Eccezione revocatoria contro il decreto di esecutività dello stato passivo

  1. Il presente lavoro è un approfondimento dedicato alla revocatoria fallimentare, quando essa sia esercitata in sede di accertamento dello stato passivo. In questa sede, atteso che la vastità del tema impedirà una trattazione a tutto tondo dell’istituto, ci si soffermerà sulla sorte dell’eccezione di revocabilità del titolo o della prelazione, qualora venga proposto uno strumento di gravame avverso il decreto di esecutività dello stato passivo. Valutando la possibilità di applicare le norme previste per il giudizio di appello, in via generale, dal codice di rito anche ai predetti gravami, si presterà particolare attenzione alle eventuali implicazioni sull’onere di riproposizione ex 346 c.p.c.

Valga innanzitutto la seguente premessa. Dalla diversa posizione che si voglia assumere circa la natura dell’eccezione revocatoria, derivano differenti implicazioni processuali sui mezzi (e quindi sui giudizi) di impugnazione ammessi contro il decreto di esecutività dello stato passivo. Ciò posto, non pare comunque risolta la ben più variegata casistica che riguarda le vicende processuali tipiche dei mezzi di impugnazione esperibili contro il decreto del giudice, che si cercherà di analizzare e di ricondurre alle norme applicabili, quando queste siano considerate in riferimento all’eccezione revocatoria.

 

  1. In linea con l’interpretazione pressoché univoca che consentiva, nel disposto (e nel complessivo impianto) normativo pre riforma, la rilevabilità d’ufficio dell’inefficacia del titolo o della prelazione, era anche pacifico che nella eventuale opposizione a stato passivo ([1]) proposta dal creditore non ammesso (o ammesso solo in parte) a concorrere ([2]), il giudice potesse escludere, sulla base di cause ostative all’accoglimento della pretesa rilevate di propria iniziativa, il credito dal passivo fallimentare. Trattandosi di una eccezione c.d. in senso lato, egli avrebbe infatti avuto la possibilità di rilevarla in qualsiasi stato e grado del procedimento.

Posto che nella legge fallimentare non si rinviene una lex specialis ([3]) disciplinante in modo organico e completo i mezzi di impugnazione ([4]) esperibili avverso il decreto di esecutività dello stato passivo, come invece avviene per i gravami previsti nel processo civile ordinario, resterebbero comunque applicabili in via residuale le norme previste dal codice di rito ([5]).

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Di qui, le seguenti implicazioni: ante riforma, poteva verificarsi che il giudice accogliesse eccezioni, diverse da quella di revocabilità dell’atto, cumulativamente proposte del curatore rispetto a quest’ultima censura; oppure che rilevasse (anche autonomamente) per la prima volta in questa sede, il vizio di revocabilità.

Quid iuris, dunque? In entrambi i casi, il giudice avrebbe potuto far valere i propri poteri di rilevazione, in assenza di una previa pronuncia nel decreto di esecutività sullo specifico punto ([6]), basandosi unicamente sulle allegazioni ([7]) degli elementi di fatto e di diritto fornite dalle parti (rectius, dalla curatela). E comunque, in ambedue le ipotesi, il decreto di esecutorietà non avrebbe esplicitamente recato una pronuncia in tema di eccezione revocatoria.

  1. Al di là del caso, pur particolare, del difetto di giurisdizione ([8]), è pressoché univoco ([9]), col limite della cd preventiva trattazione, che le eccezioni in senso lato siano rilevabili d’ufficio, in qualsiasi stato e grado del procedimento ([10]). Gli istituti processuali tradizionali facevano dunque ritenere che la curatela – stante la non piena acutezza dal punto di vista strategico – ben avrebbe potuto assumere un atteggiamento di inerzia, meramente affidandosi ([11]) alla rilevazione dell’eccezione operata dell’organo giudicante.

Si esamina ora altra questione, legata però da un nesso inscindibile a quanto appena visto.

Nonostante la casistica in merito non permetta di usufruire di opportuni riscontri pratici, riferimento meritevole di arresto è, per l’incidenza della sua portata, quello circa l’integrazione della norma di cui all’art. 98 l. fall. con la previsione, contenuta all’interno del codice di rito, dell’art. 346 c.p.c. ([12]). Altra – rispetto a quanto esaminato finora – era infatti l’ipotesi in cui il decreto di esecutività avesse ritenuto assorbita ([13]), nel giudizio di gravame aperto su istanza del creditore, la questione di revocabilità del titolo ([14]). Qui, il curatore avrebbe avuto lo specifico onere di riproporre ([15]) le eccezioni non accolte ([16]), ex art. 346 c.p.c. Inoltre, nel caso in cui la curatela non si fosse tempestivamente adoperata per assolvere a tale incombenza, queste sarebbero state intese come rinunciate ([17]).

Così, ugualmente era da ritenersi quando l’eccezione revocatoria fosse stata rigettata, ma il credito comunque escluso in virtù di altro genere di censure opposte dalla curatela. È infatti da precisarsi che, pur rimanendo – quella della effettiva portata dell’art. 346 c.p.c. – una delle questioni maggiormente dibattute e sulle quali la lettura del disposto solo in minima parte potrebbe giovare all’interprete, la prassi sembra giunta al punto fermo di considerare quali eccezioni ([18]) non accolte sia quelle (effettivamente) rigettate, sia quelle ritualmente assorbite. Peraltro, siffatta ricostruzione subiva, al riscontro pratico, una limitata incidenza: la portata dell’art. 346 c.p.c. risultava comunque di ridotto discrimine, vista la più volte ricordata ampiezza delle prerogative ufficiose.

  1. Va però fatto un rilievo, che completa la disamina sul punto: in queste ipotesi, non vi era però la garanzia (codificata) dell’art. 101, co. 2, c.p.c. ([19]): oggi il giudice, qualora ritenga di porre a fondamento della decisione una questione rilevabile d’ufficio, è comunque tenuto a suscitare il contraddittorio tra le parti ([20]). Invece, in precedenza alle organiche riforme delle norme fallimentari degli anni 2006/2007, non era immaginabile – se non per un’ipotetica espressa deroga del legislatore al generale principio della non retroattività delle leggi – l’operatività di questa disposizione, la quale decorre ([21]) dal luglio 2009 e che, peraltro, si applica ([22]) ai giudizi instaurati dopo la data della sua entrata in vigore.

Ex adverso, l’intervento legislativo alla legge fallimentare onera in via esclusiva il curatore delle opportune verifiche circa la fondatezza (e la opponibilità al fallimento) del credito di cui si domanda l’ammissione; il giudice è invece, per così dire, relegato a guardiano della legittimità delle singole fasi che scandiscono la procedura. Configurata così come eccezione di parte, la revocabilità dell’atto non potrà essere per la prima volta rilevata d’ufficio nei giudizi di gravame che siano proposti contro il decreto di esecutività.

Resterebbe comunque ferma l’applicabilità dell’art. 346 c.p.c.: qualora la revocatoria incidentale sia stata tempestivamente proposta dal curatore ma, con il decreto di esecutività, assorbita da un’altra eccezione, nel giudizio di opposizione allo stato passivo – sorto per iniziativa processuale del creditore soccombente (anche solo parzialmente) – non verrebbe meno l’onere di riproposizione della medesima eccezione. Così, anche nel caso in cui questa fosse stata rigettata, ma il credito comunque non ammesso.

Al netto, per quanto concerne questo specifico aspetto, si riscontra una lettura contraria rispetto a quanto configurabile in precedenza: contestualmente con l’introduzione dei connotati tipici del principio dispositivo e di una nuova disponibilità che le parti hanno dei propri interessi, l’art. 346 c.p.c. assume nuova linfa.

  1. In conclusione: nonostante nella disciplina processuale civile la previsione de qua sia volta ad alleggerire l’onere a carico della parte di far valere elementi ostativi alla pretesa avversaria, nel giudizio di opposizione allo stato passivo – così come attualmente strutturato – rischia, per l’inerzia della curatela e per l’impossibilità di provvedere del giudice, l’ammissione al passivo di un credito (sulla carta, potenzialmente) revocabile.

Rispetto alla ricostruzione appena fornita, la prassi – non sempre virtuosa – assumeva invece (prima della codifica del nuovo art. 95 l. fall.) un atteggiamento diverso: ogni qual volta l’atto fondante il credito di cui veniva richiesta l’insinuazione fosse ritenuto assoggettabile a revocatoria ordinaria o fallimentare, il curatore si limitava a non ammettere il credito. Per quanto fin qui visto e analizzato, nel giudizio di opposizione allo stato passivo il curatore non avrebbe avuto l’onere di proporre l’azione revocatoria in via riconvenzionale, né aveva bisogno di una espressa autorizzazione ([23]) a stare in giudizio. Egli, resistendo all’opposizione del creditore escluso, si limitava a confermare e difendere la precedente contestazione, in sede di verifica dello stato passivo riconosciuta fondata dal giudice delegato ([24]). Questo orientamento risultava prassi consolidata nel procedimento di formazione del passivo fallimentare, avvallato e rafforzato da varie pronunce ([25]), prima del giudice di legittimità, e poi di quelli di merito, peraltro il linea con una ricostruzione pratica della norma aderente al dettato normativo. Così se il giudice, ravvisandone i presupposti, avesse rigettato la domanda, sarebbe spettato al creditore escluso l’onere di opposizione; la curatela avrebbe poi – solo in questa sede – potuto esercitare in via riconvenzionale l’azione revocatoria ([26]). Ciò non pare comunque contrastare con la correttezza della tesi suesposta, in quanto ciò che si è sinora detto è espressione di una ipotetica ed ortodossa ricostruzione del rapporto tra norme fallimentari e lex generalis processuale civile.

  1. Le valutazioni fatte circa la fase di accertamento dello stato passivo devono sempre essere orientate anche alle esigenze di celerità – comunque riverbero del principio della ragionevole durata del processo – che permeano le più recenti riforme e, più in generale, anche le norme costituzionali dell’ordinamento. Quest’ultimo excursus rappresentava dunque un tentativo in questo senso, peraltro con il risparmio di risorse istruttorie e processuali e senza alcun grosso scostamento dalle previsioni normative in vigore prima della riforma.

Tutto ciò considerato, chi scrive ritiene che l’espressa previsione, nell’art. 95 l. fall., di un onere, gravante sulla curatela, di proporre la revocatoria incidentale nel progetto di stato passivo sia volto ad arginare la prassi precedente: nel caso in cui, comunque, questa non sia orientata ad accogliere quanto dalla legge previsto, ciò, pur forzatamente, sembra bilanciare esigenze di celerità processuale. Per questo, sembra quindi in definitiva corretto distinguere le due ipotesi ricostruttive e valutare i fondamenti sistematici che rendano, entrambe, praticabili; non pare consono invece di esprimere un giudizio in merito alla assoluta correttezza dell’una o dell’altra.

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([1]) Sul tema, si veda l’acuto apporto di L. BACCAGLINI, Considerazioni in tema di opposizione allo stato passivo e termine per impugnare, in Il fall., 2014, p. 681 ss.; M. MONTANARI, Le impugnazioni dello stato passivo, in A. JORIO – M. FABIANI (diretto da), Il nuovo diritto fallimentare. Novità ed esperienze a cinque anni della riforma, p. 411; G. CANALE, La formazione dello stato passivo, in S. AMBROSINI (a cura di), La riforma della legge fallimentare. Profili della nuova disciplina, p. 200 ss.; F. LAMANNA, Il nuovo procedimento di accertamento del passivo, p. 744; G. CAVALLI, in S. AMBROSINI – G. CAVALLI – A. JORIO, Il fallimento, in Trattato di diritto commerciale, XI, p. 599 ss.

([2]) Il cui onere, come ribadito da A. BONSIGNORI, Il fallimento, in F. GALGANO (diretto da), Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, cit., p. 474, discende direttamente dall’art. 98 l. fall.

([3]) Il problema dell’applicabilità delle norme della disciplina generale (e, anche, delle norme in tema di appello) delle impugnazioni prevista dal codice di procedura civile persiste tuttora, con soluzioni peraltro contrastanti. Cfr. C. TRENTINI, L’opposizione allo stato passivo, sua natura impugnatoria e varie questioni processuali, in Il fall., 2016, p. 556 ss.

La tesi affermativa è sostenuta dalla dottrina, L. BACCAGLINI, La questione delle impugnazioni incidentali nel giudizio di opposizione allo stato passivo, in Il fall., 2016, p. 1201 ss., ivi ulteriori rimandi; quella negativa è preferita dalla giurisprudenza, come si vedrà in seguito.

([4]) Così facendo si propone l’assimilazione del procedimento di verifica ad un giudizio di primo grado, rispetto al quale l’opposizione avrebbe natura di appello. A favore, C. FERRI, La formazione dello stato passivo nel fallimento: procedimento di primo grado e impugnazioni, in Riv. dir. proc., 2007, cit., p. 1270. Contra, B. SASSANI – R. TISCINI, L’accertamento del passivo, p. 7.

In giurisprudenza, Trib.  Milano 4 marzo 2008, in Giur. it. 2008, p. 1156, sostenendo che tale assimilazione paia forzata, in quanto nella verifica del passivo le parti in genere sono prive di difesa tecnica. Il progetto di stato passivo, come riferisce P. BOSTICCO, Il progetto di stato passivo, in Il fall., 2011, cit., p. 1067 spiegando le tesi della suindicata sentenza, sarebbe più che altro un atto dell’ufficio concorsuale. Questa opinione è però rimasta piuttosto isolata in quanto, come evidenziato da C. FERRI, La formazione dello stato passivo nel fallimento: procedimento di primo grado e impugnazioni, in Riv. dir. proc., 2007, p. 1270 se contraddittorio e diritto di difesa sono caratteristiche del processo nella prima fase ancor più (e meglio) qualificano il procedimento di impugnazione, il quale si svolge sul presupposto delle più ampie garanzie di un processo a cognizione piena.

([5]) Questa ricostruzione ha incontrato l’opposizione di Cass., 11 maggio 2016, n. 9617. Questa giurisprudenza viene criticata da L. BACCAGLINI, La questione delle impugnazioni incidentali nel giudizio di opposizione allo stato passivo, in Il fall., 2016, p. 1203 ss. che si schiera invece apertamente a favore. Le argomentazioni ivi addotte paiono fruibili, e logicamente riproponibili, anche per quanto qui di specifico interessa, pur non riferendosi, nel caso concreto analizzato dal contributo, direttamente all’istituto della revocatoria in via incidentale.

([6]) La valutazione, in sede di impugnazione, di eccezioni rilevabili d’ufficio, è subordinata alla mancata trattazione della questione. Sulla premessa che si trattasse di eccezione in senso lato, questo poteva verificarsi sia in assenza di espressa censura del curatore.

([7]) Nonostante parte della dottrina non condividesse tale opinione sulla base del connotato inquisitorio dei poteri del giudice delegato, l’acquisizione processuale del fatto su cui si fonda l’eccezione (da tenersi distinta dalla prova del medesimo fatto, la quale dipende dall’esito delle acquisizioni istruttorie) deve necessariamente passare attraverso l’esercizio del potere di allegazione, che compete solo alle parti. “Allegazione” deve qui intendersi come “deduzione”, “affermazione” del fatto estintivo, modificativo, impeditivo su cui si fonda l’eccezione, a prescindere dalla dimostrazione del medesimo (il cui onere grava sulla parte interessata in base alla regola di cui all’art. 2697 c.c.). Questa conclusione è evidente – di qui, nulla quaestio – per le eccezioni in senso stretto, poiché proporre tali eccezioni non può significare altro che dedurre un fatto e chiedere che sia applicato l’effetto del fatto alla situazione sottoposta al giudizio. Quanto alle eccezioni in senso lato, i più ritengono invece necessario e sufficiente, perché possa esercitarsi il rilievo d’ufficio, che vi sia stata la sola allegazione del fatto, ancorché per fini diversi da quelli diretti alla rilevazione dell’eccezione, ed ancorché la deduzione sia stata effettuata da una parte diversa dall’interessata. All’interno di tale orientamento, prevale poi l’opinione, secondo la quale è individuabile anche per le eccezioni in senso lato un onere di tempestiva allegazione dei fatti estintivi, modificativi, impeditivi sui quali esse si fondano, onere che trova un limite preclusivo nell’udienza o, al massimo, nello spirare dei termini concessi di trattazione scritta. In dottrina cfr. S. CHIARLONI, in S. CHIARLONI (a cura di), Le riforme del processo civile, p. 175 ss.; A. ATTARDI, Le nuove disposizioni sul processo civile, p. 73 ss.; G. COSTANTINO, in AAVV, Nuove leggi civ., Commentario alla L. 26 novembre 1990, n. 353. Provvedimenti urgenti per il processo civile, p. 87 ss.; R. VACCARELLA – B. CAPPONI – C. CECCHELLA, Il processo civile dopo le riforme, p. 98 ss.; V. COLESANTI, Il processo di cognizione nella riforma del 1990, in Riv. dir. proc., 1993, cit., p. 20. In giurisprudenza, Cass. SU, 1099/1998. Secondo un diverso orientamento, per il quale si veda R. ORIANI, Eccezione rilevabile d’ufficio e onere di tempestiva allegazione: un discorso ancora aperto, in Foro It., 2001, p. 127 ss., l’assolvimento dell’onere di allegazione del fatto su cui si basa l’eccezione è indefettibile solo per la rilevazione delle eccezioni in senso stretto, mentre per quelle in senso lato “il fatto estintivo, modificativo, impeditivo rilevabile d’ufficio può risultare ex actis, in virtù di prove già acquisite nel corso del giudizio, o perché si tratta di fatto notorio”. Così, non sarebbe da escludere la deduzione ad opera della parte interessata o di altre parti, ma non si tratta dell’unica modalità di rituale acquisizione del fatto al processo: il magistrato, si prosegue, deve tener conto dei fatti estintivi, modificativi, impeditivi rilevabili d’ufficio, ove risultino dagli atti di causa, con il solo ed insuperabile limite del rispetto del divieto di utilizzazione della scienza privata del giudicante.

([8]) Cass. SU, 9 ottobre 2008, n. 24883, seguita ex multis da Cass. SU, 30 ottobre 2008, n. 26019.

([9]) Sul punto, Cass., 7 maggio 2013, n. 10531, secondo la quale “il rilievo d’ufficio delle eccezioni in senso lato non è subordinato alla specifica e tempestiva allegazione della parte ed è ammissibile anche in appello, dovendosi ritenere sufficiente che i fatti risultino documentati ex actis, in quanto il regime delle eccezioni si pone in funzione del valore primario del processo, costituito dalla giustizia della decisione, che resterebbe svisato ove anche le questioni rilevabili d’ufficio fossero subordinate ai limiti preclusivi di allegazione e prova previsti per le eccezioni in senso stretto”. In senso conforme anche Cass. SU, 27 luglio 2005, n. 15661; Cass., 13 gennaio 2012 n. 409; Cass., 15 ottobre 2009, n. 21929. Contra,  Cass., 18 ottobre 2012, n. 17896; Cass., 11 marzo 2011, n. 5872; Cass., 4 marzo 2011, n. 5333.

([10]) Cass. SU, 12 dicembre 2014, n. 26242; Cass., 9 aprile 2015, n. 7090; Cass., 5 agosto 2016, n. 16574; Cass., 19 settembre 2013, n. 21482; Cass., 29 novembre 2013, n. 26858; Cass., 30 settembre 2016, n. 19567; Cass., 22 ottobre 2015, n. 21524; Cass., 12 settembre 2014, n. 19272; Cass., 25 novembre 2013 n. 26289.

([11]) Inoltre, nonostante il principio di non contestazione fosse applicato dalla giurisprudenza, mancava una specifica garanzia codificata, intervenuta solamente con la modifica dell’art. 115 c.p.c., ad opera della L. 69/2009. Peraltro, a sostegno di quanto detto si ricorda la recente Cass., 24 marzo 2015, n. 5482, la quale ha affermato che il principio di non contestazione si applicherebbe solo ai giudizi instaurati dopo il 2009.

([12]) Art. 346 c.p.c.: “Le domande e le eccezioni non accolte nella sentenza di primo grado, che non sono espressamente riproposte in appello, si intendono rinunciate”. L’onere di riproposizione grava, sulla parte, per quanto riguarda sia le eccezioni rigettate, sia per quelle rimaste assorbite da altre questioni (e per le quali si forma soccombenza virtuale).

([13]) La portata, teorica ed applicativa della norma è spiegata da, C. CONSOLO, Spiegazioni di diritto processuale civile. Il processo di primo grado e l’impugnazione delle sentenze, vol. II, 2014, cit., p. 483. In queste situazioni in cui, nella logica del provvedimento, può dirsi avvenuto ritualmente e correttamente l’assorbimento di una eccezione, sì che non sussisteva alcuna omissione di pronuncia (a fronte della quale vi sarebbe invece l’onere di una vera e propria impugnazione), l’art. 346 c.p.c. pone la regola che sarà onere della parte appellata, e così del vincitore, semplicemente di riproporre esplicitamente nei suoi atti difensivi del giudizio di gravame la questione rimasta precedentemente assorbita.

([14]) Ad esempio, escludendo il credito per inesistenza dello stesso.

([15]) L’onere di riproposizione, non costituendo una impugnazione, fa venir meno, per la parte che ne è onerata, il requisito della soccombenza (formale). Così, C. CONSOLO, Spiegazioni di diritto processuale civile. Il processo di primo grado e l’impugnazione delle sentenze, vol. II, cit., p. 483. Cfr. C. BELLOMI, Considerazioni sulle revocatorie cd incidentali, in Il fall., 2003, cit., p. 504.

([16]) Per chiarezza, si fa presente che l’interpretazione circa l’ambito applicativo del disposto in esame ricomprende sia le eccezioni rigettate che quelle rimaste assorbite da altre censure.

([17]) Tale meccanismo, peraltro da intendersi come ancillare al principio di non contestazione, determina acquiescenza sullo specifico punto. Ex se deriva la relatività delle implicazioni concrete, stante la differente adesione alla nozione di capo o parte di sentenza (in questo caso, comunque, atto giurisdizionale di natura decisoria), dibattito a cui si rimanda e le cui posizioni, peraltro distanti tra loro, dominanti trovano linfa vitale nelle opinioni di Chiovenda e Carnelutti. Cfr. anche Cass SU, 19 aprile 2016, n. 7700.

([18]) Considerazione a sé, invece, nella dottrina processuale civile, per le domande proposte: si ritengono soggette al disposto dell’art. 346 c.p.c. solamente le domande ritenute assorbite e non, invece, quelle rigettate.

([19]) Art. 101 c.p.c.: “Il giudice, salvo che la legge disponga altrimenti, non può statuire sopra alcuna domanda, se la parte contro la quale è proposta non è stata regolarmente citata e non è comparsa.

Se ritiene di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d’ufficio, il giudice riserva la decisione, assegnando alle parti, a pena di nullità, un termine, non inferiore a venti e non superiore a quaranta giorni dalla comunicazione, per il deposito in cancelleria di memorie contenenti osservazioni sulla medesima questione.

([20]) La previsione in esame opera a pena di nullità. Viene qui riprodotto il principio del contraddittorio, espresso già dall’art. 101, co. 1, c.p.c. e fondamento dell’impianto del processo civile, in cui primeggia il ruolo delle parti e la necessità delle armi processuali a loro disposizione.

([21]) Come previsto dall’art. 45, co. 13, L. 69/2009, norma aggiuntiva dello stesso art. 101, co. 2, c.p.c.

([22]) Così disposto dall’art. 58, co. 1, L. 69/2009.

([23]) Il regime normativo dell’autorizzazione del curatore a stare in giudizio, dato dal combinato disposto degli artt. 31 e 25 l. fall., esclude che questa sia necessaria per le controversie cd endofallimentari, tra le quali rientrano anche i giudizi coi quali viene impugnato il decreto di esecutività del giudice delegato. Più nello specifico, in questo caso l’esclusione della preventiva autorizzazione giudiziale opera in forza della esplicita dizione dell’art. 31 l. fall., il quale fa (espressamente) salvi i “procedimenti promossi per impugnare atti del giudice delegato o del tribunale (…)”. Non condivisibile pare invece l’orientamento di taluna recente giurisprudenza, che fa particolare leva sui nuovi connotati dispositivi di questa fase per giungere ad una diversa soluzione: Cass., 19 novembre 2009, n. 24415 afferma che  “il curatore deve produrre l’autorizzazione del giudice delegato a resistere nel relativo giudizio [di opposizione allo stato passivo] e che in mancanza, essendo inefficace la sua costituzione, deve esserne dichiarata la contumacia”; in senso così conforme, Cass., 2 maggio 2006, n. 10118; cfr. anche Cass., 8 novembre 2010, n. 22711.

([24]) F. DIMUNDO – B. QUATRARO, in G. FAUCEGLIA – L. PANZANI (diretto da), Fallimento e altre procedure concorsuali, II, cit., p. 1035.

([25]) In questo senso, Cass., 24 aprile 1964, n. 2024; Cass., 21 dicembre 1990, n. 12155; Cass., 26 luglio 2002, n. 11029; Cass., 4 novembre 2004, n. 17888. Fra i giudici di merito Trib. Milano, 30 aprile 2005, in Dir. e pratica del fallimento, 5/2006, p. 78; App. Bologna, 21 maggio 1994, in Il fall., 1994, p. 1198; App. Trieste, 11 maggio 1991, n. 1304.

([26]) G. FAUCEGLIA, L’accertamento del passivo, in O. CAGNASSO – L. PANZANI (diretto da), Crisi d’impresa e procedure concorsuali, II, cit., p. 1650.

Dott. Alemanno Roberto

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