È quanto ha stabilito la Corte di Cassazione, Sezione III Civile, con l’ordinanza del 19 dicembre 2017, n. 30379, mediante la quale ha accolto il ricorso e d il controricorso ed ha cassato con rinvio quanto già deciso, nel caso de quo, dalla Corte d’appello di Sassari,
La vicenda
La pronuncia in esame ha avuto origine dal fatto che i coniugi D e V con atto di citazione del 2011 convenivano davanti al Tribunale di Sassari, per il risarcimento dei danni a loro derivati da sinistro stradale avvenuto in Corsica il 15 agosto 2008 nel quale era deceduto il loro figlio per responsabilità di TIZIO, assicurato con Compagnia di Assicurazione S.p.a.
Il Tribunale, con sentenza del 2014, condannava la convenuta Compagnia al risarcimento dei danni “nei limiti di cui in motivazione”, detratto l’acconto versato.
Avendo la Compagnia di Assicurazioni proposto appello principale, e i coniugi appello incidentale, con ordinanza del 2015, pronunciata ex articolo 348 ter c.p.c., la Corte d’appello di Sassari li dichiarava inammissibili.
La Compagnia di Assicurazioni ha proposto ricorso, articolato in quattro motivi. Dal ricorso si sono difesi i coniugi D e V con controricorso, presentando altresì ricorso incidentale contenente un unico motivo.
I motivi di ricorso e controricorso
Per quanto è qui di interesse, la ricorrente Compagnia di assicurazioni, con il primo motivo, ex articolo 360, primo comma, n.3, c.p.c., denuncia violazione e/o falsa applicazione degli articoli 2059 e 1226 c.c. per avere il Tribunale liquidato il danno non patrimoniale con una duplicazione risarcitoria, assommando il danno parentale e il danno biologico, benché si trattasse per entrambi i coniugi dello stesso danno, come sarebbe emerso dalla c.t.u.; liquidando il danno parentale in misura massima con ulteriore aumento del 50%, il Tribunale, in sostanza, avrebbe liquidato due volte lo stesso danno.
I coniugi D e V, controricorrenti, con l’unico motivo denunciano, ex articolo 360, primo comma, n.3 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli articoli 1226, 2056 e 2059 c.c.
Avrebbe errato il Tribunale utilizzando come criterio della liquidazione del danno biologico le tabelle milanesi in ordine al danno parentale, indicando poi per il danno biologico il 50% del massimo previsto per il danno parentale.
Rilevano i ricorrenti che il giudice di merito può avvalersi di criteri diversi da quelli delle tabelle milanesi, ma ciò non toglie che nel caso in esame il parametro scelto dal Tribunale – il danno biologico come 50% del danno parentale – porterebbe ad un importo inferiore a quello che si raggiungerebbe se fossero state applicate le tabelle del Tribunale di Milano.
Dalla c.t.u. espletata sarebbero emerse per entrambi i ricorrenti gravi lesioni alla salute di genere psichico, per cui il consulente avrebbe quantificato un danno biologico permanente, inclusivo a suo avviso dei danni morali, per patologia psichiatrica del 45% per V e del 50% per D, escludendo peraltro da tali valutazioni “la stima delle ripercussioni esistenziali”.
Il danno biologico – diverso da quello parentale in quanto attinente a diverso bene giuridico – nel caso in esame sarebbe stato risarcibile ai sensi dell’articolo 2059 c.c.: ritenutolo pertanto sussistente, il Tribunale avrebbe dovuto liquidarlo applicando gli articoli 2056 e 1226 c.c. equitativamente secondo le tabelle milanesi, come aveva fatto anche per il danno parentale.
Tali tabelle costituirebbero un criterio preferenziale, secondo la giurisprudenza di legittimità, sostituibile con un altro parametro se viene offerta una specifica motivazione al riguardo che evidenzi la presenza di ragioni concrete in tal senso, e ciò qui sarebbe carente. Il Tribunale avrebbe pure effettuato un’errata percezione degli esiti della consulenza tecnica.
La Suprema Corte, sul tema, fa rilevare che il Tribunale ha effettuato la liquidazione del danno non patrimoniale subito dagli attuali ricorrenti in conseguenza del fatto – in forza dell’articolo 2059 c.c., in quanto qualificato reato di omicidio colposo – argomentando nel senso che tale danno deve essere risarcito integralmente ma senza duplicazioni né automatismi, e che anche il danno esistenziale non deve essere oggetto di duplicazione “liquidando sia il danno morale (inteso come sofferenza soggettiva) sia il danno da perdita del rapporto parentale”, e altresì che se il congiunto ha patito “un danno psichico (come accertato dalla c.t.u….) tale degenerazione patologica deve essere qualificata come danno biologico…ma devono essere evitate indebite duplicazioni”.
Dopo queste premesse, il giudice di prime cure osserva che la c.t.u. “esplica le voci del danno riconosciute, indicando nei postumi permanenti dei periziati anche il danno morale conseguente al disturbo depressivo maggiore come riscontrato”.
Dopo di che afferma peraltro che lo stesso c.t.u. non avrebbe “fornito elementi precisi per consentire una precisa comprensione delle voci di danno da lui indicato” e quindi dichiara che “tale sofferenza ulteriore non può liquidarsi nella percentuale del danno biologico pari al 45% e 50% come stimato, in assenza di precisi e ulteriori riscontri di prova, ma consente, equitativamente, la applicazione dell’aumento di 1/2 della misura del danno parentale come liquidato”, così “evitando la duplicazione delle voci di danni”.
E “in tal modo” si applicherebbero le tabelle del Tribunale di Milano.
A dire della Corte di Cassazione, il ragionamento del giudice confonde palesemente il profilo probatorio con la distinzione delle voci di danno che deve essere mantenuta per evitare di risarcire più volte lo stesso danno.
Il Tribunale, con un’argomentazione rapida quanto non agevolmente comprensibile, qualifica il danno biologico una “sofferenza ulteriore” che dovrebbe essere “equitativamente” risarcita mediante l’aumento del 50% della misura del danno parentale.
In ultima analisi, risulta evidente che la liquidazione del danno biologico non è stata effettuata secondo i criteri tabellari milanesi, e – comunque e soprattutto – è stata espletata mediante una “intrusione” nel parametro adottato dal giudice di un bene diverso, cioè quello sotteso al danno parentale (su cui ultimo v. Corte di Cassazione, Sez. III, 20 ottobre 2016 n. 21230, Corte di Cassazione, Sez. III, 19 ottobre 2016 n. 21060 e Corte di Cassazione, Sez. III, 14 giugno 2016 n. 12146) convertito dal Tribunale, a ben guardare, in una sorta di “chiave” equitativa per la determinazione del quantum di un danno del tutto diverso.
La fondatezza del motivo è dunque manifesta.
Aggiunge la Suprema Corte che che il primo motivo del ricorso principale denuncia, in sostanza, lo stesso error in iudicando del Tribunale, laddove lamenta che sia stato liquidato due volte lo stesso danno, ovvero il danno parentale, aumentato al 50% sul massimo tabellare in forza del “cumulo” operato dal giudice di merito con quello che, a ben guardare, solo formalmente ha considerato danno biologico, in realtà sussumendolo appunto nel danno parentale.
Per quanto appena osservato, anche questo motivo deve essere quindi accolto.
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