuridica il primo motivo di ricorso”.
A tal proposito, i giudici di ultima istanza hanno precisato che è di tutta evidenza che “tra costi di pubblicità, non deducibili perchè se ne disconosceva l’inerenza per l’antieconomicità, e costi di rappresentanza, di cui se ne disconosce la sola parziale deducibilità, vi è una diversità ontologica, con conseguente differenza materiale delle ragioni a supporto della pretesa fiscale. Essa pertanto costituiva una ragione del tutto nuova e inammissibile in sede d’appello”.
A parere della Corte di Cassazione, tale netta differenza, inoltre, è riscontrabile non solo nella causa petendi ma anche nel petitum, avendo l’Ufficio, in sede di avviso di accertamento, negato del tutto il diritto alla deduzione dei costi, per poi prospettare, in sede d’appello, una qualificazione giuridica dei costi che limitava, ma non escludeva in toto, la deducibilità delle stesse spese.
Inoltre, con tale decisione i giudici di legittimità hanno ribadito che l’avviso di accertamento deve contenere in maniera dettagliata tutte le ragioni della pretesa, dovendosi escludere che l’Ufficio possa poi integrarle.
4.Conclusioni
Alla luce di tale iter ermeneutico seguito dai giudici di legittimità nella sentenza in esame (Cass.n.5160/2020), si conclude che la Suprema Corte con tale principio di diritto ha voluto evidenziare che è illegittima l’integrazione in appello dei motivi dell’avviso di accertamento attraverso nuove eccezioni e, pertanto, la regola del divieto di ius novorum in appello prevista per il processo tributario, va rispettata anche dall’Amministrazione Finanziaria, atteso che l’avviso di accertamento deve sempre contenere tutte le ragioni della pretesa.
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