Integrano il reato di violenza privata le avances del capo alle sue dipendenti, abusando del ruolo di superiore gerarchico e configurandosi nell’art. 610 c.p.. Nella fattispecie la vittima è costretta a subire ingiuste vessazioni, che inducono non solo sofferenza e malessere ma anche concreti pregiudizi alla sua serenità sul lavoro e alle sue aspirazioni di carriera
Così ha spiegato la Cassazione, sez. pen. sentenza n. 9225/2010, il caso di un Direttore dell’ASL che aveva inflitto sanzioni in caso di rifiuto delle donne.
La difesa dell’accusato ha spiegato agli Ermellini che non c’era alcun collegamento tra i comportamenti persecutori e lo stato di “soggezione” delle dipendenti, dal momento che «persecuzioni e minacce non precedevano le richieste di disponibilità sessuale ma seguivano i rifiuti in guisa di reazione sanzionatoria». Ma i Supremi Giudici sono stati di diversa opinione: «si trattava – hanno esplicitato nella sentenza- di un sistematico atteggiamento, protratto nel tempo per durata significativa, costituito da richieste indecenti, lusinghe e minacce, di modo che il solo costringere le vittime a patirne l’impatto costituiva di per sé violenza». Era la stessa natura rovinata e travisata del rapporto di lavoro a costituire violenza privata.
Art. 610 Violenza privata
“Chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa e’ punito con la reclusione fino a quattro anni. La pena e’ aumentata se concorrono le condizioni prevedute dall’articolo 339”.
.Nella casistica ricordiamo:
1) “Integra il reato di molestie, la condotta di continuo ed insistente corteggiamento, che risulti non gradito alla persona destinataria, in quanto tale comportamento è oggettivamente caratterizzato da petulanza.” Cassazione penale, sezione I, sentenza18 maggio 2007, n. 19438;
2) “La pluralità di azioni di disturbo costituisce elemento costitutivo del reato di cui all’art. 660 c.p. e non può, quindi, essere riconducibile all’ipotesi di reato continuato”. Cassazione penale, sezione I, sentenza 24 marzo 2004, n. 14512
I reati più comuni che, uniti con l’art. 612 bis c.p., comportano la procedibilità d’ufficio sono:
Molestia o disturbo alle persone (art. 660 c.p.).
Ricevere in maniera petulante telefonate e messaggi telefonici.
Violenza privata (art. 610 c.p.).
Essere costretti a fare, tollerare od omettere qualche cosa.
E’ ravvisabile nell’azione dello stalker che per es.: impedisce alla vittima di uscire od entrare in garage ostacolando la manovra con la sua autovettura, oppure il caso in cui importuna la vittima costringendola a fermarsi mentre sta camminando per strada.
Minaccia (art. 612/2° c.p.).
E’ il caso delle minacce perpetrate in forma grave previste dall’art. 612/2° c.p., quindi minacce di morte oppure mediante l’utilizzo di armi, da persona travisata, tramite lettera anonima, tramite simboli, da più persone riunite o avvalendosi dell’intimidazione derivante da associazioni segrete, esistenti o virtuali.
Danneggiamento (art. 635/2° n°1 e n° 3).
Nell’ipotesi del danneggiamento realizzato con violenza alla persona o con minaccia (n° 1), oppure su cose lasciate alla “pubblica fede” (n° 3), come il danneggiamento dell’autovettura o ciclomotore parcheggiato lungo la strada pubblica.
In ausilio è possibile reperire il modulo di richiesta di ammonimento da presentare in Questura sul sito della Pubblica Sicurezza.
Dottoressa in Scienze dell’educazione
Consulente dell’educazione familiare
Mediatrice Familiare
“Corte di Cassazione Sez. Quinta – Sent. del 08.03.2010, n. 9225
Osserva
1. – C. ***, già direttore ***, tratto al giudizio del Tribunale di Roma per rispondere, per quanto qui interessa, dei reati di violenza privata in danno della dott. C. ***, e dell’*** *** I. ***, secondo l’ipotesi di accusa da lui insistentemente importunate con molestie sessuali, veniva assolto del reato in danno della dottoressa C. con la formula “perché il fatto non sussiste”; in relazione agli altri capi di imputazione il primo giudice, retrodatata la consumazione dei reati, ne dichiarava la prescrizione.
Su appello del Pubblico Ministero ed, ai sensi dell’art. 576 cpp ai soli effetti civili delle parti civili C. e R. , la Corte di Appello di Roma con sentenza del 25 febbraio 2009, in riforma della sentenza di primo grado, derubricato il reato di violenza privata in danno della dottoressa C. *** in quello di tentativo, dichiarava la prescrizione dei reati, condannando il C. al risarcimento del danno in favore delle parti civili costituite.
Al C. era contestato di aver usato pressioni e minacce sulla dott. C. , sulla tecnica di *** R. *** e sull’*** *** I. per indurle a concedergli favori sessuali; la corte territoriale aveva ritenuto la fondatezza dell’ipotesi di accusa quanto alla C. limitatamente al tentativo, sulla base delle dichiarazioni delle parti lese e di deposizioni testimoniali rese da colleghi di lavoro delle predette, nonché dalla dott. B., uno degli ispettori incaricati di apposita indagine conoscitiva dal ***.
Avverso detta sentenza propone ricorso il C. deducendo difetto di motivazione, per non avere la corte territoriale dato a suo avviso conto delle ragioni che l’avevano indotta a ritenere sussistente il nesso di causalità tra i comportamenti persecutori, secondo l’ipotesi di accusa da lui posti in essere in danno delle parti civili, e lo stato di soggezione delle vittime, dovendo considerarsi che la stessa C. aveva dichiarato che persecuzioni e minacce non precedevano le richieste di disponibilità sessuale, ma seguivano i suoi rifiuti in guisa di reazione sanzionatoria.
Deduce inoltre carenza di motivazione in ordine alla qualificazione della condotta posta in essere nei confronti della dott. C. come tentativo di violenza, atteso che la sentenza impugnata non spiegherebbe in modo alcuno quali comportamenti minacciosi sarebbero qualificabili alla stregua di atti idonei diretti in modo non equivoco a coartare la volontà della vittima.
2. – Il ricorso è inammissibile in quanto sostanzialmente propone il riesame del merito, che in questa sede di legittimità è precluso se, come nel caso di specie, la sentenza impugnata abbia dato conto delle ragioni della decisione con argomentazione ragionevole e condivisibile, comunque immune da vizi logici e contraddizioni.
Infatti la corte territoriale ha ben illustrato le circostanze di fatto della vicenda, desunte dalle dichiarazioni delle parti lese e dall’ampio testimoniale, giungendo alla condivisibile conclusione che le insistenti richieste di prestazioni sessuali, rivolte con la protervia e l’arroganza che l’abuso del ruolo di superiore gerarchico della vittime consentiva, ed i comportamenti vessatori che facevano seguito in guisa di sanzione dei rifiuti, integravano ampiamente la fattispecie di violenza privata -tentata quella consumata nei confronti della dottoressa C. -, in quanto costringevano le vittime quantomeno a patire ingiuste e mortificanti vessazioni, inducendo in loro non solo sofferenza e malessere, ma anche concreti pregiudizi della loro serenità sul lavoro e delle loro legittime aspirazioni a progressioni in carriera, lasciate intravedere solo in guisa di ricompensa di disponibilità, manifestata almeno sotto forma dell’intrigante offerta del proprio corpo allo sguardo mercé l’ausilio di abbigliamento acconcio.
In punto di diritto, la corte territoriale ha dato ampia motivazione del perché non fosse condivisibile la discutibile e riduttiva lettura dei fatti che aveva fatto il Tribunale opinando, contro l’evidenza dei dati probatori acquisiti che la condotta posta in essere dal C. integrasse al più sporadici episodi di molestie penalmente irrilevanti, trascurando di considerare che si trattava di un sistematico atteggiamento, protratto nel tempo, per durata significativa, costituito di richieste indecenti, lusinghe e minacce, di modo che il solo costringere le vittime a patirne l’impatto costituiva di per sé violenza, mentre non aveva riscontro nei fatti la capziosa tesi del Tribunale, secondo il quale siccome reprimende, contestazioni e minacce di sanzioni disciplinari erano successive ai rifiuti, non potevano essere qualificate come violenze finalizzate al conseguimento di un risultato che era stato già negato; basti considerare che, come ha esattamente rilevato la corte territoriale, era la stessa caratterizzazione deteriore del rapporto di lavoro che costituiva violenza, e non aveva senso parcellizzare ogni episodio svalutando cosi il contesto, che amplificava la violenza, rendendola penosa ed inaccettabile.
Va pertanto dichiarata l’inammissibilità del ricorso, cui consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1.500,00 in favore della Cassa delle Ammende, nonché alla rifusione delle spese di costituzione e difesa delle parti civili, che si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1.500,00 in favore della Cassa delle Ammende, nonché alla rifusione delle spese delle parti civili, che liquida in euro 2.000,00, oltre accessori come per legge, per ciascuna delle stesse parti.
Depositata in Cancelleria il 08.03.2010”
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