Divorzio: legittimo il cumulo del pagamento diretto dell’assegno da parte del datore di lavoro con altri pignoramenti

Daniela Sodo 21/09/21
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(rigetto per inammissibilità)

(Riferimento normativo: art. 156 c.c. – art. 8 L. n. 898 del 1970 – art. 545, 5° comma c.p.c.)

La vicenda

Nel corso di un procedimento promosso dinanzi al Tribunale di Roma il Giudice di merito revocava l’obbligo, posto a carico del marito dell’attrice, di versare in favore di quest’ultima l’assegno perequativo per il mantenimento del figlio e riduceva anche l’importo del contributo paterno per detto mantenimento disponendo nel contempo, a norma dell’art. 156 c.c. comma 6, l’ordine nei confronti del datore di lavoro del marito alla corresponsione diretta dell’assegno di mantenimento della moglie e del figlio.

A fronte del rigetto del reclamo proposto dal marito avverso detta decisione, lo stesso proponeva ricorso per cassazione denunciando, tra l’altro, la asserita violazione di legge ed il difetto di motivazione del provvedimento impugnato per non essere stata riconosciuta l’illegittimità del cumulo tra la trattenuta del quinto dello stipendio mensile, subita a seguito di pignoramento presso terzi di altro creditore, e l’ordine di pagamento diretto al proprio datore di lavoro ex art. 156 c.c., comma 6, in ragione del superamento del limite stabilito dall’art. 545 5° comma cpc.

In particolare, dunque, il ricorrente si lamentava del fatto che il Giudice del reclamo si fosse limitato ad escludere il cumulo tra il pignoramento dello stipendio e il pagamento diretto, senza considerare che il detto cumulo non avrebbe potuto operare stante il limite suindicato e che lo stesso Giudice avesse anche trascurato di considerare che il cumulo tra quanto oggetto di esecuzione forzata presso terzi e quanto disposto dall’ordine di pagamento diretto non possa comunque eccedere il 50% della retribuzione mensile del coniuge obbligato.

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Corte Suprema

La Corte di Cassazione, oltre a confutare l’assunto difensivo del ricorrente anche sotto il profilo dei fatti di causa e segnatamente delle eccezioni relative all’effettiva incidenza percentuale del cumulo tra assegno diretto e pignoramento dello stipendio da parte di terzi, dichiarava comunque inammissibile il ricorso perché fondato su motivi e deduzioni non sottoponibili al sindacato di legittimità.

Nel contempo, però, la stessa Corte di Cassazione, tra le righe della sua motivazione di inammissibilità,  precisava che “A norma dell’art. 156 c.c., comma 6, il tribunale può ordinare a terzi, obbligati nei confronti del coniuge debitore, di pagare direttamente al coniuge (avente diritto all’assegno), quanto a questi è dovuto. L’ordine al terzo può estendersi anche all’assegno in favore dei figli minori, in quanto l’assegno a favore del coniuge affidatario è di regola comprensivo sia delle somme dovute a titolo di mantenimento del coniuge privo di adeguati redditi propri, sia di quelle dovute a titolo di contributo nel mantenimento della prole, e, quand’anche consista solo in quest’ultimo contributo, rappresenta pur sempre un credito dell’altro coniuge e la sua corresponsione da parte dell’obbligato si inserisce, necessariamente, nella disciplina dei rapporti patrimoniali tra coniugi, salva restando la destinazione delle relative somme”.

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Le riflessioni conclusive e gli spunti critici di riflessione

Con questa esaustiva pronuncia la Corte Suprema, nell’ambito di una vicenda processuale più ampia,  affronta una problematica dai risvolti pratici e giudiziali quanto mai rilevanti poiché è fin troppo noto a tutti come il contemporaneo intervento di più crediti, anche di differente natura, sullo stipendio del soggetto obbligato al loro pagamento possa eventualmente incidere negativamente sulle effettive capacità reddituali di quest’ultimo al punto da determinare inevitabili contenziosi, come appunto è accaduto nel caso oggi alla nostra attenzione.

In particolare, poi, la tematica afferente il possibile cumulo tra il pagamento diretto dell’assegno di mantenimento ed il pignoramento di quota dello stipendio del soggetto obbligato ad opera di altro creditore, oggetto specifico della sentenza in commento, riveste ancora maggiore rilevanza perché involge contrapposti principi di natura costituzionale, quali da una parte il diritto del soggetto beneficiario, parte debole, a godere appieno del contributo di mantenimento e, dall’altra, quello del soggetto obbligato a mantenere comunque un limite di reddito adeguato e congruo per il proprio sostentamento, tali da indurre i Giudici chiamati a decidere sulle relative controversie ad intervenire in via interpretativa in maniera certamente molto più significativa.

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I Giudici di legittimità, pertanto, evidentemente anche per tale ragione ci hanno tenuto a precisare come la disposizione normativa contenuta nell’art. 156 comma 6 del Codice Civile (1) debba essere necessariamente letta nel senso che il giudice che gestisce la crisi coniugale possa disporre il pagamento diretto dell’intera somma dovuta dal terzo, quando questa non ecceda, ma anzi realizzi pienamente, l’assetto economico determinato in sede di separazione con la statuizione che, in concreto, ha quantificato il diritto del coniuge beneficiario (2)

Gli stessi Giudici, però, sottolineano, a nostro parere in maniera opportuna e convincente, come tale ordine di pagamento al terzo non abbia bisogno di alcuna attività valutativa della misura dell’obbligo che in tal modo si impone al terzo, ma necessiti solo di un accertamento giudiziale che ne individui l’opportunità sotto il profilo della ritenuta inaffidabilità del soggetto obbligato a provvedervi spontaneamente anche sotto un profilo meramente potenziale.

In definitiva, pertanto, secondo la Corte Suprema l’unica motivazione del potere del Giudice della crisi coniugale di disporre tale pagamento diretto è riconducibile alla effettiva utilità di questa modalità di soddisfacimento del contributo di mantenimento, e ciò anche e soprattutto in considerazione della natura assistenziale che tale contributo assume in favore di soggetti, coniuge o figli minori o non economicamente autosufficienti, che in quanto ritenuti beneficiari di un siffatto contributo sono stati già individuati come parti deboli del rapporto coniugale o di quello genitoriale.

Il Giudice, dunque, non è legittimato in questa sede a svolgere alcuna altra valutazione che possa in qualche modo rimettere in discussione l’entità dell’assegno già precedentemente quantificata, e meno che meno può egli prendere in esame proprio il reddito del soggetto obbligato, poiché altrimenti si verrebbe ad introdurre un potere di valutazione sfornito di funzione processuale e che, a dire della Corte Suprema, sarebbe “altresì irragionevole, giacché nella legge non si precisa, come è conseguente a quanto si è detto, quale possa essere il riferimento della eventuale determinazione di un pagamento parziale” e il giudice, “ove si accedesse a tale tesi, dovrebbe egli trovare un criterio di ripartizione“.

Il principio fondamentale, quindi, che la Corte di Cassazione intende dettare in materia, ponendolo a base della propria decisione oggi in esame, è propriamente quello secondo il quale, in linea generale, la scelta del criterio di limitazione della pignorabilità dello stipendio e l’entità di detta limitazione rientrano nel potere insindacabile del solo legislatore.

Ad ulteriore conferma di questa tesi i Giudici di legittimità rammentano come anche quando questa limitazione abbia acquisito dei criteri di quantificazione maggiormente rilevanti, come accade ad esempio in presenza di un credito pensionistico per il quale, come è noto, a seguito della sentenza n. 506 del 2002 della Corte Costituzionale ed a presidio del diritto dei pensionati posto dall’art. 38 Cost.,  l’impignorabilità assoluta riguarda la sola parte della pensione diretta ad assicurare al suo titolare i mezzi adeguati alle sue esigenze di vita, non si possa comunque prescindere mai, in un giusto bilanciamento di valori altrettanto garantiti dalla Costituzione, dalla qualità del credito per il cui recupero eventualmente si vada a compromettere il trattamento pensionistico e come conseguentemente non si possa mai rendere impignorabile anche quella parte di tale trattamento eccedente il minimum vitale di legge.

In tema di crediti retributivi, invece, come del pari ricordato dalla Corte Suprema, la tutela della certezza dei rapporti giuridici, in quanto collegata agli strumenti di protezione del credito personale, non consente di negare in radice la pignorabilità degli emolumenti ma di attenuarla per particolari situazioni la cui individuazione è riservata alla discrezionalità del legislatore, negando, espressamente, che possa essere esteso ai crediti retributivi quanto affermato, con riguardo alla pignorabilità delle pensioni, nella sentenza n. 506 del 2002, la quale, ben vero, ha evidenziato la diversa configurazione della tutela prevista dall’art. 38 rispetto a quella dell’art. 36 Cost.”.

In definitiva, tuttavia, sia che si tratti di crediti pensionistici o retributivi, come detto i limiti di disponibilità degli stessi sono sempre e soltanto affidati alla scelta discrezionale del legislatore il quale, semmai, nell’amministrare questa sua discrezionalità può direttamente quantificare l’ammontare della retribuzione (o della pensione) detraibile ovvero rimettere tale determinazione al giudice, come appunto consentito dall’art. 156 commi 2,6 e 7 del Codice Civile.

Detta ultima norma, quindi, e segnatamente quella disposizione contenuta nel suo secondo comma, assume il valore giuridico e sostanziale di una disciplina speciale, orientata all’esigenza di assicurare un bilanciamento di interessi il più possibile aderente alla specificità del caso e governata da una propria autosufficienza, senza che su di essa possa incidere né la regolamentazione contenuta nell’art. 545 cpc né, tanto meno, quella di cui all’art. 8 comma 6 della L. n. 898 del 1970 dettata, come è noto, in tema di assegno di divorzio.

Vi è certamente a dirsi che sul tema l’approccio ermeneutico avuto dalla Corte di Cassazione è stato nel tempo differente a seconda che si trattasse di provvedimenti economici afferenti la fase della separazione dei coniugi rispetto a quella divorzile, poiché solo nel primo caso è stato per così dire “ tollerato” un più prudente intervento del giudice su meccanismi caratterizzati dai predetti rigidi automatismi normativi, quasi a voler cercare di difendere anche in questo modo un vincolo matrimoniale giuridicamente non ancora sciolto e, dunque, contribuire ad evitare di compromettere la possibilità di una riconciliazione (4).

La Corte pertanto ricorda opportunamente come la disciplina normativa dell’art. 156 secondo comma c.c. sia stata introdotta con esclusivo riferimento alla separazione dei coniugi, nell’ambito della quale soltanto il  legislatore ha inteso riservare al Giudice un’autonoma regolamentazione della disciplina dell’ordine al terzo, volutamente omettendo di individuare la quota cui deve essere limitato il detto ordine ed inserendo piuttosto all’interno di questa norma un elemento di elasticità che essa Corte individua nell’uso, non casuale, del termine “una parte” a proposito delle somme di denaro dovute.

In sede invece di divorzio, alcuna esplicita regolamentazione di tal genere può rinvenirsi, nemmeno con riguardo alla ricordata disposizione di cui all’art. 8 comma 6 della L. n. 898/1970 per cui, in applicazione anche del principio generale secondo il quale solo la sussistenza di una eventuale lacuna normativa potrebbe legittimare il ricorso ad un’interpretazione analogica, tanto è sufficiente per escludere a priori qualsivoglia possibilità di estensione della normativa di cui all’art. 156 secondo comma c.c. in materia di divorzio.

Ciò, si badi bene, non significa che il soggetto beneficiario dell’assegno divorzile sia sprovvisto di tutela, poiché proprio il citato art. 8 prescrive un procedimento specifico di coinvolgimento del terzo che consta di due fasi: una stragiudiziale, regolamentata dal terzo comma, ed una giudiziale, propriamente esecutiva, che si attua qualora l’invito bonario preventivamente rivolto ad esso terzo non abbia sortito effetto positivo.

Ovviamente, la differenza operativa tra le due fattispecie, separazione e divorzio, è facilmente intuitiva ed è soprattutto abissale poiché solo nel primo caso, come abbiamo detto, il soggetto beneficiario ha la possibilità di ricorrere all’ordine diretto, oltretutto immediatamente e personalmente esecutivo ed efficace nei confronti di esso terzo senza essere obbligato ad attivare una procedura esecutiva come invece accade in caso di recupero dell’assegno divorzile.

Acclarato, pertanto, lo stretto ambito applicativo dell’art. 156 c.c. e limitatolo unicamente al procedimento per separazione dei coniugi, spetta al Giudice della crisi coniugale in prima battuta il potere di valutare, in applicazione dei principi contenuti nei commi 2 e 7 dello stesso articolo, tutti quei fattori, compresa anche l’eventuale sussistenza di pignoramenti gravanti sullo stipendio o sulla pensione del coniuge obbligato, che possano limitarne la disponibilità.

Si tratta, invero, di accertamento giudiziale prioritario che deve essere preordinato all’individuazione, quanto più coerente possibile rispetto alla realtà dei fatti ed alla situazione economico-patrimoniale delle parti, dell’entità di somministrazione prevista dall’art. 156 c.c. , nell’ambito della quale, come detto, assumono rilevanza anche i possibili esborsi coattivi che il soggetto obbligato sia tenuto a subire per posizioni debitorie diverse da quella del coniuge o del figlio beneficiario,  per cui solo una volta che tale elemento sia stato quantificato e determinato nel quantum è possibile, per lo stesso Giudice della crisi coniugale, provvedere anche ad emettere l’eventuale ordine di pagamento diretto del contributo nei confronti del terzo;  provvedimento, questo, che in quanto tale può essere sempre soggetto a revisione ex comma 7 art. cit. e che implica, in via esclusiva, un apprezzamento in ordine alla sola idoneità del comportamento dell’obbligato a suscitare dubbi circa l’esattezza e la regolarità del futuro adempimento, e quindi a frustrare le finalità proprie dell’assegno di mantenimento che è stato concesso.

Dalla lettura della sentenza in commento, quindi, la posizione assunta dalla Corte Suprema ci appare certamente chiara sia con riguardo alla prescrizione addotta in merito alla distribuzione dei poteri di determinazione del quantum del contributo di mantenimento e di emissione dell’ordine del pagamento diretto di questo, che in ordine all’esatto ambito applicativo della disposizione normativa di cui al più volte citato art. 156 c.c.

Forse l’unica perplessità che ci sorge si ricollega ad un passaggio della pronuncia nel quale gli Ermellini legittimano l’intervento dispositivo del Giudice nei confronti del datore di lavoro per il pagamento diretto anche a fronte di un pericolo o rischio di mancato adempimento spontaneo da parte del coniuge anche solo meramente “potenziale”.

La Corte, infatti, usa testualmente questo termine senza che, tuttavia, dal contenuto della sua pronuncia in commento emerga alcun elemento di fatto della vicenda esaminata che ci consenta di comprenderne appieno la motivazione e capire così fino a che punto il potere officioso del Giudice, evidentemente fondato su basi probatorie adeguate, possa esplicarsi, dal momento che non ci è facile immaginare, se non in presenza di un eventuale e ripetuto mancato pagamento spontaneo del contributo, quali altri fattori e/o elementi possano sostanziare un rischio genericamente identificato come “potenziale”.

Resta, questo, dunque l’unico aspetto irrisolto, comunque irrilevante nel contesto generale della problematica, dell’interessante posizione ancora una volta ribadita dalla Corte di Cassazione.

  • Il Comma 6 dell’art. 156, rubricato come “Effetti della separazione sui rapporti patrimoniali dei coniugi” testualmente recita che “In caso di inadempienza, su richiesta dell’avente diritto, il giudice può disporre il sequestro di parte dei beni del coniuge obbligato e ordinare ai terzi, tenuti a corrispondere anche periodicamente somme di danaro all’obbligato, che una parte di esse venga versata direttamente agli aventi diritto
  • In tal senso la Corte di Cassazione riporta il proprio precedente di cui alla sentenza n. 12204 del 02 dicembre 1998
  • La Corte a tal fine richiama l’ordinanza n. 225 del 2002 e la sentenza n. 437 del 1977 della Corte Costituzionale
  • n. 12204 del 02 dicembre 1998 e Cass. n. 1398 del 27 gennaio 2004

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