Una delle questioni giuridiche maggiormente dibattute nell’ambito della convivenza “more uxorio”, riguarda la gestione dei rapporti patrimoniali tra i due conviventi e dei relativi mezzi di tutela a disposizione di entrambi in caso di controversia.
In particolare ci si domanda quali potrebbero essere le conseguenze, a seguito della cessazione del rapporto di convivenza, qualora, prima di tale momento, uno dei due conviventi abbia compiuto delle prestazioni patrimoniali in favore dell’altro soggetto, quali, ad esempio, l’esborso di denaro proprio per l’acquisto di beni mobili o immobili oppure al fine di ristrutturare un immobile, e voglia chiederne la restituzione.
Anzitutto, pare doveroso analizzare l’istituto giuridico della convivenza “more uxorio”.
Con il termine di convivenza “more uxorio” ci si riferisce generalmente ad una comunione di vita spirituale e materiale, seppur non fondata sul matrimonio. Tale forma di convivenza è espressione di una libera scelta dei singoli soggetti di non costituire alcun tipo di vincolo formale. Ad oggi la famiglia di fatto trova pieno riconoscimento a livello costituzionale nell’art. 2 Cost., posto che essa viene ritenuta una vera e propria formazione sociale meritevole di tutela, caratterizzata da una certa stabilità, certezza, reciprocità e corrispettività di diritti e doveri che solitamente nascono nell’ambito del rapporto matrimoniale.
Posto quanto sopra, è necessario precisare che la natura delle obbligazioni che nascono tra i due conviventi, ossia quando si verifica che uno dei due effettua una prestazione patrimoniale in favore dell’altro, è quella prevista dall’art. 2034 c.c., e dunque si tratta di obbligazioni c.d. naturali.
Dette obbligazioni non sono altro che l’adempimento a quei doveri di solidarietà ed assistenza reciproca di cui all’art. 2 Cost., caratterizzate da una dimensione prettamente morale, e non già l’adempimento ad un obbligo giuridico, come accadrebbe in presenza di un vincolo matrimoniale.
Ne consegue che il debitore non è tenuto ad eseguire la prestazione, però, se dovesse eseguirla non può chiederne la restituzione, in forza del principio della c.d. soluti retentio.
Vi devono essere tre presupposti affinchè sussista l’obbligazione naturale, quali la spontaneità dell’esecuzione, la capacità del soggetto che la esegue ed infine la proporzionalità tra la prestazione eseguita, i mezzi di cui l’adempiente dispone e l’interesse da soddisfare.
Rebus sic stantibus, se i due conviventi hanno tra loro eseguito delle prestazioni di carattere patrimoniale, non possono chiederne la restituzione di quanto dato o prestato.
Su questo punto è intervenuta di recente la giurisprudenza di legittimità, con la pronuncia della Corte di Cassazione n. 1277 datata 22/01/2014, per la quale eventuali contribuzioni effettuate da un convivente in favore dell’altro, vanno intese come adempimenti che la morale ritiene doverosi entro un rapporto affettivo consolidato che non può non determinare una forma di collaborazione e assistenza morale e materiale dell’altro.
Orbene, a tal proposito ci si domanda se esista un limite a tutto quanto sopra delineato, e, cioè, se l’obbligazione naturale comprenda tutte le dazioni di un convivente in favore dell’altro.
La giurisprudenza di merito e di legittimità ritiene in tale ipotesi che, il fatto se la prestazione eseguita da uno dei conviventi in favore dell’altro possa essere oggetto di restituzione, deve essere valutato caso per caso in termini di proporzionalità e con riferimento alla situazione economica o sociale del solvens (Cass. Civ. n. 1277, 22/01/2014).
In particolare, un cospicuo orientamento giurisprudenziale è fermo nel ritenere che il convivente che ha effettuato la prestazione e vuole richiederne la restituzione può farlo benissimo, esperendo l’azione c.d. di arricchimento ingiustificato, ex art. 2041 c.c.
Tale tipologia di azione ha come presupposto l’arricchimento di un soggetto a scapito dell’altro, senza che sussista una valida causa di giustificazione a tale spostamento di denaro.
I giudici di legittimità chiariscono che essa non può essere esercitata se l’arricchimento è stato conseguenza di un contratto, di un impoverimento remunerato, di una donazione o dell’adempimento di una obbligazione naturale quale contribuzione al mantenimento della vita familiare (spese per arredo, spesa quotidiana, pagamento di una singola rata di mutuo).
In tali ipotesi manca difatti l’ingiustizia della causa.
Al contrario l’azione di arricchimento ingiustificato può essere avviata da un convivente che ha effettuato delle prestazioni in favore dell’altro, prestazioni che devono essere necessariamente differenti dal semplice adempimento di obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza e che superino i limiti di adeguatezza e proporzionalità (Cass. Civ. n. 11330/2009; Cass. Civ. n. 18632/2015).
Chiarita dunque la modalità mediante la quale i conviventi possono far valere le loro ragioni nell’ambito della gestione delle controversie di natura patrimoniale, occorre soffermarsi sulla specifica ipotesi della tutela accordata ai due ex conviventi a causa di controversie che potrebbero sorgere a seguito della cessazione del loro rapporto.
La giurisprudenza di legittimità si è espressa a tal proposito con riferimento all’acquisto di un bene immobile da parte di un convivente con denaro proprio. La Suprema Corte ha riconosciuto il diritto di costui a riottenere le somme versate per detto acquisto, una volta cessata la convivenza (Cass. Civ. n. 18632/2015).
Si è poi riconosciuto il diritto al convivente, che ha versato del capitale in favore dell’altro convivente per la ristrutturazione di un immobile, di intentare azione ex art. 2041 c.c.
Gli esborsi effettuati non rappresentano, difatti, adempimento ai doveri di assistenza posto che si tratta di opere che sono volte a migliorare il valore di un bene di proprietà e non sono strumentali alle concrete esigenze della coppia. E’ quanto hanno statuito i giudici del Tribunale di Treviso, con la sentenza n. 258/2015.
Quanto infine all’acquisto di beni mobili da parte di uno soltanto dei conviventi, è determinante la sentenza della Corte di Cassazione datata 30.11.2011, n. 25554, la quale, oltre a ribadire i concetti sopra delineati, riconosce la proponibilità, da parte del convivente che ha versato delle somme per l’acquisto di detti beni, dell’azione di arricchimento ingiustificato.
Detto riconoscimento presume che l’altro convivente abbia goduto, senza alcun titolo, del possesso di detti beni, rimasti in proprietà del coniuge che li ha acquistati, posto che il rapporto di convivenza non è mai iniziato.
Alla luce di tutto quanto sopra detto, appare evidente che, nell’ambito della convivenza more uxorio, l’azione di arricchimento senza giusta causa può certo essere intentata dal convivente che ha effettuato prestazioni in favore dell’altro, purché dette prestazioni non consistano nel semplice adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza e, dunque, non siano volte a soddisfare esigenze familiari concrete, ed inoltre superino i limiti di proporzionalità e di adeguatezza.
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