(Riferimento normativo: art. 4 L. n. 898 del 1970)
La vicenda
Nel corso di un procedimento per cessazione degli effetti civili del matrimonio, il Giudice di Appello rigettava l’impugnativa proposta dal marito avverso la sentenza di primo grado con la quale era stato accolto il ricorso di divorzio dai coniugi proposto congiuntamente nonostante che egli non avesse sottoscritto il verbale e avesse voluto revocare il proprio consenso.
In particolare la Corte di appello disattendeva l’assunto dell’appellante escludendo che il consenso all’accordo fosse revocabile separatamente da ciascuno dei due coniugi che avevano presentato il ricorso congiunto in ogni tempo o quanto meno sino alla sottoscrizione del verbale di udienza ed avverso detta pronuncia il marito proponeva ricorso per cassazione denunciando la violazione o falsa applicazione di legge in relazione all’art. 4 della L. n. 898 del 1970 nella parte in cui, a suo dire, essa Corte di appello non avesse tenuto conto del fatto che in sede divorzile sia prevista la fissazione dell’udienza non solo per accertare la sussistenza dei requisiti legali, ma anche per verificare la volontà delle parti e valutare la corrispondenza del divorzio all’interesse dei figli, anche non minori.
Le valutazioni giuridiche formulate dalla Corte Suprema
La Corte di Cassazione, oltre a ritenere lo specifico motivo di contestazione sopra esposto comunque inammissibile perché attinente a un presunto vizio processuale che non sarebbe risultato fatto valere con l’atto di appello, lo dichiarava anche manifestamente infondato sul presupposto che “la Corte lagunare ha esaminato e deciso la censura, ritenendo che il consenso prestato con la proposizione del ricorso congiunto, non fosse revocabile da uno solo dei coniugi, così puntualmente conformandosi alla giurisprudenza di legittimità” e dunque rigettando il ricorso come proposto.
Volume consigliato
Manuale di separazione e divorzio
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Le riflessioni conclusive e gli spunti critici di riflessione
Con questa significativa pronuncia la Corte Suprema sancisce, e per certi versi ribadisce, un principio di diritto che la stessa ha ripetutamente fatto proprio nel tempo a far data quanto meno dalla sua Ordinanza n. 10463 del 2018 (1) e cioè quello secondo il quale nel procedimento di divorzio, si badi bene a differenza della separazione dei coniugi, il consenso congiunto alla cessazione degli effetti civili del proprio matrimonio prestato dai coniugi non sia più revocabile in corso di causa.
Secondo gli Ermellini, infatti, in questi casi la eventuale revoca del consenso da parte di uno dei coniugi non comporta l’improcedibilità della domanda e quindi, per intenderci, l’annullamento ab origine degli effetti giuridici e processuali della domanda come proposta, imponendo piuttosto al Giudice di merito di provvedere ugualmente all’accertamento dei presupposti per la pronuncia richiesta, per poi procedere, in caso di esito positivo della verifica, all’esame delle condizioni concordate dai coniugi, valutandone la conformità a norme inderogabili e prioritariamente agli interessi dei figli minori.
La motivazione addotta dai Giudici di legittimità, del resto, risponde efficacemente ai criteri distintivi di legge che regolamentano questi due diversi procedimenti della crisi coniugale e familiare poiché, come giustamente evidenziato dagli stessi Giudici, “a differenza di quanto avviene nel procedimento di separazione consensuale, la domanda congiunta di divorzio dà luogo ad un procedimento che si conclude con una sentenza costitutiva, nell’ambito del quale l’accordo sotteso alla relativa domanda riveste natura meramente ricognitiva, con riferimento alla sussistenza dei presupposti necessari per lo scioglimento del vincolo coniugale L. n. 898 del 1970, ex art. 3, mentre ha valore negoziale per quanto concerne la prole ed i rapporti economici, consentendo al Tribunale di intervenire su tali accordi nel caso in cui essi risultino contrari a norme inderogabili, con l’adozione di provvedimenti temporanei ed urgenti e la prosecuzione del giudizio nelle forme contenziose” (2)
In definitiva, dunque, la Corte di Cassazione intende con questo ennesimo conforme suo pronunciamento sottolineare la duplicità di effetti del procedimento per divorzio e la diversità di conseguenze che determina il consenso originariamente condiviso formulato dai coniugi e, si badi bene, contenuto in un apposito atto, il ricorso congiunto appunto, che in quanto formalizzato nella sua veste processuale assume fin dal suo deposito una valenza ricognitiva della cessazione degli effetti civili del matrimonio da una parte, e negoziale per quanto attiene alle condizioni del divorzio dall’altra.
Secondo la Corte Suprema, pertanto, sotto il primo profilo la revoca unilaterale e successiva del consenso formulata da uno solo dei coniugi diviene assolutamente irrilevante, non potendo la stessa certamente interrompere, o peggio ancora compromettere, l’iter procedimentale ormai già avviato e rimesso alla decisione giudiziale, spettando al Giudice di merito il riscontro dei presupposti necessari per la pronuncia del divorzio.
Questa significativa, e dobbiamo dire anche a nostro parere corretta e condivisibile, precisazione risulta oltretutto perfettamente rispondente anche ai principi generali di economicità processuale e di divieto di abuso dei mezzi processuali che sottendono all’esercizio dell’azione giudiziale, poiché è evidente che se non si dovesse, per assurdo, pervenire a questa conclusione si finirebbe per “assecondare” indirettamente il comportamento omissivo o dilatorio del coniuge recalcitrante e, di conseguenza, gravare la parte che da sempre abbia mantenuto fermo il proprio proposito divorzile delle spese e dei tempi di attivazione di un nuovo, in questo caso autonomo ma perfettamente inutile, procedimento.
Al contrario, consentire al Giudice di merito di procedere normalmente almeno alla declaratoria di divorzio, una volta accertatene i presupposti di fatto e di legge che certamente emergeranno dalle risultanze probatorie espletate, risponde a quei criteri di efficacia, efficienza e soprattutto tempestività dell’azione giudiziaria che devono sempre caratterizzare l’esercizio di questo delicato potere.
Diverso è, invece, il discorso con riguardo al secondo dei suindicati profili e cioè quello relativo alla ricordata natura negoziale e processuale che l’accordo in questione comunque assume in relazione alle condizioni del divorzio ed alla scelta dell’iter processuale, dal momento che secondo la Corte Suprema nell’ordinanza in commento sotto questo aspetto deve ritenersi del tutto esclusa “la possibilità di ripensamenti unilaterali, configurandosi la fattispecie non già come somma di distinte domande di divorzio o come adesione di una delle parti alla domanda dell’altra, ma come iniziativa comune e paritetica, rinunciabile soltanto da parte di entrambi i coniugi”.
In verità, da operatori di diritto ci risulta difficile comprendere fino in fondo una così netta esclusione della revoca del consenso prestato, se ricondotta nel più generale alveo giuridico della volontà negoziale o contrattuale che è contraddistinta dalla libertà e dall’autodeterminazione delle parti; tuttavia, valutata detta revoca in relazione all’aspetto propriamente obbligatorio del preciso impegno assunto peraltro in un atto giudiziale per quanto attiene alle condizioni del divorzio ed alla regolamentazione dei reciproci diritti ed obblighi afferenti la prole, soprattutto se minorenne, allora il rigore che da tempo ormai a tal fine dimostra la Corte di Cassazione ci appare non solo plausibile ma addirittura doveroso.
Non dobbiamo, infatti, mai tralasciare di considerare come questa decisione sia fondata sulla diversità, sopra ricordata, di impostazione giuridica e processuale sussistente tra la separazione ed il divorzio poiché solo nel primo caso la revoca del consenso da parte di uno dei coniugi comporta il venir meno del requisito indispensabile per l’accoglimento della domanda, rappresentato appunto dall’accordo tra le parti.
Effettivamente, la separazione consensuale rappresenta, come è noto, un istituto della crisi familiare che ha in sé il connotato della temporaneità e, se vogliamo, anche della aleatorietà, andando a determinare unicamente una mera situazione di fatto che in qualunque momento diviene suscettibile, ex se, di ripensamento e/o di revoca, al punto che il relativo ricorso assume natura negoziale, in quanto espressione della capacità dei coniugi di autodeterminarsi responsabilmente, e la successiva pronuncia del tribunale finisce solo per attribuire efficacia a detto accordo consapevolmente stipulato dai coniugi (3).
Corollario, del resto, di tale interpretazione diviene il fatto che in questo contesto processuale ognuno dei coniugi possa non solo revocare il consenso prima che intervenga l’omologazione ma debba anche confermarlo in sede di udienza presidenziale ex art. 158 c.c., a definitiva riprova della libertà della volontà espressa.
Nel caso, invece, del ricorso congiunto per lo scioglimento del matrimonio o di cessazione degli effetti civili di questo, diversi sono i presupposti e le norme processuali applicabili poiché è comunque richiesta una pronuncia costitutiva, fondata sull’accertamento dei presupposti richiesti dall’art. 3 della Legge n. 898 del 1970 e non è casuale nemmeno il fatto che il relativo procedimento rientri tra quelli di giurisdizione contenziosa.
Come ogni espressione di volontà negoziale, dunque, anche quella manifestatasi attraverso il consenso congiunto al divorzio diviene irrevocabile, proprio perché fondata su una iniziativa comune e paritetica, salvo che il consenso espresso non sia frutto di errore, violenza o dolo, nel rispetto dei principi generali di diritto in materia, che si manifestino al momento della formulazione del consenso, come giustamente rilevato anche dalla giurisprudenza di merito (4).
Resta naturalmente inteso, come opportunamente precisato anche dalla Corte di Cassazione (5), come in ogni caso la concorde volontà delle parti, contenuta nel ricorso congiunto, possa essere disattesa dal Collegio quando dette condizioni siano in contrasto con l’interesse dei figli ovvero riflettano accordi illeciti o contrari al buon costume o all’ordine pubblico o a norme imperative di legge, con conseguente rigetto della domanda, ma si tratta di precisazione che non muta il quadro generale della tematica in esame ed il suo inserimento nella più ampia categoria degli atti negoziali, di fatto invece contribuendo a darne maggiore e forse ancora più decisiva sostanza.
Alla luce di tutto ciò, dunque, possiamo certamente affermare che si possa giungere comunque ad una pronuncia giudiziale che da una parte accerti il protrarsi dello stato di separazione legale dei coniugi per il periodo previsto dalla legge, con positivo accertamento dei requisiti di legge in ordine alla mancata ricostituzione della comunione materiale e spirituale tra i coniugi, e dall’altra recepisca le disposizioni originariamente previste dall’accordo congiunto se non contrastanti ovviamente con gli interessi dei figli minori o non autosufficienti, senza nemmeno procedere, si badi bene, a disporre la conversione del rito né a fissare l’udienza presidenziale ex art. 4 comma 16 della Legge n. 898 del 1970.
Quest’ultima importante precisazione, che ricaviamo dalla lettura delle diverse pronunce emesse anche dai Giudici di merito, non è certamente di poco conto poiché testimonia la volontà indiscussa di privilegiare la posizione del coniuge che si trovi, suo malgrado, a subire il ripensamento dell’altro e di giungere sollecitamente ad una decisione che, se conforme agli interessi delle parti e prioritariamente di quelle più deboli quali i figli minori o non ancora autonomi, non ha motivo di essere ulteriormente ritardata con lungaggini processuali ed adempimenti di rito in contenzioso che altrimenti finirebbero per acuire ancora di più il presumibile contrasto insorto tra i coniugi in una fase successiva al loro consenso.
L’interpretazione, quindi, ancora oggi addotta dai Giudici di legittimità non si può ritenere, in verità, totalmente accettata, ed anzi avverso la stessa, anche in tempi recenti, si sono sollevate delle voci difformi come, ad esempio, quella espressa dalla sentenza del Tribunale di Modena del 03 novembre 2020 con la quale, a fronte della revoca del consenso da parte di uno dei coniugi, è stato dichiarato improcedibile il relativo ricorso congiunto, sebbene il ripensamento in questione non avesse interessato specificatamente né la volontà del coniuge riottoso di procedere allo scioglimento del matrimonio né, tanto meno, le disposizioni economiche di mantenimento in favore dei figli come concordemente assunte, ma piuttosto una ben precisa ed individuata disposizione avente valore negoziale modificatasi nel tempo a seguito di un fatto sopravvenuto causa Covid.
Ora, pur nell’incertezza che ci deriva dal non conoscere esattamente i termini della vicenda processuale oggetto di questa pronuncia, la speranza é che comunque questo orientamento, peraltro di merito, rimanga isolato e che non si torni più, per ovvie ragioni di uniformità di indirizzo giurisprudenziale quanto mai indispensabile in una materia che vive, suo malgrado e per sua stessa natura, di un’altissima incidenza di conflittualità, alle medesime pronunce di improcedibilità che a suo tempo diedero spunto alla Corte Suprema di assumere finalmente questa più chiara, e possiamo dire anche più logica, posizione con la sua più nota ordinanza n. 19540 del 24 luglio 2018 che ha rappresentato lo spartiacque di interpretazione sul tema e che, si badi bene, è stata generata proprio dalle difformi sentenze emesse in quel caso in primo grado dal Tribunale di Pescara ed in secondo grado dalla Corte di Appello de L’Aquila.
A nostro parere, infatti, il tratto distintivo dal quale non si potrà più prescindere nella soluzione giudiziale di queste problematiche è unicamente quello secondo il quale, come sopra ricordato, il procedimento di separazione consensuale rientri a tutti gli effetti nella categoria della volontaria giurisdizione ed il consenso delle parti ne sia il suo presupposto fondamentale ed indefettibile, senza possibilità alcuna di intervento del Giudice se non al fine di attribuire a detto consenso efficacia esterna, mentre il procedimento di divorzio, anche consensuale, assuma sempre e comunque natura contenziosa ed il Giudicante sia chiamato ad accertarne la sussistenza dei presupposti di legge indipendentemente dal mantenimento condiviso del consenso espresso dalle parti.
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Note:
- Civ. Sez. 6 – Sottosezione 1 n. 19540 del 24.07.2018; Cass. Civ. Sez. 6 – Sottosezione 1 n. 10463 del 2.5.2018 e Cass. Civ. – Sez. 1 n. 6664 del 08.07.1998 (“ove uno dei coniugi revochi in sede di comparizione innanzi al collegio il consenso già prestato, tale revoca è per un verso irrilevante, perché il giudice adito esamini nel merito la domanda di divorzio, per altro
relativamente alla disciplina dei rapporti patrimoniali contenuta nella domanda
congiunta, inammissibile attesa la natura contrattuale dell’accordo che da un
lato riceve riconoscimento grazie alla previsione legislativa che regola
l’istituto e per altro trattandosi di un contratto, non è revocabile ad nutum e non consente il ripensamento immotivato ed unilaterale”) e, conforme, anche Corte Appello Catania, sentenza n. 1630 del 26 luglio 2008; si veda anche in proposito “Le modalità per annullare un divorzio”, di Alessandra Concas, in questa Rivista, Diritto civile e commerciale, 10 luglio 2019 - Civ. Sez. 6 – Sottosezione 1 n. 19540 del 24.07.2018
- Civ. n. 10932 del 30 aprile 2008
- Corte Appello Catania, sentenza n. 1630 del 26 luglio 2008
- Civ. – Sez. 1 n. 6664 del 08.07.1998
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