Con una recente sentenza depositata il 27 maggio 2015 n. 10955, la Corte di Cassazione si è pronunciata su un caso di licenziamento disposto dal datore di lavoro nei confronti del suo dipendente perché questi, durante gli orari di lavoro, chattava e utilizzava facebook.
I fatti che venivano addebitati all’operaio e per i quali si procedeva al licenziamento per giusta causa erano i seguenti: lo stesso, in data 21/8/2012, si era allontanato dal posto di lavoro per una telefonata privata di circa 15 minuti che gli aveva impedito di intervenire prontamente su di una pressa, bloccata da una lamiera, che era rimasta incastrata nei meccanismi; nello stesso giorno era stato trovato, nel suo armadietto aziendale, un dispositivo elettronico acceso e in collegamento con la rete elettrica e, nei giorni successivi, in orari di servizio, si era intrattenuto con il suo cellulare a conversare su facebook.
Il dipendente, avverso il licenziamento, ricorreva in Tribunale affinché si annullasse il predetto provvedimento e si disponesse la reintegrazione del posto di lavoro. Il giudice di primo grado, tuttavia, disponeva che il rapporto di lavoro fosse risolto e, non essendoci i presupposti di un eventuale reintegro, in virtù dell’articolo 18 Stat. Lav., stabiliva una tutela attenuata a favore del lavoratore e ha quindi condannato la società datrice di lavoro a corrispondere al lavoratore un risarcimento del danno pari a ventidue mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
E’ d’uopo ricordare che, il suddetto articolo, a seguito della riforma Fornero, l. 92/2012, prevede tre tipi di licenziamento: il licenziamento discriminatorio (credo politico, fede religiosa, sesso, etnia). In questo caso si prevede reintegro e risarcimento integrale c.d. tutela forte; il licenziamento disciplinare per giusta causa, cioè nel momento in cui si verifica una circostanza talmente grave da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro o per giustificato motivo soggettivo, cioè in caso di notevole inadempimento degli obblighi contrattuali da parte del lavoratore. In questo caso si prevede il reintegro con risarcimento limitato nel massimo di 12 mensilità, oppure il pagamento di un’indennità risarcitoria, tra le 12 e le 24 mensilità, senza versamento contributivo c.d. tutela attenuata e, infine, quello economico: causato da giustificato motivo oggettivo, cioè da ragioni inerenti “l’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa”, che prevede un indennizzo ridotto, da 12 a 24 mensilità, tenendo conto dell’anzianità del lavoratore e delle dimensioni dell’azienda stessa, ma non si applica il reintegro.
La Corte d’appello, adita dal dipendente, stabilendo che l’accertamento compiuto dalla società datrice di lavoro delle conversazioni via internet intrattenute dal ricorrente con il suo cellulare nei giorni e per il tempo indicato – accertamento reso possibile attraverso la creazione da parte del responsabile del personale di un “falso profilo di donna su facebook” – non costituisse violazione dell’art. 4 della legge n. 300/1070, in difetto dei caratteri della continuità, invasività e compressione dell’autonomia del lavoratore nello svolgimento della sua attività lavorativa e del sistema adottato dalla società per pervenire all’accertamento dei fatti, e procedendo al giudizio di proporzionalità tra i fatti accertati e la sanzione arrogata, rigettava l’impugnativa di licenziamento proposta dal ricorrente e lo condannava, poi, alla restituzione della somma ricevuta in esecuzione della sentenza reclamata.
La sentenza veniva impugnata innanzi la Cote di Cassazione.
E’ necessario chiarire che lo strumento, attraverso il quale sono stati accertati i fatti di cui si discute, consiste nella creazione da parte del responsabile delle risorse umane di un falso profilo di donna su facebook con richiesta di “amicizia” al ricorrente, con il quale aveva poi “chattato in più occasioni”, in orari che la stessa azienda aveva riscontrato concomitanti con quelli di lavoro del dipendente, e da posizione, accertata sempre attraverso facebook, coincidente con la zona industriale in cui ha sede lo stabilimento della società.
Si discute, pertanto, se questo stratagemma fosse compatibile con le disposizioni contenute nello Statuto dei lavoratori, nello specifico l’articolo 4 l. 300/1970, che dispone «E’ vietato l’uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori» (co.1); «Gli impianti e le apparecchiatura di controllo che siano richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, ma dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, possono essere installati soltanto previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali… In difetto di accordo, su istanza del datore di lavoro, provvede l’Ispettorato del lavoro, dettando, ove occorra, le modalità per l’uso di tali impianti» (co. 2).
A tal proposito, è stato affermato da questa Corte che l’art. 4 fa parte di quella complessa normativa diretta a contenere in vario modo le manifestazioni del potere organizzativo e direttivo del datore di lavoro che, per le modalità di attuazione incidenti nella sfera della persona, si ritengono lesive della dignità e della riservatezza del lavoratore” (Cass., 17 giugno 2000, n. 8250).
Con la suddetta norma si intenderebbe garantire la persona del lavoratore da controlli a sua insaputa vessatori che potrebbero ledere la dignità del lavoratore trasformato da persona umana a macchina organizzativa. Peraltro, come sostiene la Corte, “il controllo dei datore di lavoro deve dunque trovare un contemperamento nel diritto alla riservatezza del dipendente, ed anche l’esigenza, pur meritevole di tutela, dei datore di lavoro di evitare condotte illecite da parte dei dipendenti non può assumere portata tale da giustificare un sostanziale annullamento di ogni forma di garanzia della dignità e riservatezza del lavoratore”.
Non escluderebbe il potere dell’imprenditore, ai sensi degli artt. 2086 e 2104 c.c., di controllare direttamente o mediante la propria organizzazione gerarchica o anche attraverso personale esterno l’adempimento delle prestazioni lavorative e quindi di accertare mancanze specifiche dei dipendenti già commesse o in corso di esecuzione, e ciò indipendentemente dalle modalità del controllo, che può avvenire anche occultamente, senza che vi ostino né il principio di correttezza e buona fede nell’esecuzione dei rapporti né il divieto di cui alla stessa L. n. 300 dei 1970, art. 4 (Cass. 10 luglio 2009, n. 16196).
Un consolidato orientamento ammette la tendenziale ammissibilità dei controlli difensivi occulti diretti all’accertamento di comportamenti illeciti diversi dal mero inadempimento della prestazione lavorativa, sotto il profilo quantitativo e qualitativo, ferma comunque restando la necessaria esplicazione delle attività di accertamento mediante modalità non eccessivamente invasive e rispettose delle garanzie di libertà e dignità dei dipendenti sempre secondo i canoni generali della correttezza e buona fede contrattuale.
Alla luce delle superiori premesse, non può dirsi che la creazione del falso profilo facebook costituisca, di per sé, violazione dei principi di buona fede e correttezza nell’esecuzione del rapporto di lavoro, attenendo ad una mera modalità di accertamento dell’illecito commesso dal lavoratore, non invasiva né induttiva all’infrazione, avendo funzionato come mera occasione o sollecitazione cui il lavoratore ha prontamente e consapevolmente aderito.
La Corte rigettava il ricorso e condannava il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio.
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento