Emergenza Covid-19 e decretazione d’urgenza: dubbi e timori per gli “utenti” della giustizia civile

Sui presupposti della decretazione d’urgenza (in breve)

In una precedente nota (Sul recente (e caotico) intervento legislativo in materia di giustizia civile, in Judicium. Il processo civile in Italia e in Europa, 23.03.2020), occupandomi dei dd.ll. nn.11 e 18 dello scorso mese di marzo, avevo sottolineato l’uso improprio del ricorso al decreto-legge.

L’occasione mi ha acceso la curiosità, al punto che sono andato a “ficcare il naso” negli atti della Commissione per la Costituzione.

Sul punto si approfondisca con:

Leggo che, nella seduta dell’Assemblea Costituente tenutasi 17 ottobre 1947, nel corso della quale furono esaminati gli emendamenti all’articolo sul decreto-legge, Ruini (Presidente della Commissione per la Costituzione), ammonì: «[i]l punto in discussione è se il provvedimento non convertito in legge perda efficacia ex tunc o ex nunc, dal momento stesso in cui fu emanato, o dal momento nel quale venne rigettato dalle Camere». E aggiunse: «[q]uesto è il punto essenziale, su cui è bene pronunciarsi».

Nobile, allora, esclama: «[s]i dice che un decreto debba venir considerato nullo fin dal principio. Sta bene. Ma, allora, domando: nel caso di un decreto che abbia raddoppiato il prezzo dei tabacchi che cosa si dovrà fare? Restituire ai fumatori il danaro pagato in più

Di qui, la necessità di ancorarne l’uso a casi straordinari, come evidenziato da Bozzi, il quale, dopo aver fatto presente che la legge n. 100 del 1926, istitutiva del Regio Decreto, ossia lo strumento attributivo al Governo della facoltà di legiferare, era stata concepita quando «[i]l Parlamento non era più il Parlamento», sicché occorreva utilizzare il decreto-legge «[i]nnanzi tutto limitando le ipotesi», pur riconoscendo che «[n]on [sarebbe stato] possibile fare una casistica», in quanto non sarebbe stato possibile «prevedere e catalogare i casi d’urgenza e di necessità che si manifestano nelle forme più svariate, secondo l’evolversi delle situazioni e l’imporsi dei fenomeni politici e sociali». Suggerì, pertanto, la seguente formula: «nei casi straordinari di assoluta ed urgente necessità».

Il testo venne, così, licenziato: «[n]on si possono emanare decreti aventi valore di legge ordinaria se non in casi straordinari di assoluta urgente necessità». Poi, nel testo coordinato dal Comitato di redazione prima della votazione finale in Assemblea, l’espressione «in casi straordinari di assoluta urgente necessità», venne sostituita da quella (approvata) «in casi straordinari di necessità e d’urgenza», lasciando (a prescindere dalla diversa sfumatura lessicale) inalterato il presupposto legittimante il ricorso alla decretazione d’urgenza.

Questo (breve) excursus mi conferma, da un lato, la preoccupazione del Costituente circa l’esistenza di fonti normative tali da minare la centralità del Parlamento e, dall’altro, la perplessità in ordine alle conseguenze scaturenti dalla mancata conversione del decreto-legge. Circa quest’ultimo aspetto, ho richiamato l’intervento di Nobili (sull’aumento, mediante decreto-legge, del prezzo dei tabacchi), un intervento che, sia pure in maniera leggera (e scherzosa), denotava le incertezze connesse al ripristino della normativa che, qualora il decreto-legge fosse decaduto, sarebbe stata modificata solo in via provvisoria.

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  2. Dubbi sulla sorte dei recenti decreti-legge

Mi chiedo, a questo punto, se i summenzionati dd.ll. nn. 11 e 18 siano suscettivi di conversione in legge.

Dico questo perché la giurisprudenza della Corte Costituzionale ha fatto registrare un revirement circa l’esistenza delle condizioni fondanti l’emanazione del decreto-legge.

Sino al 1995, i Giudici della Consulta esclusero che il sindacato di legittimità potesse estendersi alla mancanza dei requisiti di validità dei decreti-legge, in quanto, intervenuta la conversione, si riteneva che perdessero rilievo e che, pertanto, non potessero trovare ingresso, nel giudizio di costituzionalità, le censure di illegittimità concernenti i limiti del potere del Governo nell’emanarli. Fu anche affermato che la sostituzione, con efficacia ex tunc, della legge di conversione al decreto impugnato avesse fatto venir meno sin dall’inizio l’atto oggetto della censura, non solo in riferimento alla dedotta mancanza dei presupposti richiesti per la sua emanazione, ma pure in riferimento alla presunta illegittimità della conversione operata attraverso la reiterazione del decreto (sent. n. 1033/1988).

Successivamente, le cose sono cambiate. La svolta è stata segnata dalla sentenza n.29/1995, con la quale, per la prima volta, veniva affermato che la situazione di fatto, comportante la necessità e l’urgenza di provvedere tramite uno strumento eccezionale (qual è il decreto-legge), costituisce un requisito di validità costituzionale per l’adozione dell’atto e, di conseguenza, l’eventuale (ed evidente) mancanza di quel presupposto integra sia un vizio di costituzionalità del decreto-legge sia un vizio in procedendo della stessa legge di conversione, la quale, nel valutare erroneamente l’esistenza dei presupposti di validità, laddove essi risultassero «in realtà insussistenti», finirebbe col convertire in legge un decreto che, invece, non avrebbe potuto essere legittimo oggetto di conversione. Non solo. A partire dalla sentenza n.79/2011, la Corte ha chiarito che il proprio sindacato, oltre alla «“evidente mancanza” dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza»,  viene in rilievo, come (ulteriore) causa di illegittimità costituzionale del decreto, anche l’ipotesi «di manifesta irragionevolezza o arbitrarietà della relativa valutazione». Quindi, alla mancanza dei presupposti richiesti dall’art. 77 Cost., si affianca un ulteriore profilo di illegittimità costituzionale del decreto-legge, sindacabile dalla Corte, ossia l’irragionevole, o arbitraria, valutazione governativa.

E, si badi, la Corte aveva (anche) rimarcato come il ricorso alla decretazione d’urgenza, in uno alla conseguente responsabilità in capo al Governo, non può «essere sostenuta dall’apodittica [sottolineatura aggiunta] enunciazione dell’esistenza delle ragioni di necessità e di urgenza» (sent. n.171/2007, ove è, altresì, precisato che, se la legge di conversione potesse comunque sanare i vizi del decreto, «significherebbe attribuire in concreto al legislatore ordinario il potere di alterare il riparto costituzionale delle competenze del Parlamento e del Governo quanto alla produzione delle fonti primarie»).

 Siamo sicuri, alla luce di quanto sinora esposto, che ricorressero i presupposti per l’adozione dei dd.ll. nn. 11 e 18 cit. e che, dunque, possano essere convertiti in legge?

Il presupposto indefettibile, perché si possa utilizzare lo strumento (eccezionale) del decreto-legge, è da ravvisare nella straordinarietà del caso, coniugato alla esigenza di dettare una disciplina duratura, quantunque anticipata con la tecnica della decretazione d’urgenza, non una disciplina di carattere transeunte: non, cioè, una disciplina circoscritta ad un arco temporale, funzione, questa, da riconoscersi alle leggi c.d. “temporanee”.

Nel caso che ci occupa, i dd.ll. hanno sospeso dei termini processuali: termini destinati a regolare lo svolgimento del giudizio (i termini per il compimento delle attività endoprocessuali) e termini destinati a trasformare (definitivamente) la res controversa in res certa, conferendo alla situazione dedotta in giudizio un assetto stabile (i termini per impugnare). Hanno, in una parola, neutralizzato (per un determinato spatium temporis) sia il mezzo per arrivare al risultato definitivo del processo (la res judicata) sia quello per il suo ordinato svolgimento. Lo hanno fatto con riferimento a due periodi: il primo compreso tra il 9 marzo e il 15 aprile, mentre il secondo compreso tra il 16 aprile e il 30 giugno.

Circa il primo periodo, la legge di conversione potrebbe intervenire quando la proiezione temporale dell’intervento legislativo (espletato in via d’urgenza) si sia già esaurita: in tal caso, non si attuerebbe una conversione in legge del decreto, ma avrebbe luogo una (mera) ratifica della funzione legislativa esercitata, in via surrogatoria, ad opera del potere esecutivo. Ciò urterebbe con i principi enunciati dai Costituenti e (rimarcati) dalla Corte Costituzionale.

Quanto al secondo periodo ed in considerazione dell’ampiezza del sindacato della Corte Costituzionale in materia, potrebbe ritenersi legittima la conversione di un decreto-legge, laddove il Governo già disponeva di uno strumento ad hoc per far fronte all’emergenza, ossia il d.lgs. 9 aprile 1948 n. 437? Questo, difatti, attribuisce al Ministro della Giustizia il potere di prorogare di quindici giorni i termini di decadenza per compiere atti presso gli uffici giudiziari, qualora questi ultimi «non siano in grado di funzionare regolarmente  per  eventi  di  carattere  eccezionale». Non si comprende, allora, il perché non sia stata esercitata tale (precipua) facoltà, sì da permettere (nel frattempo) al Parlamento di legiferare al riguardo, anche al solo fine di prorogare il termine contemplato dal succitato d.lgs. n. 437/ 1948. Quel decreto legislativo, in quanto approvato dopo l’entrata in vigore della Costituzione e dettando la (specifica) disciplina in subiecta materia, escludeva (implicitamente) il ricorso all’utilizzazione del decreto-legge in occasione di difficoltà operative degli uffici giudiziari. L’opzione per lo strumento legislativo del decreto-legge, in vigenza di una specifica disciplina per porre rimedio all’irregolare funzionamento degli uffici giudiziari (d.lgs. del 1948 cit.), difficilmente consentirà di ritenere la scelta immune da «manifesta irragionevolezza o arbitrarietà della relativa valutazione» (Corte cost. n. 79/2011 cit.).

Né potrebbe obiettarsi che il Parlamento, in questo periodo, non è in grado di funzionare regolarmente. Non siamo più nel 1926 (anno della legge istitutiva del Regio Decreto), quando, cioè, «[i]l Parlamento non era più il Parlamento» (v. il sopra richiamato intervento di Bozzi). Oggi il Parlamento è il Parlamento e, dunque, dovrebbe (rectius, dovrà) continuare a fare il Parlamento!

Né, peraltro, l’intervento legislativo potrebbe farsi rientrare nel novero delle c.d. “leggi-provvedimento”. Il proprium della legge-provvedimento lo si ricava dallo stesso significato delle parole: ad un sostantivo (“legge”) si affianca un altro sostantivo (“provvedimento”), non un aggettivo (“statale”, “regionale”, “ordinaria”, “costituzionale”) per indicare il rapporto genus a species tra le varie leggi (così, Ugo Rescigno, in Leggi-provvedimenti costituzionalmente ammesse e leggi-provvedimento costituzionalmente illegittime, Relazione al 53° convegno di studi amministrativi, Varenna, 22.09.2007). Le leggi-provvedimento, com’è noto, sono atti (solo) formalmente normativi, ma sostanzialmente amministrativi, che hanno acquisito il “diritto di cittadinanza” nel nostro ordinamento a determinate condizioni. Secondo l’interpretazione datane dalla Corte Costituzionale, possono definirsi leggi-provvedimento quelle leggi che «contengono disposizioni dirette a destinatari determinati» (sent. n. 137/2009 e n. 2/1997), che «incidono su un numero determinato e limitato di destinatari» (sent. n. 94/2009), che hanno «contenuto particolare e concreto» (sent. n. 20/2012, n. 270/2010, n. 137/2009, n. 241/2008, e n.267/2007), «ispirate da particolari esigenze» (sent. n. 270/2010 e n. 429/2009) e che comportano l’attrazione alla sfera legislativa «della disciplina di oggetti o materie normalmente affidati all’autorità amministrativa» (sentenze n. 94/2009 cit. e n. 241/2008 cit.). Ne discende che la loro legittimità costituzionale «va valutata in relazione al loro specifico contenuto» (sent. n. 275/2013), come avvenne, ad esempio, per le disposizioni sul risanamento del Comune di Roma, in ragione della «peculiarità del suddetto Ente», perché  «Capitale della Repubblica» (sent. n.154/2013, sulle disposizioni d’urgenza per “Roma capitale”). In sintesi, le leggi-provvedimento disciplinano casi e rapporti specifici e si connotano per essere destinate a disciplinare «materie normalmente affidati all’autorità amministrativa» (sent. n. 94/2009 cit. e n. 241/2008 cit.). Ma, ove dovesse ricavarsi una intentio legis tesa ad incrementare i poteri amministrativi in materia di giustizia, come sembrerebbe aver fatto il settimo comma dell’art. 83 del d.l. n.18 cit., mediante l’attribuzione, ai capi degli uffici giudiziari, dei poteri di gestione dell’odierna emergenza sanitaria, la norma si porrebbe in (frontale) contrasto con la ragione sulla quale riposano le leggi-provvedimento, poiché non avrebbero inciso «su un numero determinato e limitato di destinatari» (sent. n. 94/2009 cit.), ma sulla (intera) amministrazione della giustizia, determinandone, peraltro, un’amministrazione autarchica nei vari distretti (e circondari) e, inevitabilmente, un’amministrazione non uniforme su tutto il territorio nazionale.

 

  3. Considerazioni conclusive

  In conclusione, mi chiedo se non sia il caso di rivalutare la tesi dell’Esposito (in Enc. dir., Milano 1962, voce Decreto-legge, vol. XI, pag. 831 e ss.), tesi che, a quanto mi consta, non ha ricevuto adesioni (tra chi l’ha osteggiata, v. Crisafulli, in Lezioni di diritto costituzionale, II, 1, Le fonti normative, II, 1, Padova 1976, pag. 82). Secondo l’Autore, «le disposizioni, gli imperativi, cui l’atto [il decreto-legge] dà nascimento non sono provvisori, ma bensì sono disposizioni di incerta vigenza e validità fino a conversione» (Esposito, op.cit., pag. 845). In altre parole, l’atto sarebbe legittimabile solo in conseguenza della successiva legge di conversione, non potendo, sino alla conversione, essere applicato, sicché la sua funzione si esaurirebbe nell’obbligare i giudici a sospendere i giudizi, esaurendosi la loro efficacia nell’impedire che, medio tempore, si possano applicare le norme disciplinanti la materia prima dell’adozione del provvedimento governativo (penso, ad esempio, a un giudizio risarcitorio per “occupazione appropriativa”, instaurato in pendenza di un decreto-legge che avesse prorogato il termine per l’emissione del provvedimento di esproprio).

  A sostegno della tesi di Esposito militano, a mio avviso, due (significativi) dati normativi, i quali (apparentemente) potrebbero essere considerati una smentita della stessa. Mi riferisco all’abolitio criminis in forza di un decreto-legge non convertito (art. 2, co. 6, c.p.) e alla perpetuatio iurisdictionis (art. 5 c.p.c.).

Quanto al primo, è appena il caso di osservare che nel codice penale (il quale, non dimentichiamolo, preesisteva alla Costituzione), la previsione in argomento, secondo quanto si legge nella Relazione al Re del Guardasigilli, quantunque in sede di Commissione parlamentare fosse stata ritenuta superflua, in quanto avrebbe dovuto «desumer[si] dal contesto della legge 31 gennaio 1926, n. 100 [richiamata sub 1]», fu comunque resa manifesta per una duplice ragione: da un lato, appariva «inutile costringere l’interprete a dedurre (con procedimento sempre suscettivo di deviazioni) una regola di diritto da altre leggi, quando la si [sarebbe potuto] fissare in modo certo e incontrovertibile nel codice» e, dall’altro, perché «la giurisprudenza, in un tempo relativamente recente, obbedendo ad opinabili ragioni di opportunità contingente, ebbe a disconoscere nel modo più manifesto la norma medesima». La Corte Costituzionale, al fine di fugare ogni dubbio al riguardo, ha chiarito che il favor rei, nel caso di decreto-legge non convertito, opera soltanto per i fatti concomitanti, ovvero commessi nel periodo di vigenza del decreto, non anche relativamente ai «fatti pregressi», ovvero quei fatti commessi in epoca anteriore alla sua entrata in vigore (sent. n. 51/1985). D’altronde, assoggettare a sanzione colui il quale avesse commesso un fatto che, sia pure per effetto della disciplina “precaria” introdotta da un decreto-legge, non integra reato, avrebbe significato ignorare il c.d. “principio di tassatività” sancito dall’art. 1 del codice penale, principio, successivamente, “presidiato” dalla Costituzione (art. 25): dai cittadini non può pretendersi uno sforzo (così elevato) di conoscenza della legge, sino a doversi sincerare se le proprie azioni siano consentite (o, meglio, non punite) in virtù di una disciplina scaturente da un decreto-legge, anziché da una legge (giova richiamare, al riguardo, Corte Cost. n. 364/1988 che, introducendo un temperamento al principio di inescusabilità dell’ignoranza della legge penale, sottolineò l’inevitabilità dell’errore «nei casi di impossibilità di conoscenza della legge penale da parte d’ogni consociato», enunciando, sia pure implicitamente, l’ineludibile esigenza di chiarezza delle norme, esigenza avvertita e resa manifesta già da Zanardelli, quando nella Relazione al Re al codice penale del 1889, che prese il suo nome, disse «le leggi devono essere scritte in modo che anche gli uomini di scarsa cultura possano intenderne il significato; e ciò deve dirsi specialmente di un codice penale, il quale concerne un grandissimo numero di cittadini anche nelle classi popolari, ai quali deve essere dato modo di sapere, senza bisogno d’interpreti, ciò che dal codice è vietato»).

Il secondo dato considerato è l’art. 5 c.p.c., ossia la norma che cristallizza nella proposizione della domanda il momento determinativo della competenza e della giurisdizione, essendo irrilevante il successivo mutamento dello stato di fatto o della legge. Ebbene, se è pur vero che per «legge esistente» (art. 5 cit.) deve intendersi anche l’individuazione del giudice in base alla normativa dettata da un decreto-legge, è altrettanto vero che, qualora lo stesso non venga convertito in legge, «le norme contenute in quest’ultimo devono ritenersi come mai esistite», con conseguente deroga al  principio della perpetuatio jurisdictionis  (così, Comoglio,  in Commentario del codice di procedura civile, diretto da Comoglio – Consolo – Sassani – Vaccarella, UTET, vol. I, pag. 180). Tuttavia, mentre il giudice, che debba fare applicazione di norme incompatibili con quelle introdotte da un decreto-legge, sospende il giudizio in attesa dell’esito del decreto, chi deve proporre domanda giudiziale può trovarsi nella impossibilità di attendere, perché, ad esempio, si trova in prossimità dell’avverarsi di una decadenza o del maturarsi di una prescrizione, che può impedire soltanto attraverso l’esercizio dell’azione giudiziaria (si pensi, ad esempio, alla necessità di agire, al fine di interrompere il termine per il possesso ad usucapiendum). La tempestiva riassunzione dinanzi al giudice competente (art. 50 c.p.c.) e, grazie al superamento del c.d. “principio di incomunicabilità tra giurisdizioni diverse” (art. 59 l.n.69/2009), anche quella dinanzi al giudice fornito di giurisdizione, consente, però, la conservazione degli effetti sostanziali e processuali della domanda, a far tempo dalla sua proposizione. Ciò diversamente da quanto accadde all’indomani dell’approvazione del t.u. delle leggi sul Consiglio di Stato, avvenuta con r.d. n.1054/1924, che trasferì a quella giurisdizione speciale le attribuzioni, prima spettanti ai tribunali ordinari, in materia di pubblico impiego (art. 29. r.d. n. 1054 cit.). La Cassazione annullò numerosissimi processi, con la (gravissima) conseguenza che «miseri impiegati, che già avevano conseguito il riconoscimento dei loro diritti dai giudici merito, si trovarono costretti a ricominciare da capo il giudizio davanti alle Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato, se pur da queste non si sentirono rispondere che il termine per impugnare il provvedimento amministrativo … era nel frattempo decorso» (così, Chiovenda, in Saggi di diritto processuale civile, Milano 1993, vol. I, pag. 304, nota 1).

In definitiva, le due norme esaminate confermano (o, se si preferisce, non escludono) la condivisibilità e, magari, l’opportunità di privilegiare la tesi di Esposito: considerare, cioè, il decreto-legge non un atto risolutivamente condizionato alla sua mancata conversione, ma, al contrario, un atto sospensivamente condizionato alla sua conversione, con conseguente sospensione dei giudizi in attesa della conversione e, in taluni casi (ad esempio, nell’ipotesi sopra esaminata dell’art. 2 c.p.), persino produttivo di effetti in grado di incidere (definitivamente) sulla situazione verso la quale si protende. Saremmo, così, consapevoli delle conseguenze connesse all’eventualità della sua mancata conversione e, quindi, ci regoleremmo opportunamente. Consci, nella fattispecie, che l’unico effetto prodromico dei dd.ll.nn. 11 e 18 cit. si sarebbe prodotto, non per i giudici, ma (solo) per i cancellieri, i quali, ancorché il termine per impugnare fosse decorso tra il 9 ed il 15 aprile ed ancorché il decreto non fosse stato convertito in legge, non avrebbero, fino a quando non fossero scaduti i termini per la conversione, potuto attestare il passaggio in giudicato della sentenza.

Purtroppo, le cose stanno diversamente e quella di Esposito è rimasta vox in deserto clamantis, con la conseguenza che, ove i recenti dd.ll. non venissero  convertiti, il danno non sarà lieve, in quanto potrebbe determinarsi una irrecuperabile (ed incolpevole) perdita del diritto: le parti di un giudizio pendente potrebbero ritrovarsi incappati in (pregiudizievoli) preclusioni e le parti soccombenti, ove il termine per impugnare la sentenza fosse scaduto tra il 9 marzo e il 15 aprile (se non avessero interposto gravame), si ritroverebbero incappati nella (non più rimediabile) preclusione del giudicato.

Certo è che il Parlamento, se sono condivisibili le osservazioni che precedono, ora sarà costretto a passare tra “Scilla e Cariddi”.

Quei fumatori, dei quali si preoccupava Nobili, se il decreto fosse decaduto, si sarebbero, almeno, trovati nella posizione di creditori!

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Vincenzo Lombardi

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