Dopo la Corte Europea anche la Cassazione “apre” all’“abuso di necessità”

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Via libera degli ermellini al bilanciamento dei diritti e alla “valutazione di proporzionalità tra l’abuso – se di dimensioni tali da farlo ritenere di necessità – e gli interessi della comunità al rispetto delle norme

Sommario: 1. Premessa. 2. La sentenza “Ivanova” e gli approdi interpretativi della corte europea in materia di “proporzionalità” della sanzione demolitoria. 3. L’apertura della sentenza in commento:  l’abuso è considerato di necessità se presenta limitate dimensioni. 4. La scriminante dell’abuso di necessità nella giurisprudenza di legittimità. 5. Considerazioni finali. 6. – Volume

  1. Premessa

La sentenza che si annota (Pres. Di Nicola, Rel. Socci) è stata depositata pochi giorni fa (il 2 ottobre 2019) e merita di essere segnalata in quanto rappresenta, a mio avviso, il primo significativo “arret de la Cour” in Italia, dopo la sentenza ”Ivanova” della Corte EDU del 21 aprile 2016, teso a fare chiarezza sull’insieme dei presupposti richiesti (ed oggettivamente verificabili) perché il diritto di abitazione possa fungere da ostacolo alla esecuzione dell’ordine giudiziale di demolizione.

La sentenza, pur ritenendo infondato il ricorso proposto dalla parte privata ricorrente, esprime uno sforzo commendevole, nella interpretazione dialogica delle norme interne e convenzionali, volto a valorizzare in senso innovativo il principio di legalità, consolidando il bisogno di un equo contemperamento di tale principio con la esigenza sempre più pressante di assicurare protezione ai diritti fondamentali (fra cui il diritto al rispetto della vita privata e familiare e, dunque, alla inviolabilità del domicilio), in presenza di un abuso di limitate dimensioni, in un sistema, peraltro, in  continuo movimento ed in crescente apertura verso le decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo e i principi sovranazionali, che la giurisprudenza interna non può ignorare (v. le sentenze della Corte Costituzionale n. 348 e n. 349 del 14 ottobre 2007, in base alle quali “le norme della convenzione europea nell’ordinamento italiano hanno valore di norme interposte (fra le leggi e la Costituzione) che devono essere rispettate, in quanto integrano il contenuto degli obblighi internazionali che, in applicazione dell’art. 117 della Costituzione, si impongono all’attività normativa dello Stato e delle Regioni, sempre che esse non siano in contrasto con altre norme costituzionali”).

  1. La sentenza “Ivanova” e gli approdi interpretativi della corte europea in materia di “proporzionalità” della sanzione demolitoria

Come riconosciuto dalla stessa sentenza in commento, il principio affermato si ricollega  agli effetti prodotti nell’ordinamento interno dalla nota sentenza della Corte EDU del 21 aprile 2016, c.d. ”Ivanova”, chiamata a pronunciarsi, in fattispecie per certi versi analoga, sul caso di due coniugi bulgari che avevano realizzato un’abitazione sulla costa del Mar Nero, in una località paesaggisticamente vincolata e senza i dovuti permessi.

Per questa abitazione, la Corte di Cassazione bulgara aveva attribuito alla civica amministrazione titolo irrevocabile per la demolizione, in seguito affidata ad un’impresa privata.

La demolizione, infatti, era stata riconosciuta legittima e doverosa dai giudici perché conforme alla normativa bulgara e finalizzata al perseguimento di un fine pubblico: la lotta all’abusivismo edilizio, fenomeno molto diffuso in Bulgaria.

La Corte di Strasburgo è pervenuta, invece, a conclusioni diametralmente opposte, dopo essere stata chiamata ad accertare se poteva ritenersi violato l’art.  8 della Convenzione Europea, che sancisce il diritto al rispetto del domicilio.

La demolizione, secondo la prospettazione difensiva, rappresentava, in effetti, una marcata ingerenza nei diritti dei ricorrenti, che da anni abitavano l’immobile.

La Corte ha dato loro ragione, in quanto “nessun giudice aveva esaminato, valutato e ponderato la circostanza che nella casa da demolire i signori vivevano; tutti piuttosto si erano soltanto limitati ad accertare che l’edificio era stato realizzato abusivamente”.

La Corte ha, dunque, condannato la Bulgaria per violazione dell’art. 8 della Convenzione che riconosce e tutela il diritto alla inviolabilità del domicilio.

La Corte, nella sua decisione, ha anche stabilito che “gli Stati contraenti sono tenuti ad assicurare un esame giudiziale della complessiva proporzionalità di misure così invasive, come la demolizione della propria abitazione, e a riconsiderare l’ordine di demolizione della casa abitata dai ricorrenti alla luce delle condizioni personali degli stessi, che vi vivevano da anni e avevano risorse economiche limitate.

Insomma, secondo la Corte, un conto è proteggere il diritto meramente economico di chi costruisce violando la normativa edilizia e un altro è fare in modo che la prima e unica casa di una persona in difficoltà economica non venga demolita con leggerezza.

Da notare che, nelle sue più importanti decisioni sul tema, sempre la Corte Europea ha anche puntualizzato che:

a) “l’ordine di demolizione per un abuso edilizio costituisce sanzione penale allorquando la sua esecuzione intervenga a distanza di numerosi anni a far data dall’accertamento del fatto e non sia stata acquisita alcuna prova per dimostrare che in ogni fase del procedimento il richiedente abbia ostacolato il regolare svolgimento delle indagini” (Hamer c. Belgio, 2007, n. 21861/03);

b) “chi ricorre non può essere biasimato per aver esperito appieno tutti i rimedi previsti dall’ordinamento nazionale; in ogni caso, la sua condotta costituisce una circostanza oggettiva che non può essere imputata allo Stato convenuto e che deve essere tenuta in considerazione nel determinare la ragionevole durata del procedimento” (Eckle v. Germany, § 82, 1982, n.8130/78);

c) “rappresentando la perdita della casa la forma più estrema di interferenza con il diritto al rispetto della casa stessa, inteso sia come diritto di proprietà che come diritto di abitazione, chiunque sia esposto a tale rischio – appartenente o meno ad un gruppo vulnerabile – dovrebbe in linea di principio poter beneficiare della proporzionalità della misura determinata da un tribunale indipendente alla luce dei principi pertinenti in base all’articolo ritenuto violato” (McCann, § 50, 1995; Ćosić, § 22, 2019, n. 28261/06);

d) “i fattori rilevanti a tale riguardo, quando si tratta di costruzioni illegali (…), potrebbero essere la natura e il grado dell’illegalità, la natura precisa dell’interesse che si vuole proteggere dalla demolizione ed anche quello relativo alla disponibilità di idonee sistemazioni alternative per le persone colpite dalla demolizione (v. Chapman, §§ 102-04); un altro fattore potrebbe essere se esistono modi meno severi di trattare il caso e l’elenco non può essere – di certo – ritenuto esaustivo, sicché, se la persona interessata contesta la proporzionalità dell’interferenza sulla base di tali argomenti, i tribunali devono esaminarli attentamente e fornire adeguate ragioni in relazione ad essi” (v. Yordanova e altri, § 118, 2012, n. 25446/06, e Winterstein e altri, § 148, 2013, n. 27013/07);

e) “l’interferenza non può di norma essere considerata giustificata semplicemente perché il caso rientra in una norma formulata in termini generali e assoluti e la semplice possibilità di ottenere un riesame giudiziario della decisione amministrativa che causa la perdita della casa non è quindi sufficiente; la persona interessata deve essere in grado di contestare tale decisione sulla base del fatto che è sproporzionata in considerazione della sua situazione personale; naturalmente, se in tali procedimenti i giudici nazionali considerano tutti i fattori rilevanti e valutano gli interessi in conflitto in linea con i principi di cui sopra (in altre parole, se non vi è motivo di dubitare della procedura seguita in un caso specifico), il margine di apprezzamento permesso a quei tribunali sarà ampio, in riconoscimento del fatto che essi sono in una posizione migliore di un tribunale internazionale per valutare le esigenze e le condizioni locali, e la Corte sarà riluttante a smentire la loro valutazione” (v. Pinnock e Walker contro Stati Uniti Kingdom (dec.), 2011, n. 31673);

g) “tuttavia, la Corte non può essere d’accordo con la posizione espressa da alcuni tribunali (…), secondo cui l’equilibrio tra i diritti di coloro che rischiano di perdere la propria casa e l’interesse pubblico a garantire l’effettiva attuazione dei regolamenti edilizi può essere una regola assoluta che non ammette eccezioni; tale approccio potrebbe essere sostenuto dall’articolo 1 del Protocollo n. 1, che conferisce alle autorità nazionali una considerevole libertà nel trattare la costruzione illegale (…) o in altri contesti (v. Animal Defenders International v. The United Kingdom [GC], 48876/08, §§ 106-09, CEDU 2013 [estratti], con ulteriori riferimenti); ma dato che il diritto al rispetto della propria casa ai sensi dell’articolo 8 della Convenzione tocca questioni di importanza fondamentale per l’integrità fisica e morale dell’individuo, il mantenimento delle relazioni con gli altri e un posto stabile e sicuro nella comunità, l’esercizio del bilanciamento in base a tale disposizione, nei casi in cui l’interferenza consista nella perdita della sola casa di una persona, è di un ordine diverso, con un significato particolare che si riferisce alla portata dell’intrusione nella sfera personale degli interessati (v. Connors, § 82); questo può normalmente essere esaminato caso per caso, precisandosi, inoltre, che non v’è alcuna prova che il legislatore abbia dato considerazione attiva a questo equilibrio o che, optando per una interpretazione generale delle norme piuttosto che per una soluzione più strettamente su misura, si sia tenuto conto degli interessi tutelati ai sensi dell’articolo 8 della Convenzione” (Vallianatos e altri c. Grecia [GC], 2009, n. 29381/09 e n. 32684/09, § 89, CEDU 2013, nonché Animal Defenders International, §§ 114 -16);

h) “né può la Corte accettare il suggerimento che la possibilità per gli interessati di contestare la demolizione delle loro case in riferimento all’articolo 8 della Convenzione comprometterebbe gravemente il sistema di controllo degli edifici (v. paragrafo 37 sopra); è vero che l’allentamento di una norma assoluta può comportare rischi di abuso, incertezza o arbitrarietà nell’applicazione della legge, delle spese e dei ritardi; tuttavia si può sicuramente prevedere che le autorità amministrative competenti e i tribunali amministrativi, che abitualmente si occupano di questioni relative alla demolizione di edifici illegali (cfr. paragrafi 26, 27, 34 e 37-39 sopra), e che hanno recentemente offerto prova di aver definito tali questioni alla luce dell’articolo 8 della Convenzione (cfr. paragrafo 30 sopra), saranno in grado di affrontare tali rischi, soprattutto se in questo compito verranno assistiti da parametri o linee guida appropriate” (McCann, 1995, § 54, cit.).

  1. L’apertura della sentenza in commento: l’abuso é considerato di necessità  se presenta limitate dimensioni

Con la sentenza in commento, che rievoca un precedente dello stesso estensore (Cass. pen., Sez. III, 4 maggio 2018, n. 48833), la Cassazione evidenzia preliminarmente che:

– “nessuna equiparazione può logicamente farsi tra la demolizione e la confisca, trattandosi di due istituti diversi che operano su piani completamente diversi: sanzionatoria la confisca e solo di riduzione in pristino (poiché riporta il territorio alla condizione iniziale, prima dell’abuso) del bene leso, la demolizione (v. Cass. Sez. 3, 22/10/2009, n. 48925, Viesti; Cass. Sez. 3, 11/02/ 2016, n. 5708, Wolgar)”;

– “la demolizione dell’immobile, attualmente prevista dall’art. 31, comma 9, del T. U. n. 380/ 2001 e già dall’art. 7 della legge 28 febbraio 1985 n. 47, non è esclusa anche dalla eventuale alienazione a terzi della proprietà dell’immobile abusivamente edificato. L’eventuale acquirente (reale o simulato) dell’immobile abusivo subirà le conseguenze della demolizione e potrà rivalersi, nelle sedi competenti, nei confronti del venditore (Sez. 3, 28/3/2007, n. 22853, Coluzzi)”;

– “il tempo trascorso dalla realizzazione della costruzione abusiva alla demolizione dell’opera non rileva per la considerazione della violazione di norme interne e Cedu”.

Nel prosieguo della motivazione, tuttavia, la Corte avverte (ed è questa la parte che qui maggiormente interessa) che:

– “il tempo potrebbe rilevare solo per un eventuale abuso di necessità per le esigenze abitative, ma tale prospettazione risulta assente nel ricorso e genericamente richiamata (senza nessuna specificazione) nella memoria di replica”;

le questioni personali e familiari della ricorrente non sono rappresentate, quindi, a questa Corte, che pertanto non può verificare (in linea del tutto teorica, stante l’inammissibilità del ricorso, per mancanza di motivi specifici – autosufficienza) l’incidenza sul caso della recente sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 21 aprile 2016 (Ivanova e Cherkezov V/ Bulgaria, ricorso 46577/15) e la violazione o no, nella fattispecie concreta, dell’art. 8 della convenzione europea, sotto il profilo della proporzionalità, tra l’abuso – se di dimensioni tali da farlo ritenere di necessità – e gli interessi generali della comunità al rispetto delle norme”.

Tale essendo la novità più significativa della sentenza, non vi è dubbio allora che la questione del bilanciamento dei diritti investa in primo luogo il tema del parametro quantitativo medio preso in considerazione anche in passato da numerose decisioni della Suprema Corte finalizzate alla individuazione delle “costruzioni di limitata entità volumetrica” per l’applicazione dell’istituto dell’amnistia, quali sono quelle di superficie non superiore a 130/150 metri quadrati (cfr., fra le tante, Cass. pen., Sez. III, 15 marzo 1982), e, prima ancora, sia pure solo indirettamente, dal decreto del Ministero dei Lavori Pubblici del 2 agosto 1979, n. 1072, che si occupa delle “caratteristiche delle abitazioni di lusso”.

In secondo luogo, non pare contestabile, nonostante il contrario avviso della Cassazione, che anche il tempo trascorso assuma rilevanza per la valutazione della proporzionalità della sanzione demolitoria (nel caso esaminato dalla Corte le opere sanzionate erano state realizzate in un arco temporale che andava dal giugno 1989 al febbraio 1990 e, pertanto, in epoca oltremodo risalente).

D’altronde, sempre la Cassazione, con sentenza del 19 marzo 2019, n. 17398, Proscio, pur avendo ribadito che l’ordine di demolizione costituisce una misura che, in una società democratica, è necessaria “alla difesa dell’ordine” e alla promozione del “benessere economico del paese“, ha, poi, ritenuto che, ai sensi dell’art. 8 CEDU, è, comunque, necessario che una valutazione della proporzionalità di tale misura (che comporta la perdita dell’abitazione) sia effettuata da un giudice indipendente, come chiarito dalla Corte EDU nella già citata sentenza del 21 aprile 2016, n. 46577.

Il principio di proporzionalità impone, inoltre, che l’autorità giudiziaria valuti caso per caso se un determinato provvedimento possa ritenersi giustificato anche in considerazione delle ragioni espresse dal destinatario della misura, al fine di bilanciare il suo diritto alla tutela dell’abitazione ai sensi dell’art. 8 CEDU (o di altro diritto fondamentale come il diritto alla salute) e l’interesse dello Stato ad impedire l’esecuzione di interventi edilizi in assenza di regolare titolo abilitativo, sicché deve essere il giudice a dover stabilire, tenuto conto delle circostanze del caso concreto dedotte dalle parti, se il provvedimento limitativo della libertà “reale” sia “proporzionato” rispetto allo scopo (cfr., negli stessi sensi, Cass. pen., Sez. III, 20 febbraio 2019, n. 15141, Pignalosa).

E – di certo – non può pervenirsi ad una valutazione positiva del richiesto requisito di “proporzionalità” se la esecuzione della sanzione interviene a distanza di anni dal commesso abuso o dalla decisione di condanna.

In tema, la Corte EDU ha ripetutamente affermato che l’esecuzione di una decisione giudiziaria non può essere impedita, inficiata o ritardata in maniera eccessiva (cfr., fra le tante, le sentenze Burdov c. Russia, 7 maggio 2002; Immobiliare Saffi c. Italia, 28 luglio 1999, e Hornsby c. Grecia, 19 marzo 1997), “essendo lo Stato interno tenuto a garantire l’esecuzione delle decisioni pronunciate dai Tribunali, all’uopo dotandosi di un arsenale giuridico adeguato e sufficiente ad assicurare il rispetto delle obbligazioni positive che su di lui incombono”.

Astenendosi per un lungo periodo di tempo dal prendere le misure necessarie al fine di eseguire la decisione giudiziaria definitiva ed esecutiva, l’autorità procedente finisce per  “privare di ogni effetto utile l’articolo 6 § 1 della Convenzione”, per il quale “ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata … entro un termine ragionevole“.

In ambito penale, peraltro, lo scopo di tale disposizione è quello di “garantire che l’interessato non sia costretto a rivestire la qualità di imputato troppo a lungo e che l’accusa elevata nei suoi confronti venga decisa in tempi, per l’appunto, ragionevoli” (Wemhoff v. Germany, § 18; Kart v. Turkey [GC], § 68).

Il periodo di tempo rilevante ai fini della determinazione della “ragionevole durata” va, comunque, calcolato – secondo la Corte EDU – a partire dal giorno in cui l’interessato viene formalmente accusato (Neumeister v. Austria § 18).

Tale termine può iniziare a decorrere già prima che il processo inizi (Deweer v. Belgium, § 42): ad es., dal momento dell’arresto (Wemhoff v. Germany, § 19), dalla formulazione dell’imputazione (Neumeister v. Austria, § 18) o dall’avvio delle indagini preliminari (Ringeisen v. Austria, § 110).

Il termine “accusa” di cui all’art. 6 § 1 va inteso come “la notizia ufficiale fornita ad un soggetto, da parte dell’autorità competente, circa l’accusa di aver commesso un reato” (Deweer v. Belgium, § 46); tale definizione coincide con la verifica della “incidenza sostanziale” sulla situazione soggettiva del sospettato (Deweer v. Belgium, § 46; Neumeister v. Austria, § 13; Eckle v. Germany, § 73; Mc Farlane v. Ireland [GC], § 143).

Con specifico riferimento alla durata del processo penale, la Corte ha anche affermato che il lasso di tempo preso in considerazione dall’art. 6 copre, di fatto, l’intero procedimento (Kónig v. Consiglio d’Europa / Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Germany, § 98), incluso il giudizio di appello (Delcourt v. Belgium, §§ 25-26; Kónig v.  Germany, § 98; v. the United Kingdom [GC], § 109).

Ne deriva che anche l’esecuzione delle sentenze deve essere considerata parte integrante del processo penale ai fini dell’art. 6 (Assanidze v. Georgia [GC], § 181).

Ed infatti, “le garanzie previste dalla norma in parola sarebbero illusorie se i sistemi giudiziari ed amministrativi degli Stati Contraenti consentissero che una sentenza definitiva e vincolante (…) potesse rimanere ineseguita” a detrimento della persona interessata o anche di quella nella cui sfera soggettiva debbano riverberarsi i suoi effetti negativi in violazione del principio dell’affidamento incolpevole.

Il processo penale costituisce un unicum, di tal che la protezione garantita dall’art. 6 non cessa con la decisione finale. Se le autorità amministrative nazionali fossero libere di rifiutare o omettere l’ottemperanza di una sentenza (…) o anche solo ritardarne l’esecuzione, le garanzie di cui all’art. 6 – pure applicate durante la fase giudiziale del processo – diverrebbero, in parte, illusorie”.

La Corte EDU, nel procedimento Burdov c. Russia, ha anche chiarito che il diritto all’equo processo di cui all’art. 6 § 1 è posto a garanzia, oltre che del corretto svolgimento del processo, anche dell’effettività della sua fase esecutiva.

Qualora, infatti, non fosse data concreta attuazione alle sentenze rese dai tribunali degli Stati membri, verrebbero poste nel vuoto anche le garanzie predisposte per l’equo svolgimento del processo.

Inoltre, la ragionevolezza della durata dei procedimenti deve essere determinata alla luce delle circostanze del caso concreto e nell’ottica di una valutazione complessiva (Boddaert v. Belgium, § 36).

Del resto, sebbene alcuni stati e gradi del procedimento siano stati, di per sé, trattati in tempi rapidi, la durata complessiva del procedimento potrebbe comunque eccedere i limiti della ragionevolezza (Dobbertin v. France, § 44).

Va ricordato, in proposito, che l’art. 6 non impone, sic et simpliciter, che i procedimenti giudiziari siano spediti, ma implica anche il più generale principio della corretta amministrazione della giustizia.

Occorre dunque sempre effettuare un equo bilanciamento tra i vari aspetti di tale fondamentale diritto (Boddaert v. Belgium, § 39).

Al fine di accertare se la durata di un procedimento penale sia ragionevole, la giurisprudenza della Corte ha elaborato diversi criteri, tra cui la complessità del caso, il contegno del ricorrente e la condotta della competenti autorità amministrative e giudiziarie (Konig v. Germany, § 99; Neumeister v. Austria, § 21; Ringeisen v. Austria, § 110; si veda anche Pélissier and Sassi v. France [GC], § 67; e Pedersen and Baadsgaard v. Denmark, § 45).

Va, poi, sottolineato che, nonostante un caso possa presentare profili di notevole complessità, la Corte non può considerare ragionevoli lunghi periodi di ingiustificata inattività (Adiletta v. Italy, § 17: in questo caso, a fronte di una durata complessiva di 13 anni e 5 mesi, vi era stato un intervallo di 5 anni tra la richiesta di rinvio a giudizio al GIP e l’interrogatorio dell’indagato e dei testi, nonché un intervallo di 1 anno e 9 mesi tra la restituzione del fascicolo al P.M. e la nuova richiesta di rinvio a giudizio).

L’art. 6 – come già sottolineato – non impone nemmeno a chi ricorre di cooperare attivamente con le autorità giudiziarie.

In ogni caso, l’art. 6 § 1 non impone nemmeno all’esecutato di cooperare attivamente con le autorità giudiziarie.

L’art. 6 § 1 impone, infine, agli Stati Contraenti l’onere di organizzare il proprio sistema giudiziario in maniera tale che le corti nazionali possano rispettare tutti i requisiti ivi previsti (Abdoella v. the Netherlands, § 24; Dobbertin v. France, § 44).

Sebbene un temporaneo carico di lavoro arretrato non implichi, di per sé, la responsabilità degli Stati, a condizione che questi adottino misure adeguate, efficaci e rapide per affrontare una tale situazione eccezionale (Milasi v. Italy, § 18; Baggetta v. Italy,§ 23), il grande carico di lavoro e le misure adottate allo scopo di porvi rimedio sono stati elementi che la Corte ha raramente considerato decisivi (Eckle v. Germany, § 92).

Non va, infine, sottaciuto che l’enorme numero di violazioni dell’art. 6 CEDU poste in essere dall’Italia hanno aggravato negli ultimi anni la posizione del nostro Paese dinanzi agli organi di Strasburgo.

La Corte europea, infatti, con la sentenza relativa al caso A.- P. Bottazzi, Di Mauro e Ferrari c. Italia del 28 luglio 1999, è giunta a definire la violazione del diritto ad una “durata ragionevole” del processo come “prassi” contraria alla Convenzione indicando, con tale espressione, « un’accumulazione di violazioni di natura identica o analoga talmente numerose e legate tra di esse da escludere che si tratti di incidenti isolati, o eccezioni, e tali da formare un insieme o un sistema ».

  1. La scriminante dell’abuso di necessità nella giurisprudenza di legittimità

Intanto, va subito chiarito, anche al fine di sgomberare il campo da possibili equivoci, che, nella giurisprudenza di legittimità, l’applicazione della scriminante dello stato di necessità ex art. 54 cod. pen. in tema di costruzione abusiva è stata costantemente esclusa sul presupposto che è di regola evitabile il pericolo di restare senza abitazione, sussistendo la possibilità concreta di soddisfare il bisogno attraverso i meccanismi di mercato e dello stato sociale ed in considerazione dell’ulteriore elemento, necessario per l’applicazione della scriminante, del bilanciamento tra il fatto commesso ed il pericolo che l’agente intende evitare.

Particolarmente illuminante sul punto è la sentenza della Corte di Cassazione, Sez. III, del 30 maggio 2018, n. 39412, Di Stasi, secondo cui “gli estremi dell’esimente dello stato di necessità, ex art. 54 cod. pen., non sono ipotizzabili nel reato di costruzione abusiva quando il pericolo di restare senza abitazione è concretamente evitabile attraverso i meccanismi del mercato o dello stato sociale (vedi Sez. 3: 21.9.2001, ric. Riccobono; 22.2.2001, ric. Bianchi;7.10.1999, ric. Verrusio; 8.10.1998, ric. Braccio; 2.12.1997, n. 11030, ric. Guerra; 17.5.1990, ri.7015, ric. Sinatra; 25.2.1989, n. 3137, ric. Gelsi; 4.12.1987, n. 12253, ric. Iudicello)

Si è, poi, osservato che il danno grave alla persona, cui fa riferimento l’art. 54 cod. pen., deve essere inteso come ogni danno grave ai diritti fondamentali dell’individuo, tra i quali non rientra soltanto la lesione della vita o dell’integrità fisica, ma anche quella del diritto all’abitazione, dovendo però sussistere comunque tutti i requisiti richiesti dalla legge, la valutazione dei quali deve essere effettuata in giudizio con estremo rigore (v., in particolare, Sez. III, 1° ottobre 1997, n. 11030, Guerra, già citata, nonché Sez. III, 6 ottobre 2000, n. 12429, Martinelli).

Successivamente, per escludere l’applicabilità della scriminante in questione, si è posto l’accento sulla mancanza dell’ulteriore requisito della inevitabilità del pericolo, osservando che l’attività edificatoria non è vietata in modo assoluto, ma è consentita nei limiti imposti dalla legge a tutela di beni di rilevanza collettiva, quali il territorio, l’ambiente ed il paesaggio, che sono salvaguardati anche dall’art. 9 della Costituzione.

Di conseguenza, se il suolo è edificabile, le disagiate condizioni economiche non impediscono al cittadino di chiedere il permesso di costruire. Se il suolo non è edificabile, il diritto del cittadino a disporre di un’abitazione non può prevalere sull’interesse della collettività alla tutela del paesaggio e dell’ambiente (Sez. III, 39 maggio 2007, n. 28499, Chiarabini; Sez. III, 26 gennaio 2006, n. 19811, Passamonti e altro; Sez. III, 20 settembre 2007, n. 41577, Ferraioli; Sez. III, 26 giugno 2008, n. 35919, Savoni e altro; Sez. III, 6 ottobre 2016, n. 7691, Di Giovanni; Sez. III, 3 marzo 2016,  n. 25036, Botticelli).

Per completezza espositiva, va anche ricordato che l’orientamento favorevole ad escludere che l’esimente dello stato di necessità prevista dall’art. 54 c.p. possa applicarsi ai reati edilizi è stato criticato da alcune pronunce le quali hanno, invece, ammesso che « per danno grave alla persona deve intendersi ogni danno grave ai suoi diritti fondamentali, ivi compreso quello all’abitazione » (Cass., Sez. III, 2 dicembre 1997, n. 11030).

L’imputato, però, deve essere, in tal caso, in grado di provare che il pericolo sia di reale consistenza e non altrimenti evitabile, precisandosi, altresì, che, pur dovendosi ritenere corretta un’interpretazione di tale scriminante che si riferisca all’esigenza di un alloggio salubre e idoneo a garantire condizioni abitative minime essenziali, occorre poter escludere in modo assoluto la sussistenza di ogni altra concreta possibilità, priva di disvalore penale, di evitare il danno, come, ad esempio, reperire un’altra abitazione attraverso i meccanismi del mercato o dello stato sociale (Cass., Sez. III, 4 febbraio 2003, n. 5162).

Per quanto possa occorrere, va, poi, segnalato che, con un decreto del 10 dicembre 2015, il Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Napoli ha espressamente riconosciuto che « quanto ai beni di rango costituzionale che vengono in rilievo nella materia delle demolizioni, occorre fare riferimento – in un’ottica di valutazione e bilanciamento degli stessi – non solo all’ambiente (art. 9 della Costituzione) e alla salute (art. 32 Cost.) ma anche ad altri beni e principi tutelati dalla Carta Costituzionale, quali l’uguaglianza sostanziale, l’equità, la ragionevolezza e la solidarietà sociale (art. 3 Cost.), il diritto al lavoro (art. 4 Cost.) e la funzione sociale della proprietà (art. 42 Cost.) »

  1. Considerazioni finali

La sentenza della Cassazione non deve sorprendere, essendo la logica conseguenza di un proficuo dialogo tra Corti.

Come ha ricordato l’ex presidente del Tribunale costituzionale federale tedesco Andreas Voßkuhle, « in modo simile alle lingue anche i tribunali operano come prismi diversamente sfaccettati, che riflettono, ma contemporaneamente rendono anche possibili differenti concezioni giuridiche e della vita; la Corte costituzionale tedesca, la Corte di giustizia dell’Unione europea e la Corte europea dei diritti dell’uomo non giudicano in maniera isolata l’una dalle altre, bensì in modo reciprocamente coordinato; decisioni contenutisticamente divergenti sono state adottate di rado, mentre occasionali dissonanze hanno dispiegato sempre una forza generatrice di nuovi sviluppi ».

L’auspicio è che su temi di così rilevante impatto sociale, come quelli del rispetto della vita privata e familiare, sia ritenuto pienamente sussistente il dovere del giudice comune di offrire una interpretazione del diritto interno “convenzionalmente orientata”, ossia il dovere di scegliere, tra i possibili significati normativi estraibili dalla disposizione nazionale, quello più compatibile con il diritto della Convenzione Edu, come interpretato dalla Corte Edu.

Tale auspicio – del resto – non può e non deve risultare limitato dai principi espressi dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 49 del  26 marzo 2015.

La sentenza, come è noto, richiamando un proprio precedente che valorizzava il ruolo del giudice nazionale comune come interprete “in prima battuta” della Carta EDU (sentenze n. 349/2007 n. 68/2017), ha affievolito notevolmente la soggezione di tale giudice all’interpretazione della Convenzione fornita dalla Corte EDU, circoscrivendo tale soggezione alle sole ipotesi in cui sussista una giurisprudenza della Corte EDU qualificabile come consolidata, con conseguente esenzione del giudice nazionale dal dovere di “conformarsi” a sentenze della Corte Edu che:

– enuncino principi “creativi” rispetto al solco tradizionale della giurisprudenza europea;

– contengano punti di distinguo, o persino di contrasto, nei confronti di altre pronunce della Corte di Strasburgo;

– siano corredate da opinioni dissenzienti, specie se alimentate da robuste deduzioni;

– promanino da una sezione semplice e non abbiano ricevuto l’avallo della Grande Camera;

– siano state emesse all’esito di un giudizio in cui si possa dubitare che la Corte EDU sia stata posta in condizione di apprezzare i tratti peculiari dell’ordinamento giuridico nazionale, estendendovi criteri di giudizio elaborati nei confronti di altri Stati aderenti che, alla luce di quei tratti, si mostrano invece poco confacenti al caso italiano.

La questione, infatti, pur dando luogo ancora oggi ad accese discussioni, può essere oggetto di un sereno “revirement”, in ragione del fatto che, con la sentenza del 28 giugno  2018 (G.I.E.M. ed altri c. Italia), la Grande Camera ha avuto modo di chiarire che “le sentenze della Corte hanno tutte lo stesso valore giuridico; il loro carattere vincolante e la loro autorità interpretativa non possono pertanto dipendere dal collegio giudicante che le ha pronunciate” (v. Paragrafo 252).

In tale ottica, non può nemmeno disconoscersi che la giurisprudenza della Corte EDU, con riferimento alla dichiarata non proporzionalità della sanzione allorquando essa intervenga a distanza di un notevole lasso di tempo dal commesso abuso, deve ritenersi ormai consolidata.

In definitiva, non pare dubbio che le autorità nazionali, amministrative e giudiziarie, non possano limitarsi al formale accertamento dell’abuso senza nessun rispetto del principio di proporzionalità e delle condizioni personali del contravventore.

Quindi, anche di fronte ad un abuso certo, le misure di ripristino della legalità più invasive e afflittive non possono essere imposte laddove il contravventore si trovi in condizioni personali ed economiche limitate.

In particolare, misure invasive di tal tipo non possono essere imposte nel caso in cui l’abitazione abusiva (in cui viveva indisturbato) sia l’unica sistemazione del contravventore; oppure nel caso in cui il contravventore versi in condizioni economiche di povertà; o ancora, nel caso in cui le condizioni di salute siano tali da non permetterne il trasferimento altrove.

Il diritto all’abitazione è in fin dei conti sacrosanto.

Per quanto stabilito dall’art. 8 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo, nessuna autorità pubblica può interferire nell’esercizio di tale diritto a meno che l’ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del Paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui.

Questa la rotta da seguire.

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Avv. ROBERTO DI MEGLIO

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