E’ il cliente e non il suo avvocato a dover rispondere delle espressioni offensive e sconvenienti contenute negli scritti difensivi.

L’art. 89 c.p.c., dispone che: “Negli scritti presentati e nei discorsi pronunciati davanti al giudice, le parti e i loro difensori non debbono usare espressioni sconvenienti od offensive. Il giudice, in ogni stato dell’istruzione, può disporre con ordinanza che si cancellino le espressioni sconvenienti od offensive, e, con la sentenza che decide la causa, può inoltre assegnare alla persona offesa una somma a titolo di risarcimento del danno anche non patrimoniale sofferto, quando le espressioni offensive non riguardano l’oggetto della causa”.

Sulla scorta di ciò il Tribunale di Vallo della Lucania, nel giudizio intentato da un soggetto privato nei confronti di una società, nonché di un avvocato – in giudizio di persona –, dispose la cancellazione di alcune frasi dagli scritti difensivi proposti da entrambe le parti, siccome ritenute sconvenienti e offensive, in virtù del disposto dell’art. 89 c.p.c., con contestuale condanna dell’avvocato di parte attrice e dell’avvocato convenuto (procuratore di sé stesso) al pagamento reciproco, della somma di euro 100,00 a titolo di risarcimento del danno.

Sull’appello principale proposto dalla parte attrice e dal suo legale personalmente, nonché in via incidentale dall’avvocato convenuto in primo grado, la Corte d’Appello di Salerno, rigettava entrambi i gravami e, quindi, confermava la sentenza di primo grado.

Deducevano gli appellanti che non poteva ritenersi ammissibile una condanna personale dell’avvocato di parte attrice, non essendo lo stesso parte del processo, che le espressioni utilizzate non potevano ritenersi né sconvenienti ma neppure offensive e, in ogni caso, che le stesse erano collegate all’oggetto del giudizio.

Come detto il giudice di secondo grado rigettava gli appelli, sulla scorta dell’esiguità dell’importo risarcitorio a cui entrambe le parti erano state condannate, da ritenersi privo di valenza economica ma, piuttosto, simbolico, attesa l’intenzione del giudice di primo grado di stigmatizzare il rispettivo comportamento degli avvocati.

Proponeva ricorso per cassazione personalmente l’avvocato di parte attrice, il quale affidava lo stesso a tre motivi, tra cui quello relativo alla violazione e falsa applicazione dell’art. 89 c.p.c.

Evidenzia l’avvocato ricorrente come l’art. 89 c.p.c., letto alla luce del combinato disposto dagli artt. 24 e e 111 Cost., consentirebbe – nell’ambito del costituzionalmente tutelato diritto di difesa – l’utilizzo di espressioni “forti o colorite”, sempre che risultino afferenti all’oggetto del giudizio.

In ogni caso, giammai dette espressioni, qualora ritenuti sconvenienti ovvero offensive, potrebbero fondare una condanna personale al risarcimento del danno del difensore, impegnato nell’esercizio del suo mandato difensivo, sanzione che, semmai, dovrebbe essere inflitta solo alla parte che concretamente agisce o resiste in giudizio.

A tal proposito la Corte di Cassazione – nella sentenza oggi in commento – ritiene che, in effetti, vi sia una carenza di legittimazione passiva, con riferimento al profilo risarcitorio di cui all’art. 89 c.p.c., dell’avvocato che non sia anche parte nel giudizio nel quale sono stati redatti gli scritti contenenti le espressioni sconvenienti ed offensive.

In altri termini, qualora il legale non agisca in proprio – ma, piuttosto, in virtù di mandato alle liti in difesa del proprio assistito – non può essere considerato “parte” del giudizio e, pertanto, difetta della legittimazione passiva.

Nell’affermare ciò il giudice di legittimità ricorda i propri precedenti in materia, evidenziano come: “a) «ai sensi dell’art. 89 c.p.c., delle offese contenute negli scritti difensivi risponde sempre la parte, anche quando provengano dal difensore, sia perché gli atti di quest’ultimo sono sempre riferibili alla parte, sia perché la sentenza può contenere statuizioni dirette soltanto nei confronti della parte in causa» (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 11063 del 26 luglio 2002); b) «delle offese contenute negli scritti difensivi risponde, ai sensi dell’art. 89 c.p.c. sempre la parte, anche quando provengano dal difensore, e destinataria della domanda di risarcimento del danno ex art. 89, co. 2, c.p.c., è sempre e solo la parte (legittimata passivamente), la quale — se condannata — potrà rivalersi nei confronti del difensore, cui siano addebitabili le espressioni offensive, ove ne ricorrano le condizioni» (Sez. 2, Sentenza n. 23333 del 9 settembre 2008, non massimata); c) «il difensore della parte è passivamente legittimato, a titolo personale, nell’azione per danni da espressioni offensive contenute negli atti di un processo, proposta davanti ad un giudice diverso da quello che ha definito quest’ultimo, ove sia prospettata una specifica responsabilità del difensore stesso o non sia più possibile agire ai sensi dell’art. 89 c.p.c. per lo stadio processuale in cui la condotta offensiva ha avuto luogo» (Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 19907 del 29 agosto 2013; conf.: Sez. 3, Sentenza n. 20891 del 12 settembre 2013; Sez. 3, Sentenza n. 16121 del 9 luglio 2009; Sez. 3, Sentenza n. 10916 del 7 agosto 2001”.

Conclude, pertanto, la Corte, affermando che: “va sempre esclusa la legittimazione passiva del difensore, sotto il profilo risarcitorio, nell’ambito del giudizio in cui sono presentati gli scritti contenenti le espressioni sconvenienti o offensive, essendo essa ammessa solo in distinto giudizio, alle condizioni indicate” (Cass. civ., Sez. III, 19.02.2016, n. 3274).

Ciò posto, accoglie il ricorso in relazione al motivo indicato, e cassa senza rinvio la sentenza impugnata, con compensazione delle spese del giudizio di legittimità e di quelle dei gradi merito, limitatamente agli avvocati ricorrente e controricorrente nel giudizio di cassazione.

Il principio riaffermato dalla Suprema Corte, tuttavia, non sta a significare sic e sempliciter che la parte in giudizio risponde patrimonialmente per le espressioni sconvenienti e offensive scritte dal proprio difensore negli atti giudiziari.

Ed invero, per univoca giurisprudenza, la parte condannata ex art. 89 c.p.c. al risarcimento del danno nei confronti dell’altra parte in giudizio, ben può agire – in un successivo procedimento giudiziario – nei confronti del proprio difensore autore degli scritti contenenti espressioni offensive o sconvenienti, per la ripetizione delle somme che lo stesso è stato tenuto a pagare in dipendenza della condotta tenuta dal suo avvocato.

Una tale azione è certamente ammessa quando il giudizio nel quale sono stati depositati gli scritti contenenti le parole offensive sia terminato ovvero versi nelle fasi finali (si pensi alle espressioni sconvenienti utilizzate nelle comparse conclusionali), viceversa, quando detto giudizio risulti ancora in corso, l’azione è esperibile nello stesso processo, in modo più veloce e agevole per la parte/danneggiata: “in quanto risolta in un mero, agile e deformalizzato, subprocedimento del giudizio principale, del quale mutua interamente il materiale probatorio, come una facoltà per quest’ultimo, riservatagli e al contempo impostagli quando la sua tutela sia possibile nel processo medesimo” (Cass. civ. Sez. VI, Ord., 29.08.2013, n. 19907).

Avv. Accoti Paolo

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