(Riferimento normativo: Cod. proc. pen., art. 382)
Il fatto
Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Patti, nel procedimento a carico di C. T., arrestato e indagato per il delitto di tentato omicidio aggravato dai futili motivi in danno di C. G., per averlo attinto al capo con una mazzetta da muratore così provocandogli una ferita alla testa e un trauma cranico, in B., il 23 ottobre 2018, nonché indagato altri reati (quello di cui all’art. 4 legge n. 110 del 1975 e quello di cui all’art. 612, secondo comma, cod. pen.), aveva convalidato l’arresto e aveva contestualmente applicato a T. la misura della custodia cautelare in carcere.
In particolare, a ragione del provvedimento di convalida, il G.i.p. aveva ritenuto che – valutando la sussistenza delle condizioni legittimanti l’operato della polizia, con il controllo di ragionevolezza dello stato di flagranza e dell’ipotizzabilità del reato ricompreso fra quelli individuati dagli art. 380 e 381 cod. proc. pen. – sia sussistito nel caso di specie il riscontro di tali condizioni; in particolare, si riteneva riscontrata la flagranza di reato richiesta dell’art. 382 cod. proc. pen. così come non si era, più in generale, rilevato nessun eccesso nell’uso dei poteri discrezionali da parte degli operanti essendo l’arresto avvenuto nell’osservanza dei termini fissati dagli artt. 386 e 390 cod. proc. pen..
I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Avverso questo provvedimento proponeva ricorso per cassazione il difensore di T. chiedendone l’annullamento senza rinvio e sostenendo l’impugnazione con la formulazione di un unico motivo con cui lamentava violazione e falsa applicazione degli artt. 380, 382 e 391 cod. proc. pen..
In particolare, si faceva presente come l’assunto posto a fondamento del provvedimento impugnato circa la sussistenza della flagranza del reato oggetto di contestazione non fosse condivisibile essendo stata evidenziata l’esigenza di tener presente la situazione effettivamente determinatasi, come riportata dal verbale di arresto (allegato al ricorso), da cui veniva desunto che: a) quando i verbalizzanti, chiamati alle ore 10:50 del 23 ottobre 2018 per intervenire sul luogo del fatto per essere in corso un’aggressione, avevano trovato G. a cui si stava tamponando la ferita e le altre persone presenti, dai quali era stato appreso le modalità dell’aggressore, l’identità di quest’ultimo e l’indicazione degli strumenti da lui utilizzati mentre, dopo di che, essi avevano iniziato le ricerche, escutendo alle ore 11:20 A. T. che aveva confermato e precisato le modalità dell’aggressione; avevano ricevuto alle ore 12:20 T., spontaneamente presentatosi con il difensore; avevano preso atto, alle ore 13:56, dell’avvenuta dimissione della persona offesa con la prognosi di giorni sette per la guarigione dal diagnosticato trauma minore; poi, alle ore 14:00, avevano arrestato l’indagato.
In questo quadro, segnalava la difesa, il verbale di arresto non documentava nessuna percezione diretta da parte della polizia giudiziaria idonea a collegare il fatto a T. e, in mancanza di tale percezione diretta, non poteva per questa via configurarsi la flagranza giacché l’inseguimento intrapreso sulla base delle informazioni acquisite dai testimoni non risponde alla previsione dell’art. 382 cod. proc. pen..
Quanto all’altra ipotesi della quasi flagranza costituita dalla sorpresa dell’indiziato con cose o tracce dalle quali apparisse che egli aveva commesso il reato immediatamente prima, si osservava che, se è vero che per essa non occorre che la polizia giudiziaria abbia avuto diretta percezione della commissione del reato, sarebbe stato comunque necessario che essa avesse l’immediata percezione delle tracce del reato e del loro collegamento inequivocabile con l’indiziato mentre nemmeno per tale verso il verbale di arresto faceva emergere che T. era stato sorpreso con cose o tracce che inequivocabilmente lo collegassero all’aggressione dal momento che la chiave inglese e la mazzetta erano state repertate sul luogo del fatto e collegate all’indagato dalle dichiarazioni dei presenti fermo restando che T. si era, successivamente, presentato presso la Caserma dei Carabinieri.
La difesa, infine, sottolineava come T. non si fosse ripresentato sul posto per continuare l’azione aggressiva sicché la mancanza della sua desistenza rispetto al tentato omicidio era stata fondata dagli inquirenti, ancora una volta, sulle dichiarazioni dei presenti.
Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
Il Supremo Consesso, su conclusioni conformi della Procura generale presso la Corte di Cassazione, riteneva il ricorso proposto fondato.
Si osservava in via preliminare che, in sede di ricorso per cassazione contro il provvedimento di convalida dell’arresto, possono dedursi esclusivamente vizi di illegittimità con riferimento, in particolare, al titolo del reato, all’esistenza o meno della flagranza e all’osservanza dei termini, rimanendo escluse le questioni relative ai vizi di motivazione che attengono, in punto di fatto, al giudizio di merito inerente l’affermazione della responsabilità penale (Sez. 6, n. 21771 del 18/05/2016).
Premesso ciò, si faceva altresì presente che, per determinare l’ambito delle attività che, sulla base del disposto dell’art. 382 cod. pen., la polizia giudiziaria può compiere onde pervenire in modo legittimo all’arresto in flagranza di reato disciplinato dagli artt. 379 e ss. cod. proc. pen., occorresse muovere dal principio, affermato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui “è illegittimo l’arresto in flagranza operato dalla polizia giudiziaria sulla base delle informazioni fornite dalla vittima o da terzi nell’immediatezza del fatto, poiché, in tale ipotesi, non sussiste la condizione di ‘quasi flagranza’, la quale presuppone la immediata ed autonoma percezione, da parte di chi proceda all’arresto, delle tracce del reato e del loro collegamento inequivocabile con l’indiziato” (Sez. U, n. 39131 del 24/11/2015, dep. 2016; Sez. 1, n. 57952 del 03/07/2018; Sez. 4, n. 23162 del 13/04/2017).
Ciò posto, gli ermellini evidenziavano come il percorso logico-giuridico per arrivare a tale severo, ma ineludibile, approdo muovesse dalla riflessione che, se l’inseguimento ha inizio subito dopo il reato, necessariamente l’inseguitore deve percepire personalmente, in tutto o in parte, il comportamento criminale dell’agente nell’attualità della sua concreta estrinsecazione, essendo questa conoscenza che si pone in derivazione causale con l’inseguimento messo in essere per conseguire la cattura del fuggitivo, autore del reato e, per tale ragione, è stata esclusa la possibilità di avallare la tesi finalizzata a far rientrare nello stato di flagranza il caso in cui, dopo che si è perpetrato il reato ed è iniziata la fuga, la polizia giudiziaria, intervenuta sul luogo del fatto, si ponga sulle tracce del fuggitivo per effetto delle informazioni acquisite dai testi presenti sull’identità dell’autore e sulla direzione della fuga da lui intrapresa rilevandosi a tal proposito che la previsione normativa afferisce all’inseguimento in continenti – e non alla fuga – per avvincere il reo allo stato di flagranza, poiché essa così assicura il pregnante collegamento tra il reato e il suo autore.
Pertanto, alla stregua di ciò, se si ritiene – come il Collegio riteneva nella pronuncia qui in commento – che per considerare integrata la flagranza non possa accedersi a un concetto di inseguimento che ricomprenda nella sua accezione anche l’attività di acquisizione delle informazioni fornite dai soggetti presenti sul luogo del reato che ne riferiscano alla polizia giudiziaria, successivamente intervenuta, per ragguagliarla sull’accaduto, sull’autore del reato, le sue connotazioni e la via di fuga dallo stesso intrapresa, a maggior ragione non può reputarsi la persistenza dello stato di flagranza quando, dopo il reato, la polizia giudiziaria prima di iniziare l’inseguimento in senso proprio svolga attività investigative aventi l’obiettivo della sua identificazione; difatti, ad avviso della Corte, se è vero che il progresso tecnologico possa far ritenere in certa misura inadeguata rispetto alla realtà fenomenica la nozione di inseguimento nel senso letterale del correre dietro al fuggitivo, è altrettanto vero che permane, rispetto al chiaro disposto dell’art. 382 cod. pen., l’estraneità alla nozione di inseguimento la – qualitativamente diversa – ipotesi dell’attività di investigazione, pur se immediatamente messa in essere e continuata dalla polizia giudiziaria fino a identificare e poi rintracciare in modo celere e proficuo l’autore del reato, restando chiara la distinzione tra la previsione normativa dell’inseguimento e la categoria teorica e operativa dell’inseguimento definito investigativo: inseguimento investigativo che, quindi, si colloca al di fuori dell’interpretazione, conforme ai principi costituzionali, della disciplina dell’arresto fissata dall’art. 382 cit..
Orbene, chiarito ciò, gli ermellini evidenziavano come, nel caso di specie, il giudice della convalida avesse ritenuto sussistenti le condizioni legittimanti l’arresto in quanto aveva considerato che (diversamente dalle ipotesi citate dalla difesa a comparazione) si era avuto l’inseguimento dell’indagato sulla scorta, non soltanto delle indicazioni fornite dalla persona offesa e dagli altri testi oculari, ma anche e soprattutto della percezione diretta degli operanti delle conseguenze del delitto commesso poco prima dall’indagato e dell’acquisizione degli oggetti utilizzati per compiere il reato, ancora sui luoghi: in tal senso, il G.i.p., da un lato, aveva valorizzato il fatto che, all’arrivo degli operanti, la vittima, C. G., grondava ancora sangue dalla ferita riportata ed erano sul luogo sia la chiave inglese, sia la mazzetta da muratore utilizzate per l’aggressione, oggetti che erano stati sequestrati dalla polizia giudiziaria e che avevano costituito l’ancoraggio all’evidenza probatoria dell’inseguimento, dall’altro, aveva rinvenuto la flagranza del reato stante il fatto che T. aveva tentato due volte di aggredire e colpire G., e in quella fase era da temere un nuovo e imminente tentativo di aggressione da parte del suddetto soggetto sempre in danno della stessa vittima.
Pur tuttavia, si denotava che se la ricostruzione fattuale, già per come esposta dal G.i.p. e come più specificamente descritta dal verbale di arresto, assegnava un ruolo determinante all’individuazione di T. da parte della polizia giudiziaria – non certo in virtù della diretta percezione post factum, bensì – attraverso le susseguenti indagini e, in particolare, in virtù delle informazioni che gli operanti, ossia i Carabinieri della Stazione di B., avevano ricevuto dalle persone presenti sul posto in cui erano giunti quando erano stati chiamati da un testimone dell’aggressione, fosse del pari vero che la polizia giudiziaria aveva iniziato le indagini escutendo, in particolare, l’informatore e che ancora successivamente si era presentato in Caserma T. accompagnato dal suo difensore.
Tal che se ne faceva conseguire come non potesse dubitarsi del fatto che erano state le informazioni acquisite dagli esponenti della polizia giudiziaria a costituire l’elemento determinante per l’ulteriore prosieguo delle ricerche della persona di T. senza alcun diretto contatto percettivo fra inquirenti e dedotto autore del reato in relazione ai quale l’arresto era scattato.
Anche le cose ricollegabili alla commissione del reato a cui ha fatto riferimento il provvedimento di convalida, ossia gli strumenti di aggressione indicati nella chiave inglese e nella mazzetta, osservava la Corte nella pronuncia qui in commento, erano state riferite alla persona dell’indagato, non in virtù della percezione diretta della polizia giudiziaria, ma esclusivamente in virtù delle informazioni fornite dai soggetti dichiaratisi presenti al fatto mentre il requisito, previsto dall’art. 382, comma 1, cod. proc. pen., della sorpresa dell’indiziato con cose o tracce dalle quali appaia che egli abbia commesso il reato immediatamente prima, se non richiede che la polizia giudiziaria abbia diretta percezione dei fatti o che la sorpresa avvenga in modo non casuale, si correla pur sempre alla diretta e autonoma percezione da parte della polizia giudiziaria delle cose o tracce stesse e del loro collegamento inequivocabile con l’indiziato quali elementi idonei a far ritenere sussistente, con altissima probabilità, la responsabilità del medesimo nei limiti temporali determinati dalla commissione del reato immediatamente prima.
Da ciò se ne faceva discendere come non potesse ritenersi illegittimo l’arresto in flagranza operato dalla polizia giudiziaria sulla base degli elementi acquisiti anche su tale versante dalle informazioni fornite dalla vittima o da terzi nell’immediatezza del fatto in quanto la situazione tradizionalmente definita come quasi flagranza esige l’immediata e autonoma percezione, da parte di chi vi proceda all’arresto, delle tracce del reato e del loro collegamento inequivocabile con l’indiziato mentre tale presupposto non ricorreva nella vicenda in esame.
In ordine, infine, alla mancata desistenza a cui in qualche misura allude l’ordinanza, pure su tale versante l’impugnazione si profilava, ad avviso dei giudici di legittimità ordinaria, fondata atteso che se il provvedimento aveva inteso prospettare la persistente condotta criminosa tesa alla perpetrazione del reato di tentato omicidio, inerente all’aggressione della persona di G. da parte di T., occorreva però constatare, sempre secondo gli ermellini, la scarsa aderenza ai dati emergenti dal verbale di arresto di siffatta prospettazione dal momento che T. si era presentato in Caserma unitamente al proprio difensore prima di essere arrestato senza che siano stati riferiti suoi comportamenti aggressivi in quella fase e, quindi, l’indicato riferimento alla mancata desistenza pareva risolversi, a detta della Corte, in un escamotage dialettico senza concreti agganci nelle risultanze richiamate.
Il Supremo Consesso, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, concludeva rilevando che l’arresto era avvenuto nel caso di specie in virtù di attività di investigazione scissa dall’immediata e autonoma percezione da parte degli inquirenti degli elementi che avrebbero consentito di procedere all’arresto ai sensi dell’art. 382 cod. proc. pen. e, pertanto, l’ordinanza impugnata si profilava affetta dalla denunciata violazione di legge in quanto il G.i.p. aveva convalidato l’arresto senza che ricorresse contezza adeguata della flagranza nel senso complessivamente configurato dall’art. 382 cod. proc. pen. (comprensivo della situazione generalmente definita quasi flagranza) e, per questo motivo, veniva annullata senza rinvio.
Conclusioni
La sentenza in commento è assai interessante in quanto chiarisce come e in che termini possa configurarsi lo stato di flagranza che, come è noto, consente l’arresto di chi è colto nel commettere uno degli illeciti penali preveduti dagli articoli 380 e 381 c.p.p. ovvero chi, subito dopo aver commesso uno di tali reati, è inseguito dalla polizia giudiziaria, dalla persona offesa o da altre persone ovvero è sorpreso con cose o tracce dalle quali appaia che egli abbia commesso il reato immediatamente prima.
In particolare, in questa decisione, si afferma, sulla scorta di quanto già enunciato in precedenza dalla stessa Corte di Cassazione, che è illegittimo l’arresto in flagranza operato dalla polizia giudiziaria sulla base delle informazioni fornite dalla vittima o da terzi nell’immediatezza del fatto poiché, in tale ipotesi, non sussiste la condizione di ‘quasi flagranza’ la quale presuppone la immediata ed autonoma percezione, da parte di chi proceda all’arresto, delle tracce del reato e del loro collegamento inequivocabile con l’indiziato.
Va da sé dunque che, ove tale “immediata ed autonoma percezione delle tracce del reato e del loro collegamento inequivocabile con l’indiziato” non sussiste, non può applicarsi questa misura precautelare.
Inoltre, oltre ad affermare tale principio di diritto, gli ermellini chiariscono ulteriormente che, proprio alla luce di tale criterio ermeneutico, non può reputarsi la persistenza dello stato di flagranza quando, dopo il reato, la polizia giudiziaria, prima di iniziare l’inseguimento in senso proprio, svolga attività investigative aventi l’obiettivo della sua identificazione atteso che, ad avviso di quanto enunciato in tale sentenza, l’inseguimento investigativo si colloca al di fuori dell’interpretazione, conforme ai principi costituzionali, della disciplina dell’arresto fissata dall’art. 382 c.p.p..
Pertanto, secondo quanto affermato in siffatto provvedimento, il mero inseguimento investigativo non può consentire l’arresto in flagranza di reato.
Di conseguenza, alla luce di cotali importanti precisazioni, tale decisione non può non essere presa nella dovuta considerazione ove si debba valutare se l’arresto, disposto a norma dell’art. 382 c.p.p., sia legittimo o meno.
Il giudizio, in ordine a quanto statuito in questa pronuncia, dunque, non può che essere positivo.
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