Una annosa e controversa questione giurisprudenziale riguarda la possibilità di punire o meno la condotta di “coltivazione” domestica di sostanza stupefacente ad uso esclusivamente personale.
Anzitutto, per comprendere meglio ciò che si sta trattando, è opportuno illustrare la normativa di riferimento, attualmente vigente, quale il D.P.R. 9 Ottobre 1990 n. 309, ed, in particolare, gli artt. 73 e 75, entrambi rubricati “Produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope”.
Il I comma dell’art. 73 prevede che la condotta di coltivazione, produzione, fabbricazione, estrazione, raffinazione, vendita, offerta, cessione, distribuzione, commercio, trasporto e consegna di sostanze stupefacenti o psicotrope, di cui alla tabella I prevista dall’art. 14, è punita con la reclusione da 6 a 20 anni e con la multa da euro 26.000,00 a euro 260.000,00.
Al comma I bis, lo stesso articolo dispone poi che chiunque importa, esporta, acquista, riceve a qualsiasi titolo o comunque detiene illecitamente e per un utilizzo, non esclusivamente personale, sostanze stupefacenti, soggiace alle medesime pene.
Al contrario, l’art. 75, I comma, dispone che chiunque importa, esporta, acquista, riceve a qualsiasi titolo o comunque detiene le sostanze dette, al di fuori delle ipotesi previste dall’art. 73 comma I bis, e, dunque, per un uso di tipo personale, è soggetto esclusivamente a sanzioni di natura amministrativa.
Orbene, la suddetta normativa, fu modificata dalla legge n. 49/2006, nota come “Legge Fini-Giovanardi”, in conversione del Decreto Legge 30 dicembre 2005, n. 272.
Essa equiparava le droghe pesanti a quelle leggere introducendo come spartiacque fra la detenzione e spaccio la dose massima consentita, un quid di illecito oltre il quale per la legge si diventava automaticamente dei “pusher”, anche se semplici consumatori.
La stessa legge prevedeva altresì un inasprimento delle condanne introducendo una pena massima fino a 20 anni anche per il solo possesso di hashish e marijuana.
A questo punto non si può non menzionare la sentenza della Corte Costituzionale del 12 Febbraio 2014, con la quale si è dichiarata la illegittimità costituzionale della normativa sugli stupefacenti in vigore dal 2006 al 2013.
Con detta ‘pronuncia si torna dunque al vecchio provvedimento in vigore fino al 27 febbraio 2006, ovvero il D.P.R. n. 309/1990 su citato, il quale provvede a distinguere tra droghe leggere a droghe pesanti ed è più severo per i reati che coinvolgono droghe pesanti e più lieve per i reati che coinvolgono droghe leggere, posto che la pena minima è di 2 anni di reclusione.
In definitiva il quadro attuale, in tema di normativa sugli stupefacenti, così come definito dal D.P.R. n. 309/1990, prevede la irrilevanza penale dell’uso personale delle sostanze stupefacenti, senza alcun riferimento al quantitativo detenuto e, d’altro canto, l’illiceità penale delle diverse condotte descritte dall’art. 73, I comma, se diverse dall’uso personale.
Da quanto sopra emerge pertanto che la nozione di “uso personale” non viene intaccata dall’abrogazione della normativa del 2006. Difatti rimane penalmente irrilevante la detenzione di sostanza ad uso personale, a prescindere dal quantitativo di sostanza detenuta.
Per quanto concerne la nozione di “coltivazione” la sentenza della Corte Costituzionale di cui sopra non incide neppure sulla illiceità della coltivazione che, in linea di massima, rimane un reato.
Chiarito quanto sopra, occorre riprendere la problematica giuridica in oggetto, vale a dire, se, ad oggi, poste le modifiche in ambito legislativo che ha subito la normativa sugli stupefacenti, risulti penalmente rilevante, e, dunque, punibile, la condotta di coltivazione ad uso personale di sostanze stupefacenti.
A tal proposito è opportuno rilevare come, a seguito dell’incertezza derivante dalla situazione legislativa prodotta dalla bocciatura della normativa del 2006, sia la giurisprudenza di merito che di legittimità, hanno assunto varie e differenti posizioni interpretative in merito alla rilevanza penale della condotta di “coltivazione ad uso personale” di sostanze stupefacenti.
Le Sezioni Unite sono intervenute nel 2008 a dirimere detto contrasto (sent. n. 28605/2008).
Per comprendere meglio la questione, bisogna capire come si devono interpretare gli artt. 73 e 75 del D.P.R. n. 309/1990.
Si è osservato che, se l’art. 73, al I comma, punisce penalmente la condotta di “coltivazione” di sostanze stupefacenti, l’art. 75 prevede la sanzione amministrativa per colui che detiene ad uso personale dette sostanze, non menzionando tra le condotte punibili con sanzione amministrativa quella di “coltivazione”. Ne consegue che la condotta di “coltivazione” di sostanze stupefacenti rimane un reato penalmente rilevante, a prescindere dal tipo di utilizzo che se ne possa fare (uso personale o spaccio) del prodotto ricavato.
Proprio su tale interpretazione poggia l’orientamento prevalente della giurisprudenza di legittimità per la quale costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali siano estraibili sostanze stupefacenti, anche qualora essa sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale.
Si rileva altresì che la condotta in oggetto è da ritenersi “offensiva” in rapporto all’idoneità a produrre le sostanze volte al consumo, non rilevando la quantità del principio attivo, ma unicamente la attitudine della pianta a giungere a maturazione per la produzione di sostanza stupefacente (Sezioni Unite n. 22459/2013; n. 675/2014; n. 44136/2015; 2618/2016).
Contrariamente a detto orientamento, sussiste la corrente giurisprudenziale volta a dichiarare la non punibilità delle piccole coltivazioni di piantagioni a scopo personale e, dunque, ancorando la rilevanza penale della condotta alle dimensioni della piantagione. In particolare, dovrà essere il giudice a valutare se la condotta sia tale da essere dichiarata inoffensiva e dunque se vi sia un utilizzo esclusivamente personale delle sostanze psicotrope e una minima entità della coltivazione, tale da escludere la possibile diffusione sul territorio delle dette sostanze.
Ad oggi tuttavia prevale il primo orientamento giurisprudenziale, che è anche quello maggioritario. A sostegno di ciò si pone una sentenza determinante emessa in data 9 Marzo 2016 dalla Corte Costituzionale, la quale ha rigettato e dichiarato infondata la questione di illegittimità costituzionale sollevata dalla Corte d’Appello di Brescia in merito ad una corretta interpretazione dell’art. 75 del D.P.R. n. 309/1990 sul trattamento sanzionatorio della coltivazione di piante di cannabis per uso personale.
Le motivazioni che i giudici della Corte d’Appello di Brescia adducono a sostegno della loro tesi riguardano la disposizione dell’art. 75 cit. nella parte in cui esclude, tra le condotte suscettibili di sola sanzione amministrativa, qualora finalizzate al solo uso personale della sostanza stupefacente, la coltivazione delle piante di marijuana.
I giudici bresciani lamentano il trattamento non equo che pone la detta disposizione in merito a chi possiede la marijuana per uso personale e colui che la coltiva per il medesimo motivo.
La Corte Costituzionale, rigettando la questione, ha ribadito, affidandosi all’orientamento prevalente sul tema, che la coltivazione di cannabis, anche soltanto per uso personale, rimane un reato sanzionabile.
A fronte di tutto quanto sopra delineato possiamo concludere con alcune riflessioni sul punto.
In forza delle recentissime motivazioni addotte dalla Corte Costituzionale e dall’orientamento giurisprudenziale prevalente, si vede come la tendenza attuale sia quella di considerare la coltivazione di cannabis, anche per uso personale, come un reato punibile e non già come una condotta punita con sanzione amministrativa.
La condotta in oggetto, difatti, si presenta quale disvalore più accentuato rispetto alla mera detenzione di droga posto che essa integra un comportamento volto ad accrescere la quantità di stupefacenti presenti su tutto il territorio nazionale.
La normativa attuale ha quale obiettivo quello di diversificare, sul piano del trattamento sanzionatorio, la posizione del consumatore da quella del produttore o trafficante. Per tale motivo si vuole evitare che la condotta in questione possa tradursi in un fattore che agevoli la diffusione della droga, a tutela della sicurezza e dell’ordine pubblico.
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