L’art. 4 della legge n. 741/981 e i precedenti in giurisprudenza.
Sul tema della validità delle clausole derogatorie di quelle previste dalla legge in materia di ritardo nel pagamento dei corrispettivi dell’appalto di opere pubbliche, si sono registrate, negli ultimi due decenni, pronunce contrastanti.
Un primo orientamento aveva pacificamente riconosciuto la nullità dei patti contrari o in deroga alla disciplina degli interessi in questione, anche con riferimento a particolari modalità o termini dilatori per l’esercizio della pretesa, sottolineando, in particolare, la nullità della clausola contrattuale che lega la decorrenza degli interessi per il ritardato pagamento ad un momento, ritenuto incerto, quale quello dell’acquisizione della relativa provvista finanziaria (Cass. 3064/2013; Cass. 16814/2006, Cass. 13125/2004; Cass. 14974/2002, Cass. 15788/2000, Cass. 1196/1998).
Successivamente, ad una tesi diversa sono approdate più recenti pronunce (Cass. 21180/2018; Cass. 2508/2018, Cass. 974/2017; Cass. 26336/2016 e Cass. 22996/2014), che muovendo dal presupposto che le previsioni degli artt. 35 e 36 D.P.R. 1063/1962, richiamate dall’art. 4 L. 741/1981, avessero valore normativo e vincolante solo per gli appalti stipulati dal Ministero dei Lavori Pubblici, hanno ritenuto la validità della clausola, negoziata da un ente pubblico diverso dallo Stato, che subordina il pagamento del prezzo d’appalto all’acquisizione da parte della stazione appaltante della relativa risorsa finanziaria proveniente da altri enti; richiamando e valorizzando, a sostegno di tale tesi: a) il principio di specialità sulla disciplina del Capitolato generale; b) il rilievo che non si tratterebbe di rinuncia dell’appaltatore agli interessi, ma di un diverso dies a quo per il loro decorso e dunque di clausola che avrebbe la sola funzione di determinare il tempo dell’adempimento dell’obbligazione e, con esso, il momento in cui il credito dell’appaltatore diventi esigibile; c) la considerazione che non si tratti di una condizione meramente potestativa, rilevandone peraltro la piena funzionalità ad uno specifico interesse dedotto nel contratto.
Le pronunce più recenti della Suprema Corte hanno quindi finito per influenzare Tribunali e Corti di merito, anche in relazione a vicende contrattuali ricadenti nel campo di applicazione del TU 163/2006 che, evidentemente, in parte qua, dunque in relazione alla derogabilità dei termini di pagamento dei SAL e dello stato finale, è stato ritenuto sostanzialmente coincidente con quanto già previsto e disciplinato in precedenza.
La sentenza della Corte d’Appello di Napoli n. 808/2021.
La sentenza in commento ha appunto il pregio di fare corretta applicazione delle norme di legge vigenti nel tempo e di offrire una interpretazione delle norme che vengono in riferimento più corretta, oltre che certamente più coerente con il quadro normativo interno e comunitario.
La Corte partenopea ha infatti rilevato (contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale di Napoli nella sentenza che ha riformato) che, laddove il contratto di appalto ricada, ratione temporis, nel campo di applicazione temporale del D.L.vo n. 163/2006, elementi di interpretazione di ordine letterale e sistematico, devono indurre a ritenere la sussistenza della nullità delle clausole derogatorie, contrariamente a quanto pure si è affermato per i contratti sottoposti alla legge previgente n. 741/1981.
La Corte si sofferma in particolare sul contenuto dell’art. 133 comma 1 del TU 163/2006, nella parte in cui prevede che “In caso di ritardo nella emissione dei certificati di pagamento o dei titoli di spesa relativi agli acconti e alla rata di saldo rispetto alle condizioni e ai termini stabiliti dal contratto, che non devono comunque superare quelli fissati dal regolamento di cui all’articolo 5, spettano all’esecutore dei lavori gli interessi, legali e moratori, questi ultimi nella misura accertata annualmente con decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze…”.
Si sostiene nella decisione in commento, che il legislatore del D.L.vo 163/2006, nel prevedere che i termini di pagamento dei titoli di spesa relativi agli acconti ed alla rata di saldo stabiliti nel contratto “non devono comunque superare quelli fissati dal regolamento”, ha fissato la regola (già espressamente sancita dall’art. 4 della Legge n. 741/1981 attraverso il richiamo agli artt. 35 e 36 del Capitolato generale d’appalto di cui al d.P.R. 1063/1962, in relazione agli appalti stipulati dal Ministero dei Lavori Pubblici), dell’inderogabilità della suddetta normativa e, dunque, della non negoziabilità in pejus per l’appaltatore dei termini di pagamento previsti dal regolamento.
Sotto tale aspetto la scelta del legislatore del Testo Unico 163/2006 sarebbe chiarissima; poiché la previsione normativa, già sul piano letterale, denuncerebbe il suo carattere perentorio fatto evidente dall’uso del predicato “devono”, che “…sancisce, con la forza di un dato testuale non diversamente interpretabile, il divieto di patti peggiorativi in deroga, nel senso che la contrattazione può solo stabilire termini di pagamento inferiori rispetto a quelli previsti dal regolamento, come prescritto dall’art. 29, co. 2 seconda parte, d.m. 145/2000, restando, invece e per esplicita previsione normativa, non altrimenti derogabile (e cioè, in senso peggiorativo, con la fissazione di un tempo superiore) il termine di adempimento stabilito dal regolamento. In tale direzione, la previsione dell’art. 133 D.Lgs. 163/2006 va letta nel segno di una normativa inderogabile (in pejus) in tema di decorrenza degli interessi moratori, in linea con il principio affermato dalla giurisprudenza nella parte in cui ha chiarito che la disciplina dei termini di pagamento è posta a tutela dell’appaltatore, in quanto soggetto contrattualmente esposto agli adempimenti tardivi della pubblica amministrazione, chiarendo che la natura imperativa delle norme poste a tutela della posizione creditoria dell’appaltatore è finalizzata alla creazione di un sistema predeterminato ed automatico di quantificazione della maturazione temporale degli interessi moratori che non può essere modificato”.
Tale interpretazione – osserva ancora la Corte Partenopea – è quella che non si pone in contrasto con la Direttiva 2011/7/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 16 Febbraio 2011, relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, la quale, all’art. 4, co. 3 lett. a), prevede che “Gli Stati membri assicurano che nelle transazioni commerciali in cui il debitore è una pubblica amministrazione: a) il periodo di pagamento non superi uno dei termini seguenti: i) trenta giorni di calendario dal ricevimento da parte del debitore della fattura o di una richiesta equivalente di pagamento; ii) se non vi è certezza sulla data di ricevimento della fattura o della richiesta equivalente di pagamento, trenta giorni di calendario dalla data di ricevimento delle merci o di prestazione dei servizi; iii) se la data in cui il debitore riceve la fattura o la richiesta equivalente di pagamento è anteriore a quella del ricevimento delle merci o della prestazione dei servizi, trenta giorni di calendario dalla data di ricevimento delle merci o di prestazione dei servizi; iv) se la legge o il contratto prevedono una procedura di accettazione o di verifica diretta ad accertare la conformità delle merci o dei servizi al contratto e se il debitore riceve la fattura o la richiesta equivalente di pagamento anteriormente o alla stessa data dell’accettazione o della verifica, trenta giorni di calendario da quella data”; e che pertanto fornisce l’indicazione secondo cui l’adempimento deve essere legato a termini brevi e predeterminati.
Considerazione ulteriore che deve far propendere l’interpretazione del suindicato dato normativo (art. 133 D.L.vo n. 163/2006), nel senso di negare validità a clausole contrattuali che non rispettino tali canoni, poiché si tratterebbe di clausole nulle per illiceità della causa, in ragione della violazione di norme imperative, ex art. 1343 codice civile.
I precedenti della giurisprudenza amministrativa e contabile.
Del resto, sia pure in termini più generali, già il Consiglio di Stato, sez. V, con la sentenza n. 1728 del 21 marzo 2011 aveva evidenziato come l’individuazione delle modalità di pagamento o dei parametri per determinarli nel contesto della gara costituisce un elemento che il bando deve prendere in espressa considerazione in attuazione della normativa comunitaria; una sentenza che confermava una linea interpretativa consolidata (chiarita in termini di dettaglio dallo stesso Consiglio di Stato con la sentenza n. 469 del 2 febbraio 2010), per la quale negli appalti pubblici i termini di pagamento devono necessariamente essere quelli dalla legge previsti. Pagamenti che, anche secondo le indicazioni della magistratura contabile (Corte dei Conti, sez. reg. Puglia parere n. 120 del 28 ottobre 2010) andrebbero programmati sin dal momento dell’avvio della procedura di gara in corrispondenza con la prenotazione di impegno, rapportandoli al cronoprogramma di sviluppo dell’appalto.
Solo in tal modo, si è più volte osservato, può essere garantito il rispetto dell’art. 9 della legge n. 102/2009 ed i pagamenti possono essere ricondotti secondo una logica previsionale ai flussi di cassa limitati dalle regole del patto di stabilità interno. Le amministrazioni oltretutto, hanno il dovere di gestire le problematiche relative ai pagamenti negli appalti, considerando che gli interessi moratori e le eventuali spese per il recupero dei crediti da parte degli appaltatori non rientrano nelle tipologie di spese riconoscibili tra i debiti fuori bilancio, in quanto non fanno conseguire all’ente alcuna utilità o arricchimento.
I pareri dell’ANAC.
Sul punto, ancora, negli ultimi anni, si sono registrate precise ed autorevoli prese di posizione anche da parte dell’ANAC, che si è espressa in modo chiarissimo per la inderogabilità dei termini di pagamento e dunque per la irrinunciabilità ex ante degli interessi moratori da ritardato pagamento dei SAL e del saldo. Nel parere precontenzioso n. 50 del 21/03/2012 – PREC 288/11/L, l’Autorità, dopo avere precisato che le norme che garantiscano un tempestivo pagamento dei crediti dell’appaltatore nell’ambito di un affidamento di lavori pubblici, vanno rinvenute nell’art. 133 del D.lgs.163/2006 e nel Nuovo Regolamento di Attuazione del Codice dei Contratti Pubblici (DPR 207/2010 – artt. 142, 143 e 144), in cui sono confluite le disposizioni del Capitolato Generale delle Opere Pubbliche approvato con D.M. n.145 del 19 aprile 2000 (artt.29 e 30), ha deliberato e statuito che “…sebbene la normativa in tema di ritardato pagamento nei lavori pubblici appena richiamata appaia, evidentemente, meno favorevole all’appaltatore di quella sancita dal D.lgs.231/2002 per gli affidamenti di servizi e forniture, nondimeno, anche tali disposizioni, al pari di quelle dettate per gli appalti di servizi e forniture, non sono suscettibili di deroghe in danno dell’appaltatore; è prevista infatti la possibilità che i capitolati speciali e i singoli contratti stabiliscano solamente termini “inferiori” a quelli previsti dalle norme e pertanto più favorevoli al contraente privato (art.143, comma 3 del citato Regolamento). Non è dunque ravvisabile alcun margine per accordi derogatori peggiorativi della posizione dell’appaltatore, tanto meno una rinuncia integrale agli interessi per ritardo nei pagamenti”; nonché, con riferimento alla clausola che preveda una rinuncia integrale da parte dell’appaltatore agli interessi di mora, laddove il ritardo nel pagamento derivi da ritardi nella erogazione delle somme previste da parte degli enti finanziatori, che una tale previsione è da ritenersi senza dubbio vessatoria e gravemente iniqua, dal momento che espone l’appaltatore a rilevanti oneri finanziari e organizzativi e al rischio di insolvenza, determinando una palese sproporzione tra il vantaggio economico riconosciuto all’amministrazione e il sacrificio imposto ai creditori.
Sostiene ANAC che “…Se è legittimamente previsto che la Pubblica Amministrazione operi sulla base di principi e regole particolari nella fase di selezione del contraente privato, e ciò a tutela della concorrenza, della trasparenza della scelta e dell’efficienza della spesa, lo stesso non può affermarsi per quanto riguarda invece la fase dell’esecuzione e quella conclusiva del contratto, ovvero il momento del pagamento del corrispettivo pattuito. In tale fase infatti i rapporti tra amministrazione e contraente privato devono essere improntati ad una sostanziale par condicio con applicazione quindi di regole paritarie e di abbandono di quella posizione di supremazia riconosciuta in passato all’autorità pubblica in nome della prevalenza dell’interesse pubblico rispetto a quello privato. In conclusione, dunque, nonostante persista una diversa disciplina dei ritardati pagamenti per gli affidamenti di servizi e forniture da un lato e l’affidamento di lavori dall’altro, e nonostante le norme di maggior favore per l’appaltatore dettate nell’ambito degli appalti di servizi e forniture, è possibile affermare la illegittimità di una clausola che, in un appalto di lavori pubblici preveda la integrale rinuncia da parte dell’appaltatore agli interessi per ritardato pagamento, non potendo considerarsi idonea a giustificare una previsione così iniqua nei confronti del contraente privato la circostanza che il ritardato pagamento sia imputabile a fatti ricollegabili agli enti finanziatori dell’opera”, concludendo il richiamato parere con una chiara valutazione di illegittimità della clausola in base alla quale l’appaltatore si assoggetti ai rischi degli eventuali ritardi nei pagamenti dovuti a ritardi nella erogazione dei finanziamenti da parte degli enti competenti, rinunciando ad ogni richiesta di interessi per tali ritardi.
In conclusione.
La sentenza in commento non solo si pone perfettamente in linea con quanto sostenuto dalla magistratura amministrativa e contabile (e con i pareri dell’Autorità Nazionale Anti Corruzione), ma, a ben vedere, solo apparentemente contrasta l’orientamento più recente della Suprema Corte nella materia in questione (Cass. 21180/2018; Cass. 2508/2018, Cass. 974/2017; Cass. 26336/2016 e Cass. 22996/2014), riconnesso per lo più al dato normativo previgente e non anche alla norma di cui all’art. 133 D.L.vo 163/2006, che va iscritta, letta ed interpretata nel quadro interno e comunitario che, secondo la Corte Napoletana, sotto l’aspetto indagato, deve ritenersi radicalmente mutato.
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