Oltre un anno di diffusione del Covid-19 ci ha posto di fronte a una casistica di contagi avvenuti all’interno di strutture sanitarie, di lesioni e danni patiti tanto da pazienti Covid non adeguatamente curati quanto da altri pazienti trascurati nelle loro necessità fondamentali.
Il riferimento, generico ma efficace, all’Emergenza Covid-19[1] è stato spesso proposto come se fosse capace di mettere tra parentesi il tema della responsabilità per tali lesioni e danni.
Nel contesto del diritto il termine ‘emergenza’, in particolare nell’espressione ‘Stato di emergenza’, denota ben precise condizioni complesse di fatto che l’ordinamento prende in considerazione per assegnare loro un valore giuridico particolare autorizzando determinate azioni politiche e particolari potestà normative da parte dei poteri pubblici.
In primo luogo si tratta allora di rispondere all’interrogativo se l’ordinamento vigente in Italia preveda lo stato di emergenza; in caso affermativo, come lo definisce e come lo disciplina.
Lo stato di emergenza nell’ordinamento costituzionale
Durante i lavori preparatori della Assemblea Costituente l’on. Crispo, avvocato napoletano e esponente liberale, propose il testo di quello che sarebbe dovuto essere l’articolo 75 della Costituzione: “l’esercizio dei diritti di libertà può essere limitato o sospeso per necessità di difesa, determinate dal tempo e dallo stato di guerra, nonché per motivi di ordine pubblico, durante lo stato d’assedio. Nei casi suddetti le Camere, anche se sciolte, saranno immediatamente convocate per ratificare o respingere la proclamazione dello stato d’assedio e i provvedimenti relativi”. Questo testo venne accettato dalla Commissione ristretta chiamata a predisporre il progetto di testo ma non fu mai posto in votazione dall’Assemblea plenaria e non entrò quindi a far parte della nostra Costituzione; certo il tragico esempio tedesco, di poco più di un decennio prima, pesò più ogni altra considerazione.
La Costituzione contiene invece all’art. 78 la previsione dello stato di guerra esterna, deliberato dalle Camere le quali conferiscono altresì al governo i poteri necessari. L’interpretazione estensiva, per cui l’art. 78 potrebbe venire applicato a situazioni di emergenza, assimilabili a quelle derivanti da una guerra esterna ma dovute ad altre cause[2] è rimasta una soluzione concettuale isolata e non ha mai trovato spazio o applicazione nella prassi.
La conclusione è chiara: non esiste nell’ordinamento costituzionale italiano la previsione dello stato di emergenza nè di alcunchè di prossimo o assimilabile.
Lo stato di emergenza nell’ambito della protezione civile
Lo stato di emergenza nel nostro ordinamento si colloca esclusivamente nell’ambito della protezione civile.
La l. 24 febbraio 1992 n. 225 che ha istituito il Servizio nazionale della Protezione civile, poi modificata dal D. L. 59 del 2012 (Disposizioni urgenti per il riordino della protezione civile).
Il D. L., che ha modificato l’art. 2 della legge, definisce gli eventi (che richiedono interventi eccezionali e attivano le relative competenze della pubblica amministrazione) quali “eventi naturali o connessi con l’attività dell’uomo” e li colloca in diverse categorie a seconda della crescente gravità e dell’estensione del territorio coinvolto fino a quelli che devono, con immediatezza d’intervento, essere fronteggiati con mezzi e poteri straordinari da impiegare durante limitati e predefiniti periodi di tempo.
L’art. 5 della legge, modificato dall’art. 1 c. 1 del D. L., demanda la deliberazione dello stato di emergenza al Consiglio dei ministri, su proposta del Presidente del Consiglio o, se delegati, da un Ministro con portafoglio o dal Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri. La delibera con cui viene dichiarato lo stato di emergenza può essere emanata non solo al verificarsi degli eventi calamitosi, ma anche nella loro imminenza; dispone in ordine all’esercizio del potere di ordinanza, conferendo al Consiglio dei Ministri una competenza attributiva di tale potere.
Il successivo comma 2 introduce una novità perchè conferisce potere di ordinanza al Capo del Dipartimento per la protezione civile, che deve comunque essere esercitato nei limiti e secondo i criteri indicati nel decreto di dichiarazione dello stato di emergenza.
Il D. L., introducendo il nuovo comma 1-bis dell’articolo 5 della legge, ha fissato in 90 giorni la durata massima dello stato di emergenza, prorogabile o rinnovabile di regola una sola volta (previa ulteriore deliberazione del Consiglio dei Ministri) di ulteriori sessanta giorni. Il Codice della Protezione Civile (Decreto legislativo n. 1 del 2 gennaio 2018) ridefinisce la durata dello stato di emergenza di rilievo nazionale, portandola a un massimo di 12 mesi, prorogabile di ulteriori 12 mesi.
Lo scopo dello stato di emergenza
Dichiarare lo stato di emergenza serve a garantire l’immediatezza degli interventi a favore della popolazione e del territorio mediante l’attribuzione di mezzi e poteri straordinari, qualora si verifichino eventi, dovuti a calamità naturali e/o all’intervento umano, imprevedibili o difficilmente prevedibili.
Da quando tale quadro normativo è entrato in vigore lo stato di emergenza è stato dichiarato svariate volte sempre per situazioni o pressochè imprevedibili, come un sisma, o in sè apparentemente prevedibili ma in concreto non pre conoscibili (come l’emergenza rifiuti).
La presunta emergenza Covid-19
Appare difficile considerare il diffondersi in Italia del Covid-19, nel febbraio e marzo 2020, come un evento che motiva la proclamazione dello stato di emergenza, ai sensi delle vigenti norme e della prassi applicativa sopra ricordata.
Allorchè il contagio da Covid-19 si è presentato e diffuso in alcune, peraltro originariamente circoscritte, zone d’Italia il virus era noto da alcuni mesi non solo alle comunità scientifiche le cui competenze erano direttamente coinvolte, ma persino al grande pubblico poiché i mezzi di comunicazione di massa avevano ampiamente propagato le notizie relative alla diffusione pandemica in vaste regioni della Repubblica Popolare Cinese e al progressivo trasmettersi in altre aree del globo.
Tali considerazioni valgono ancora più per i periodi successivi, quando ormai erano ben note le dinamiche di diffusione del contagio, la pericolosità del virus, l’impatto e le conseguenze che poteva avere sulla popolazione.
La scelta dello stato di emergenza
La scelta deve essere stata allora del tutto politica, finalizzata a conferire all’esecutivo e ancora più precisamente alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e ai Ministri competenti, come pure in misura minore ai Presidenti delle Regioni, quei poteri eccezionali di decretazione e di ordinanza, che si è ritenuto potessero rappresentare lo strumento più idoneo al fine di consentire interventi rapidi e in deroga a norme vigenti.
Questo però non implica che sotto altri profili la situazione determinata dall’epidemia da Covid-19 possa essere considerata alla stregua di una situazione di emergenza e possa avere determinato uno “stato di emergenza” generalizzato, categoria del resto sconosciuta al nostro ordinamento.
Lo stato di emergenza non è un’esimente.
Se tale ragionamento può essere accolto, ne derivano conseguenze molto importanti.
Nessun altro soggetto, in particolare non gli operatori sanitari nè le strutture sanitarie, nè in senso più ampio gli enti e i poteri pubblici per le loro competenze in materia sanitaria, può appellarsi all’“emergenza” per giustificare eventuali mancanze nell’affrontare le molteplici situazioni sanitarie dovute all’epidemia da Covid-19; nè tantomeno per deresponsabilizzarsi.
Risulta allora necessario procedere per cercare di chiarire quali siano i responsabili.
La responsabilità della struttura sanitaria
La diffusione del Coronavirus ha reso attualissimo il tema delle infezioni contratte entro una struttura sanitaria.
Premesso che le strutture sanitarie per gestire un rischio devono essere in grado di conoscerlo e pertanto prevederlo e apprezzarlo; il contagio da Covid-19 all’interno della struttura sanitaria potrebbe essere considerato un evento non imprevedibile ma certo apprezzabile con difficoltà nel primissimo periodo di diffusione della malattia (si tenga comunque conto che al momento della sua prima diffusione in Italia il Coronavirus e le relative patologie erano tutt’altro che ignoti, se già il 22 febbraio 2020 il Ministero della Salute ha emanato la prima circolare contenente norme in materia rivolte alle strutture sanitarie).
In periodi successivi, allorchè la gravità e le modalità di diffusione del virus erano ormai evidenti a tutti quanti direttamente coinvolti, non ha fondamento invocare l’imprevedibilità del contagio da Coronavirus.
La legge 8 marzo 2017, nr. 24, c.d. Gelli-Bianco, art. 7 c.1, prevede la responsabilità contrattuale della struttura sanitaria: “la struttura sanitaria o sociosanitaria che, nell’adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell’opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti della struttura stessa, risponde, ai sensi degli articoli 1218 e 1228 del codice civile, delle loro condotte dolose e colpose”.
La giurisprudenza ha ridotto la distanza tra responsabilità contrattuale e responsabilità extra contrattuale, per cui ciò che rileva è il danno subito dal paziente e la possibilità di individuare la struttura come almeno in parte responsabile, se risulta possibile dimostrare che il paziente si è infettato all’interno di essa.
Per respingere l’addebito, la struttura sanitaria deve dimostrare che il danno subito dal paziente non è riconducibile alle sue responsabilità.
Si tenga presente, per cercare di individuare con precisione la responsabilità della struttura sanitaria, che il Covid-19 non può avere avuto inizio al suo interno.
Pertanto, la responsabilità relativa alla sua diffusione tra i ricoverati è di tipo omissivo.
Se la struttura è in grado di dimostrare di avere previsto compiutamente, in forma ufficiale o comunque documentabile, la realizzazione di misure di prevenzione e isolamento conformi ai protocolli e alle indicazioni specifiche e in via più generale alle buone pratiche assistenziali in materia di malattie gravemente contagiose; allora ha soddisfatto le obbligazioni derivanti dal rapporto di spedalità. Se però ai dipendenti può essere imputata una omissione in proposito; allora la responsabilità diretta è in capo a loro e la struttura può essere chiamata a rispondere solo indirettamente.
Se invece la struttura sanitaria non può dimostrare di avere previsto e disposto le misure necessarie a isolare i soggetti anche solo potenzialmente ‘pericolosi’ allo scopo di prevenire i contagi; è allora evidente la sua responsabilità diretta e immediata, mentre gli operatori, eventualmente, possono essere tenuti corresponsabili solo in via indiretta.
La responsabilità del medico: penale…
Se il paziente Covid muore o subisce lesioni personali a causa di un comportamento del medico; se il paziente “normale”, trascurato nel contesto emergenziale, va incontro a esiti analoghi; dove si colloca la colpa penale del medico, come definita dall’art. 43 C. P.?
La legge Gelli – Bianco ha introdotto l’art. 590 sexies C. P. (Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario).
L’interpretazione e l’applicazione di questa norma è stata autorevolmente chiarita da una pronuncia della Corte di Cassazione a Sezioni Unite: «L’esercente la professione sanitaria risponde, a titolo di colpa, per morte o lesioni personali derivanti dall’esercizio di attività medico-chirurgica: a) se l’evento si è verificato per colpa (anche lieve) da negligenza o imprudenza; b) se l’evento si è verificato per colpa (anche lieve) da imperizia, quando il caso concreto non è regolato dalle raccomandazioni delle linee-guida o dalle buone pratiche clinico-assistenziali; c) se l’evento si è verificato per colpa (anche lieve) da imperizia nella individuazione e nella scelta di linee-guida o di buone pratiche clinico assistenziali non adeguate alla specificità del caso concreto; d) se l’evento si è verificato per colpa grave da imperizia nell’esecuzione di raccomandazioni di linee-guida o buone pratiche clinico-assistenziali adeguate, tenendo conto del grado di rischio da gestire e delle speciali difficoltà dell’atto medico» (Cass. pen., S.U., 21 dicembre 2017, n. 8770).
La colpa in senso specifico si ha quando il soggetto, nel suo agire, viola norme che non poteva non conoscere e che era tenuto a osservare. Nel caso del medico si tratta di norme di legge o comunque di direttive emanate da un’autorità pubblica, oppure delle linee guida (quando siano presenti) e dei protocolli di cura, o in senso più ampio delle leges artis e delle buone pratiche cliniche e assistenziali.
… e civile
Il paziente Covid o il paziente “normale” che a causa dei dissesti legati alla (presunta) emergenza sanitaria subisce un danno possono fare riferimento alla legge Gelli – Bianco del 2017, art. 7 , che ha definito la responsabilità del medico quale caso di responsabilità extra contrattuale (salvo appunto i casi in cui effettivamente il medico e il paziente hanno stipulato un contratto che prevede l’impiego di determinati mezzi in vista di ottenere un risultato preciso).
Lo scopo di questa netta precisazione sta nel tutelare al massimo il valore della salute del paziente, tenendo conto dell’obbligo di protezione insito nella relazione di cura.
La responsabilità extra contrattuale è disciplinata dall’art. 2043 C. C.; rileva il danno subito in conseguenza dell’agire da parte di un soggetto, anche se questi non voleva provocarlo.
La parte lesa deve provare di avere subito un danno e il nesso di causalità col comportamento del soggetto che ha agito provocandolo. Il nesso causale è molto importante, richiede di essere accertato facendo riferimento a leggi scientifiche, a criteri di attendibile probabilità statistica da rapportare al caso specifico.
Ammesso che il paziente sia riuscito a provare quanto detto, come sarebbe possibile negare la responsabilità del medico?
Le possibili soluzioni deresponsabilizzanti:
lo scudo
L’ipotesi di uno “scudo penale” per deresponsabilizzare gli esercenti le professioni sanitarie che si sono trovati a operare in determinate situazioni estreme è rimasta in sospeso fino alla conversione del d.l. “Cura Italia” n. 18 del 17 marzo 2020, con vari emendamenti proposti da diverse parti politiche e soggetti istituzionali, molto diversi tra loro ma accomunati dall’intento di introdurre riduzioni di e/o esenzioni da responsabilità, in sede penale e civile, per i medici impegnati sul primo fronte dell’assistenza ai malati di Covid-19. Di tutto questo non è rimasta però traccia nella legge n. 27 del 24 aprile 2020 con cui il d.l. è stato convertito, e che non menziona alcuna soluzione in proposito.
la responsabilità dell’amministrazione
Un ulteriore suggerimento è centrato sull’analogia tra la responsabilità degli operatori sanitari e la responsabilità degli insegnanti (di cui alla legge 11 luglio 1980, n. 312), i quali, com’è noto, non possono essere direttamente convenuti nelle azioni di risarcimento danni derivanti dalla loro colpa nella vigilanza degli alunni. In questi casi infatti le azioni devono essere proposte verso l’Amministrazione responsabile (nella specie: il Ministero dell’Istruzione), restando sempre la possibilità che questa si rivalga sul singolo nei casi di dolo o di colpa grave, come previsto esplicitamente dalla l. Gelli – Bianco, art. 9, per gli operatori sanitari.
Appare molto difficile sostenere l’analogia: le lesioni che possono derivare a un alunno dalla colpa dell’insegnante che non ha vigilato sufficientemente rimangono estranee al nucleo del rapporto tra insegnante e alunno, che è un rapporto di formazione; al contrario le lesioni psicofisiche che possono derivare al paziente si collocano in linea prevalente all’interno della relazione di cura tra paziente e medico.
la difficoltà della prestazione medica
Per valorizzare la peculiarità della responsabilità medica nei contesti determinati dal Covid-19, è stato da più parti invocato il riferimento all’art. 2236 C.C.: “Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave”. Questo articolo fa poco più che insediare entro l’ordinamento giuridico una regola fondata sull’esperienza comune, per cui appare necessario dare il giusto peso alle difficoltà con cui il professionista deve confrontarsi.
Non sembra però un riferimento efficace, perchè la giurisprudenza in materia di responsabilità medica ha riferito questa norma al tema della perizia (escludendo che riguardi la negligenza o l’imprudenza) e in particolare considerando che “speciale difficoltà” copre solo casi clinici straordinari ed eccezionali.
Alla luce dell’orientamento giurisprudenziale pressochè univoco, risulta arduo sostenere che questa norma possa applicarsi a situazioni come quella determinata dalla diffusione del Covid-19, dove alla drammaticità complessiva non corrisponde una speciale difficoltà dei casi clinici, considerati in quanto tali.
Inoltre, la norma riguarda solo la responsabilità del singolo professionista, non è possibile estenderne l’efficacia alla struttura sanitaria.
la colpa personalizzata
Una recentissima pronuncia in tema di responsabilità medica (Cass.. Pen. Sez. IV, 11 febbraio 2020 n. 15258) ha affermato che con l’introduzione dell’art. 590 sexies c.p. il giudice deve valutare il grado della colpa sulla base di fattori diversi, tra cui: le condizioni del soggetto che agisce e il suo grado di specializzazione; le condizioni in cui ha operato, con particolare riguardo all’impellenza; la difficoltà obiettiva di cogliere e collegare le informazioni cliniche; il grado di atipicità e novità della situazione; la motivazione della condotta con la consapevolezza della sua pericolosità.
Si rende quindi necessaria una personalizzazione della colpa in capo al medico imputato di omicidio o lesioni: “le condotte che si esaminano non sono accadute in un laboratorio sotto una campana di vetro e vanno quindi analizzate tenendo conto del contesto in cui si sono manifestate. Difficoltà tecniche e concreto contesto operativo sono quindi le piattaforme fattuali che devono essere esplorate dal giudice perché possa essere espresso un giudizio sul grado della colpa”.
Tale pronuncia della Suprema Corte potrebbe costituire un precedente autorevole per chi si trovasse chiamato a giudicare un operatore sanitario accusato di avere provocato danni o lesioni al paziente in un contesto estremo determinato dalla diffusione del Covid-19.
Va però tenuto presente che i giudici di Cassazione non hanno scritto, nè con ogni verosimiglianza voluto intendere, che l’apprezzamento notevole del peso della situazione estrema in cui il soggetto si trova a agire possa valere quale esimente parziale. Al contrario, sembrano avere indicato solo (e comunque non è poco) che tale situazione va valutata onde stabilire il grado della colpa.
la prestazione inesigibile
Il concetto di prestazione inesigibile costituisce il limite alla responsabilità civile, contrattuale ma anche extra contrattuale: per cui nessuno può essere tenuto a fare qualcosa che non rientra nelle sue possibilità. Da lì è stato allargato, con un percorso concettuale da tempo consolidato in dottrina e in giurisprudenza, alla responsabilità penale, per cui non è penalmente responsabile chi, per non provocare la lesione a un altro, avrebbe dovuto fare qualcosa che non rientra nelle sue possibilità.
Nei casi di specie, si tratta di valutare che cosa può davvero fare l’operatore sanitario, ma anche la struttura, nella situazione determinata dalle risorse concretamente disponibili, dall’organizzazione esistente, dalle conoscenze e competenze e esperienze pratiche di cui può disporre il singolo operatore sanitario.
La scarsità di personale, di posti per i ricoverandi, di mezzi e risorse terapeutiche, a fronte dell’impatto di malati riversatisi sulle strutture sanitarie; il carattere di novità della malattia da Coronavirus, la relativa scarsità di conoscenze e competenze specifiche, unita alla necessità di impiegare operatori sanitari provenienti da ambiti diversi rispetto a quelli disciplinarmente più prossimi o addirittura in corso di formazione specialistica; basterebbero a configurare una situazione in cui operatori e strutture sanitarie sono stati limitati nelle loro possibilità concrete di azione, al punto da non potere fare più di quello che hanno fatto.
È del tutto sconsigliabile la strategia argomentativa per cui tutte le situazioni di trattamento da Covid-19 sarebbero riconducibili a tipologie estreme e pertanto tutti gli operatori sanitari e le strutture coinvolti nel fronteggiare il Covid-19 dovrebbero godere di questa deresponsabilizzazione.
Questo schema può essere applicato solo allorchè l’operatore sanitario, per la situazione concreta in cui si trova, non avrebbe potuto fare nulla più di quanto ha fatto.
la grande esimente
Non si ha infatti colpa nel caso in cui il soggetto non ha possibilità di scelta ma è necessitato a agire in un determinato modo, quali che siano le ragioni di tale necessità. Non si ha colpa nemmeno se la volontà del soggetto è libera di scegliere ma per le circostanze in cui si trova la scelta si pone tra due opzioni in sé negative, per cui la libertà della volontà si esercita nello scegliere quello che al soggetto si rappresenta come il male minore.
In un celebre recente caso giudiziario (Cass. Sez. IV Pen. 31 gennaio 2008 n. 13942) l’ostetrica che assisteva la partoriente in una situazione che richiedeva particolari conoscenze e abilità, ha cercato invano di chiedere l’intervento del medico specialista. Si è trovata così a dovere scegliere tra due mali: lasciare al suo destino la partoriente oppure procedere ella stessa a assistere il parto, pure sapendo di non essere pienamente in grado di farlo. Il nascituro, secondo la possibilità che l’ostetrica aveva presente, subì lesioni gravissime. Come ha chiarito la Corte di Cassazione, la responsabilità non è tanto dell’ostetrica, che ha scelto il male minore, quanto piuttosto dei medici negligenti che non hanno prestato l’assistenza dovuta.
Il medico che, in condizione di drammatica scarsità di risorse, si trovasse a scegliere a chi somministrare le cure tra due pazienti Covid e optasse per quello che presenta maggiori possibilità di miglioramento; non potrebbe essere tenuto colpevole delle conseguenze negative cui va incontro l’altro paziente.
La situazione però dovrebbe essere esattamente quella ora descritta; qualora al medico o alla struttura si aprissero alternative concrete, seppure minime o ardue, per curare entrambi i pazienti, o qualora uno dei due fosse già in cura, l’esimente, legata alla scelta del male minore, verrebbe del tutto meno.
Appare pertanto possibile concludere che nessuna strategia può essere in grado di deresponsabilizzare la struttura e/o l’operatore sanitario per le lesioni o i danni provocati ai pazienti Covid o a altri pazienti a causa della situazione determinata dalla diffusione del Covid; salvo in casi davvero molto particolari.
Si tratta però di verificare se strutture e operatori sanitari siano i veri responsabili di tali eventi.
Il Covid-19 e il diritto alla salute
Il Rapporto 2020 della Corte dei Conti sul coordinamento della finanza pubblica segnala come l’esperienza del Covid-19 abbia evidenziato le criticità del Sistema Sanitario Nazionale: “L’insufficienza delle risorse destinate al territorio ha reso più tardivo e ha fatto trovare disarmato il primo fronte che doveva potersi opporre al dilagare della malattia e che si è trovato esso stesso coinvolto nelle difficoltà della popolazione, pagando un prezzo in termini di vite molto alto”.
Questa presa di posizione si inserisce nel filone delineato da diverse pronunce della Corte Costituzionale negli ultimi decenni che hanno sottolineato come, pure riconoscendo il limite dell’effettiva disponibilità di risorse (organizzative e finanziarie), esiste un “contenuto minimo” di prestazioni sanitarie che devono essere assicurate ai cittadini, indipendentemente dalle condizioni particolari (come nel caso la diffusione del Covid-19).
Nella stessa direzione va la riforma del titolo V del 2001, per cui l’art. 117, comma 2, lett. m), Cost., oggi recita che “i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali […] devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”.
Per tirare le somme del disposto dell’art. 117 della Costituzione come recentemente rivisto, delle pronunce della Corte Costituzionale e del Rapporto della Corte dei Conti, si può concludere che tutti i cittadini italiani, su tutto il territorio nazionale, hanno il diritto costituzionalmente garantito a ricevere, in qualsiasi condizione, prestazioni sanitarie a un livello essenziale adeguato a rispondere alle loro esigenze di salute.
La scarsità delle risorse
Tale diritto costituzionale può essere garantito concretamente solo se le strutture e gli operatori sanitari hanno a disposizione i mezzi necessari. Mezzi che, nelle situazioni legate alla diffusione del Covid-19 con la risposta assistenziale che richiede, sono vari e molteplici.
Nell’ambito della prevenzione del contagio, si tratta di misure di conoscenza e contenimento, in particolare mediante screening che richiedono la disponibilità dei test in misura adeguata; la presenza di misure legate alla sanificazione degli ambienti e alla prevenzione (con l’esigenza di disporre di presidi igienizzanti e sanificanti, di dispositivi medici quali le mascherine, di tute e altri strumenti di protezione).
Nell’ambito delle cure ai pazienti affetti da Covid-19, vengono in primo piano le risorse necessarie al trasporto e al ricovero dei malati, in modo particolare la disponibilità di posti letto e di apparati tecnici quali apparecchi per la ventilazione.
Non si dimentichino poi gli impatti della diffusione del Covid-19 su pazienti affetti da altre patologie, che possono essere stati trascurati anche nelle esigenze essenziali poste dalle loro condizioni di salute, a seguito del fatto che determinate risorse umane e/o tecniche sono state sottratte alla loro destinazione consueta per dedicarle a fronteggiare le necessità poste appunto dai pazienti affetti da Coronavirus.
Non possono essere imputate agli operatori e alle strutture mancanze e inadempienze, anche gravi, ascrivibili alla scarsità di risorse dovuta a scelte compiute da altri soggetti.
I soggetti responsabili della sanità e delle scelte relative
Il Servizio Sanitario Nazionale è un insieme complesso di enti e organi che concorrono all’obiettivo di tutelare la salute dei cittadini.
Il Ministero della Salute ha competenze generali di indirizzo, con la formulazione del Piano Sanitario Nazionale, e di controllo, dato che la Costituzione, in modo particolare dopo la revisione del Titolo V, riconosce in questa materia le competenze prevalenti delle Regioni.
Il Piano Sanitario Nazionale individua gli obiettivi prioritari per l’intero territorio italiano cui vincola la spesa pubblica assegnata alle Regioni che quindi la gestiscono “sulla scorta di linee-guida proposte dal Ministero della Salute e approvate dalla Conferenza Stato-Regioni” (sulla base della L. 23 dicembre 1996, nr. 662, art. 34 c. 1).
La spesa pubblica in materia sanitaria avviene prevalentemente grazie al Fondo Sanitario Nazional, dedicato quasi per intero (97 o 98 %, a seconda dei vari anni) a garantire i Livelli Essenziali di Assistenza.
Tali risorse vengono attribuite alle Regioni secondo il numero dei cittadini residenti, tenendo conto di una serie di parametri (quali l’età, il sesso, gli indicatori epidemiologici, il livello di assistenza), che poi finanziano le Unità locali socio sanitarie.
Anche nelle situazioni eccezionali determinatesi in seguito alla diffusione del Covid-19, appare chiaro che tanto la prevenzione del contagio e l’assistenza ai contagiati quanto la garanzia a tutti gli altri pazienti dell’assistenza di cui necessitano, rientrano nell’ambito del diritto costituzionale alla salute e dei livelli essenziali di assistenza.
Devono pertanto essere garantiti in primo luogo dal Ministero della Salute, coi suoi poteri di indirizzo tra cui spicca la redazione del Piano Sanitario Nazionale (che dovrebbe essere stato adeguato alla nuova situazione venutasi a creare per lo meno da marzo 2020) e di controllo, per vigilare che tali risorse siano davvero spese nel modo previsto.
Le Regioni sono di conseguenza tenute a ripartire tra le Unità Locali Socio Sanitarie le risorse relative e a farlo in maniera adeguata alle esigenze concrete.
Si potrebbe ritenere che, ove le risorse assegnate al singolo Servizio Sanitario Regionale non fossero sufficienti, la Regione dovrebbe essere tenuta a integrarle, con fondi propri, al fine di garantire comunque il diritto alla salute dei cittadini residenti, non in astratto ma in concreto, assicurandosi cioè che le aziende sanitarie e quelle ospedaliere dispongano dei mezzi necessari.
Per concludere: verso le vere responsabilità
Nei casi in cui un cittadino sia stato contagiato dal Coronavirus entro la struttura sanitaria; un paziente affetto da Covid-19 non abbia ricevuto le cure adeguate a livelli essenziali di assistenza, da parte della struttura nell’ambito del rapporto di spedalità o degli operatori sanitari nell’ambito della relazione di cura; oppure un paziente affetto da altra patologia non abbia ricevuto l’assistenza essenziale perchè le risorse necessarie erano destinate a fronteggiare la situazione determinata dal diffondersi del Coronavirus; per accertare le responsabilità si potrebbe procedere come segue.
In primo luogo si tratta di verificare se la struttura sanitaria abbia omesso di fare quanto in suo potere per evitare la lesione alla salute e ai diritti del cittadino danneggiato e se il singolo operatore sanitario, medico o paramedico, abbia avuto comportamenti omissivi, in particolare rispetto alle direttive ricevute dalla struttura sanitaria, o comportamenti colposi, che possano essere ragionevolmente considerati quali causa diretta della lesione alla salute psicofisica del paziente.
Nel caso in cui le risposte a tali quesiti fossero positive, è opportuno risalire a monte dei sanitari e delle strutture.
Va quindi verificato se la struttura e il sanitario si siano trovati in condizioni strutturali in cui, non disponendo delle risorse necessarie, hanno dovuto agire in un determinato modo o scegliere tra due linee di azione entrambe dannose.
Se questa ipotesi corrisponde alla situazione concreta, si tratta allora di accertare chi sia il soggetto responsabile di tali scelte.
Potrebbero ragionevolmente dipendere dall’inadeguatezza delle risorse messe a disposizione della singola struttura sanitaria da parte del Servizio Sanitario Regionale, col tramite delle Unità Locali.
Andrebbe quindi verificato se il Ministero della Salute, di concerto con la Conferenza Stato-Regioni, mediante la formulazione di un adeguato Piano Sanitario Nazionale o mediante integrazioni straordinarie al Piano già formulato, ha valutato correttamente la situazione eccezionale susseguita al diffondersi del Coronavirus; e se ha previsto nel Fondo Sanitario Nazionale o con integrazioni apposite di stanziare le risorse necessarie ripartendole in modo adeguato tra le Regioni.
In secondo luogo, per accertare eventuali responsabilità delle Regioni, se il Servizio Sanitario Regionale ha disposto risorse adeguate, eventualmente integrando con risorse proprie quelle allocate dal Fondo Sanitario Nazionale; e se le ha ripartite in modo efficace tra le Aziende Sanitarie e le Aziende Ospedaliere.
Sarà così possibile individuare la vera responsabilità della lesione alla salute del cittadino: non in capo all’operatore o alla struttura sanitaria, ma in capo alla Regione e al Ministero della Salute, che col loro operato li hanno posti nella condizione di non potere fare più di tanto o di dovere scegliere il male minore.
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E’ possibile affermare che, in assenza dei parametri clinico-assistenziali codificati a far riferimento all’emergenza sanitaria, risulta difficile poter identificare l’errore nella condotta dei sanitari.In caso di contenzioso, appare meno difendibile la posizione delle strutture sanitarie e socio assistenziali, che rispondono non solo per l’operato dei dipendenti, ma anche per carenze strutturali e organizzative, e dovranno rispondere anche per i danni subiti dai dipendenti non adeguatamente forniti di dispositivi di protezione e, soprattutto, non adeguatamente formati.Questa pubblicazione si propone di fornire agli operatori strumenti utili a conoscere i termini della responsabilità medica alla luce della pandemia, anche al fine di approntare efficaci strategie difensive.Fabio M. Donelli Specialista in Ortopedia e Traumatologia, Medicina Legale e delle Assicurazioni e in Medicina dello Sport. Docente nella scuola di Medicina dello Sport dell’Università di Brescia e docente in Scienze Biomediche all’Università degli Studi di Milano. Già professore a contratto in Traumatologia Forense presso l’Università degli Studi di Bologna e tutor in Ortopedia e Traumatologia nel corso di laurea in Medicina Legale presso l’Università degli Studi di Siena. Responsabile della formazione per l’Associazione Italiana Traumatologia e Ortopedia Geriatrica. Promotore e coordinatore scientifico di corsi in ambito ortogeriatrico, ortopedico-traumatologico e medico- legale.Mario Gabbrielli Specialista in Medicina Legale, già assistente di ruolo presso la USL 30 Area Senese. Già Professore Associato in Medicina Legale presso la Università di Roma La Sapienza. Professore ordinario di Medicina Legale presso la Università di Siena. Direttore della UOC Medicina Legale nella Azienda Ospedaliera Universitaria Senese. Direttore della Scuola di Specializzazione in Medicina Legale dell’Università di Siena, membro del Comitato Etico della Area Vasta Toscana Sud, Membro del Comitato Regionale Valutazione Sinistri della Regione Toscana, autore di 160 pubblicazioni.
Fabio M. Donelli, Mario Gabbrielli (a cura di) | 2020 Maggioli Editore
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Note
[1] Espressione coniata dai mass media nei primi mesi del 2020 e transitata poi nei linguaggi tecnici delle amministrazioni pubbliche e nei testi normativi che l’hanno resa autorevole con la forza appunto della ‘legge’.
[2] C. Fresa, Provvisorietà con forza di legge e gestione degli stati di crisi, Padova 1981, pp. 119 ss.; F. Modugno e D. Nocilla, Problemi vecchi e nuovi sugli stati di emergenza nell’ordinamento italiano, Milano 1988, pp. 532 ss
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