PREMESSA
Di recente la Cassazione (Sez. un. 20644/2004) è stata chiamata ad affrontare un problema interpretativo di difficile soluzione, relativo all’individuazione del dies a quo in tema di termine (indubbiamente quello decennale, ex art. 2946 c.c.) per esperire l’azione di riduzione in materia testamentaria; più in particolare, ci si è chiesti se il termine relativo all’azione di riduzione debba iniziare a decorrere dalla data di apertura della successione (Cass. 11809/1997), dalla data di pubblicazione del testamento, ovvero dalla data di accettazione dell’eredità da parte del chiamato.
PRECEDENTI ORIENTAMENTI
Secondo una delle impostazioni precedenti (Cass. 4230/1987 e Cass. 11809/1997), il dies a quo andrebbe individuato nel giorno dell’apertura della successione, perché da quel giorno in poi i legittimari preteriti e/o lesi potrebbero far valere il diritto alla riduzione a loro spettante, ex art. 2935 c.c.; id est poiché il legislatore, ex art. 2935 c.c., spiega che la prescrizione “incomincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere”, e poiché il “diritto alla riduzione” può essere giuridicamente esercitatile già dal momento dell’apertura della successione mortis causa, allora sarebbe lo stesso legislatore, si dice, ad imporre all’interprete di considerare il dies a quo come quello relativo all’apertura della successione.
D’altronde, si precisa, la considerazione che il legittimario possa, in concreto, non aver avuto conoscenza del testamento sarebbe solo un mero impedimento di fatto (salvo che i presupposti del diritto alla legittima, come nell’ipotesi di dichiarazione di filiazione naturale, vengano in essere dopo la morte dell’ereditando; vd. Capozzi, Successioni e donazioni, Milano, 2002; vd. anche Mengoni, Successione per causa di morte. Successione necessaria, in Trattato Cicu-Messineo, Milano, 2000), inidoneo a impedire il normale decorso del termine prescrizionale, ex art. 2935 c.c.
Secondo altra impostazione, invece, il dies a quo relativo all’azione di riduzione (avente carattere reale, ma “personale anche se non obbligatorio”; vd. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2001) sarebbe riferibile esclusivamente al momento della pubblicazione del testamento, poiché solo da tale momento si verificherebbe una presunzione iuris tantum di conoscenza, come desumibile dalla lettura delle norme in materia di pubblicazione di testamento olografo e di testamento pubblico.
In altri termini, secondo quest’ultima impostazione, l’inciso “il diritto può essere fatto valere”, ex art. 2935 c.c., andrebbe decodificato nel senso che si può far valere un diritto dal momento in cui l’interessato ne ha conoscenza ovvero, meglio, da quando il legislatore ne ipotizza la conoscenza (cioè: dies a quo dal momento della conoscibilità), lasciando intendere, ad ogni modo, la configurabilità giuridica della prova contraria (poiché si tratterebbe di presunzione iuris tantum).
Sotto tali profili interpretativi, pertanto, si comprende come la giurisprudenza precedente tendeva ad esaltare il concetto di decorso temporale oggettivo, con riferimento al dies a quo coincidente con il momento dell’apertura della successione, ovvero il concetto di decorso temporale astrattamente soggettivo (nel senso di presunzione di conoscenza basata sulla conoscibilità), con particolare riguardo al dies a quo individuato al momento della pubblicazione del testamento.
Tuttavia, tali impostazioni sembravano, almeno in parte, vulnerare il principio generale posto a fondamento, tra gli altri, dell’art. 24 Cost., che impone una tutela giuridica sostanziale (e non meramente formale), nel senso di assicurare al singolo la libertà decisionale piena in tema di difesa dei propri interessi: non si potrebbe far decorrere la prescrizione dal giorno in cui l’interessato non ne ha avuto conoscenza ovvero si presume abbia avuto conoscenza, poiché in tal modo si svilirebbe l’art. 24 Cost., inibendo, di fatto, il singolo a far valere i suoi diritti (e, quindi, limitando notevolmente la sua libertà decisionale nell’ambito della difesa dei suoi diritti).
ORIENTAMENTO DELLE SEZIONI UNITE
La giurisprudenza delle Sezioni Unite (Cass. 20644/2004) opta decisamente per un’impostazione “oggettiva soggettivizzata”, in materia di prescrizione di azione di riduzione, riducendo notevolmente di portata argomentativa le tesi contrarie, ed entrando in sintonia con la ratio dell’art. 24 Cost. e dell’art. 2935 c.c. (in coerenza, tra l’altro, con l’orientamento prevalente in tema di prescrizione nei danni lungolatenti; vd. Cass. 2645/2003, nonché Viola, La prescrizione nei danni lungolatenti, in www.filodiritto.com, 2004).
Secondo le Sezioni Unite, infatti, il dies a quo andrebbe individuato con riferimento al concetto di danno, piuttosto che di apertura di successione ovvero conoscibilità, perché il legittimario fino al momento in cui non accetta l’eredità, “rendendo attuale quella lesione di legittima che per effetto delle disposizioni testamentarie era solo potenziale”, non è legittimato ad esperire l’azione di riduzione, per carenza di interesse (per eliminare, eventualmente, la situazione di incertezza il legittimario potrà esperire nei confronti del chiamato all’eredità per testamento l’actio interrogatoria, ex art. 481 c.c.); in tal senso, infatti, appare chiaro come l’inciso “il diritto può essere esercitato”, ex art. 2935 c.c., non può che essere letto in combinato disposto con principi generali relativi all’interesse all’azione e poichè, si dice, prima dell’accettazione non c’è un danno attuale (ma solo potenziale) che giustificherebbe un interesse ad agire per la riduzione, allora prima dell’accettazione non si può far decorrere il termine prescrizionale.
In altri termini, si precisa, prima dell’accettazione non c’è alcun danno, per cui non ci può essere interesse ad agire, e quindi il diritto non può essere esercitato, ex art. 2935 c.c.
Né sarebbero in alcun modo condivisibili gli orientamenti contrari: quello relativo al momento dell’apertura della successione come dies a quo del termine prescrizionale dell’azione di riduzione, sarebbe carente dei presupposti di diritto, perché con la sola apertura della successione “non si è ancora realizzata la lesione di legittima e quindi mancano le condizioni di diritto”; l’altro, relativo alla presunzione iuris tantum della conoscenza delle disposizioni lesive della legittima peccherebbe di giuridicità, perché “non vi è traccia nella legge” e “manca di fondamento giuridico” l’istituto della presunzione iuris tantum in ambito testamentario.
In questo senso, pertanto, sarebbe l’esaltazione del concetto di danno attuale, e quindi conosciuto in concreto (e non solo in astratto, per cui c.d. danno oggettivo soggetivizzato), a giustificare il decorso del termine prescrizionale dal momento dell’accettazione.
RIFLESSIONI
La tesi sostenuta dalle Sezioni Unite, indubbiamente sembra coerente con i principi generali dell’ordinamento giuridico, anche in ossequio a letture costituzionalmente orientate, seppure non appare risolutiva rispetto ad una serie di ipotesi in cui l’acquisto dell’eredità avvenga in altri modi.
Nel caso in cui, ad esempio, l’accettazione avvenga in modo tacito, appare davvero difficile individuare il momento dell’accettazione formale, senza contare che nelle fattispecie tipiche di acquisto senza accettazione il principio enunciato dal Supremo Collegio appare di difficile applicabilità, come nelle ipotesi delineate dall’art. 485 c.c., ovvero 527 c.c. (Vd. nota a Cass. 20644/2004 di Leo, Una soluzione che non sembra tener conto delle modalità di acquisto del legato, in Guida al diritto, 44/2004, pag. 17).
In questo senso, pertanto, si coglie a pieno come il recente orientamento, seppur spinto da esigenze di tutela effettiva dell’ordinamento e costituzionalmente orientate, sembra ben lungi dall’aver sciolto il nodo interpretativo de quo, quanto piuttosto sembra aver segnalato una nuova strada interpretativa da seguire nell’ambito del concetto di accettazione, con riferimento a tutte quelle ipotesi in cui tale figura non sia prevista dal legislatore expressis verbis, ovvero non sussista proprio.
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