Riferimenti normativi: art. 3 Convenzione EDU; art. 22 c.p.; artt. 4bis e 58ter Legge n. 354 del 1975 sull’ordinamento penitenziario
Precedenti giurisprudenziali: Corte EDU, Sezione I 13 giugno 2019, Viola c. Italie; Corte EDU, G. C., sentenza 9 luglio 2013, Vinter e altri c. Regno Unito; Corte EDU, G. C., sentenza 26 aprile 2016, Murray c. Paesi Bassi; Corte EDU, G.C., sentenza 17 gennaio 2017, Hutchinson c. Regno Unito.
Osservazioni preliminari
Con questo intervento si vuole focalizzare l’attenzione su una vicenda giuridica che ha visto recentemente affermarsi, in seno alla Corte di Strasburgo, una linea giurisprudenziale che desta non poche perplessità.
Il tema riguarda l’istituto del cosiddetto ergastolo ostativo[1], previsto nell’ordinamento italiano per alcuni reati e in presenza di determinate condizioni, ritenuto dai Giudici della Corte EDU, Sezione I, sentenza 13 giugno 2019, contrario all’art. 3 della Convenzione EDU, che vieta trattamenti inumani e degradanti e, in generale, della dignità umana[2]. Una decisione, confermata anche dalla Grande Camera della Corte di Strasburgo, sentenza del 7 ottobre 2019 e, destinata ad avere effetti di ampia portata per l’elevato numero di ricorsi pendenti relativi a casi simili[3]. Aperta è, quindi, ogni valutazione sul possibile impatto concreto di tale decisione, ancorché non vincolante, sulla reale condizione degli ostativi.
In termini preme, sin da subito, rilevare che in tale sentiero sembra essersi addentrata la Corte costituzionale che, proprio in questi giorni, con sentenza del 23 ottobre 2019, ha dichiarato la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 4bis dell’ordinamento penitenziario, ove non preveda la concessione di permessi premio, nonostante «siano stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata. Sempre che, ovviamente, il condannato abbia dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo». Una decisione, importante sul piano della giurisprudenza, e non solo, destinata a sortire effetti rilevanti nell’assicurare un rafforzamento dei diritti fondamentali dell’uomo e un innalzamento della relativa tutela.
Accade qui, d’altra parte, che si bilancino puntualmente esigenze ed istanze espressione di interessi e bisogni molto estesi e diversificati tra loro: quelli dei familiari delle vittime, dei sopravvissuti e della società tutta a che sia garantita giustizia e, quello dei carnefici ad essere condannati a una pena proporzionata e alla possibilità di usufruire della possibilità di reingresso nella società. Un’opzione, quest’ultima, che il “fine pena mai” non contempla.
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La fattispecie controversa
Con sentenza del 7 Ottobre 2019 la Corte EDU ha rigettato la richiesta del Governo italiano, presentata ai sensi dell’art. 43 della Convenzione EDU, di rinvio alla Grande Camera del caso Viola c. Italia, già deciso con sentenza dalla Sezione Prima della Corte.
A ricorrere alla Corte europea è stato Marcello Viola, personaggio di indubbio spessore criminale. Condannato all’ergastolo per i reati di associazione a delinquere di stampo mafioso, omicidio ed altri crimini, sottoposto durante il periodo di detenzione, sia pure per un breve arco di tempo, al regime carcerario previsto dall’art. 41bis dell’ordinamento penitenziario. Viola, soprannominato il “boss-chirurgo”, per aver conseguito la laurea in medicina e chirurgia durante il periodo di detenzione, inizia, a partire dall’anno 2000, a formulare richieste per il rilascio di permessi premio e, successivamente, la libertà condizionale. Richieste sempre rigettate dai Giudici italiani, in ragione della mancata prova di effettiva e consapevole collaborazione del detenuto con gli organi inquirenti. Rifiuto motivato dal ricorrente, che si è sempre proclamato innocente, per il timore di possibili ritorsioni nei confronti dei propri familiari.
Malgrado la risposta negativa dei giudici nazionali, Viola decide di adire la Corte europea dei diritti dell’uomo in forza del particolare sistema di tutela introdotto dalla CEDU, che riconosce ai singoli individui la possibilità di presentare ricorso dinnanzi alla Corte. Un congegno che ha marcato sensibilmente il successo del sistema di Strasburgo, provocando il proliferare di una giurisprudenza particolarmente ricca in materia di violazione di diritti umani.
Al centro del ricorso l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo intitolato “Proibizione della tortura” che garantisce che «nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti». A parere del ricorrente, contrasterebbe con l’art. 3 Cedu l’istituto dell’ergastolo ostativo che pone il detenuto di fronte ad una scelta: decidere di collaborare, rinunciando alla convinzione di essere innocente e correndo il rischio di rappresaglie della mafia nei confronti della propria vita e anche di quella dei propri familiari oppure, decidere di non collaborare, così di fatto rinunciando ad ogni possibilità di accedere alla liberazione condizionale.
La Corte europea dei diritti dell’uomo, come già anticipato, accertata la violazione dell’art. 3, dà ragione a Viola, in virtù della circostanza che la dignità dell’uomo è al centro del sistema convenzionale, e non può essere compromessa da trattamenti inumani e degradanti, quali sono quelli derivanti dal regime dell’ergastolo ostativo.[4] Tuttavia, nella decisione, la Corte non stigmatizza in generale l’istituto dell’ergastolo, ritenuto nella decisione Garagin c. Italia e Scoppola c. Italia[5] di per sé non incompatibile con l’art. 3 della Convenzione, ma solo il regime del carcere ostativo, in quanto basandosi su una presunzione automatica di pericolosità sociale del detenuto, non permetterebbe una valutazione sostanziale della sua situazione. Di qui, la condanna dell’Italia arrivata con sentenza del 13 Giugno 2019 (ricorso n. 77633/2016), per la riforma della disciplina dell’ergastolo ostativo che dovrebbe prevedere la possibilità di un riesame della pena, sulla scorta di una reale valutazione della condotta serbata dal detenuto, senza che la sua mancata collaborazione con la giustizia sia automaticamente indice di una presunzione di assoluta pericolosità, ostativa ad ogni sua possibilità di reinserimento sociale.
Contro questa sentenza il governo italiano presenta ricorso alla Grande Chambre della Corte. In particolare, l’Italia risponde alla condanna, enunciando le possibili vie d’uscita dall’ergastolo ostativo, per effetto dei nuovi istituti introdotti dalla Cassazione, la grazia del presidente della Repubblica e l’interruzione dell’esecuzione della pena per motivi di salute, sottolineando come l’inserimento lavorativo, e di conseguenza la riabilitazione sociale, sia una strada percorribile anche sotto il regime penitenziario previsto dall’articolo 4bis o.p.
Argomentazioni riconosciute dalla Grande Camera, che ha mostrato di condividere la posizione del governo italiano sulla pericolosità e gravità dell’associazione di stampo mafioso, per le sue specifiche caratteristiche che denotano il vincolo che lega i suoi membri, e di conseguenza ha ribadito che la scelta del regime di giustizia penale, improntata ad una finalità di prevenzione generale, incluso il riesame delle pene e le modalità di scarcerazione, rientrino nella competenza degli Stati membri, sempre che tali scelte non siano contrarie ai principi della Convenzione. Ciò nonostante, con sentenza del 7 Ottobre 2019 la Corte EDU rigetta il ricorso presentato dal Governo italiano, stigmatizzando la portata applicativa dell’istituto dell’ergastolo ostativo, in quanto esso «limita eccessivamente la prospettiva di rilascio dell’interessato e la possibilità di riesame della pena». In particolare, i Giudici di Strasburgo mettono in discussione l’impossibilità per il condannato, sottoposto a siffatto regime detentivo, di ottenere permessi, libertà condizionale, sconti di pena, a causa della mancata collaborazione con la giustizia. Ciò in ragione del fatto, argomentano i giudici della Corte EDU, che l’assenza di collaborazione non può condurre automaticamente ad una presunzione di pericolosità sociale, tale da indicare una mancata rieducazione del condannato.
In altri termini, è l’equivalenza tra mancata collaborazione e benefici a non aver convinto Strasburgo.
L’ergastolo ostativo nel quadro normativo italiano ed il dibattito tra le corti
Per meglio comprende la portata delle decisioni in commento, è necessario fare il punto sullo stato dell’arte della legislazione interna e della prassi giurisprudenziale in materia di ergastolo ostativo, disciplinato a norma degli articoli 22 del codice penale nonché, 4bis e 58ter della legge sull’ordinamento penitenziario.
Con l’introduzione dell’art. 4-bis ad opera del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa), l’impostazione dell’ordinamento penitenziario è stata radicalmente modificata. Se infatti prima, la previsione della pena dell’ergastolo cosiddetto ordinario consentiva, comunque, la revisione della sua durata sulla base del comportamento tenuto dal detenuto in fase esecutiva ed eventualmente, in caso di valutazione positiva del percorso riabilitativo/risocializzante, la concessione della liberazione condizionale, risultando, evidentemente, conforme alla Convenzione così come interpretata a Strasburgo. Ora, al contrario, con l’istituto dell’ergastolo ostativo, ad avere un ruolo centrale nell’economia dell’istituto è la collaborazione con la giustizia[6]. Ciò in ragione del fatto che, introdotto come misura di lotta alla mafia, l’istituto dell’ergastolo ostativo è, più specificamente, un espediente ulteriore per ottenere la “collaborazione” dei boss condannati alla più grave pena, che solo con la cosiddetta “collaborazione di giustizia” avrebbero potuto godere di una qualche attenuazione del “carcere a vita”.
In via generale, tale peculiare regime di detenzione opera nei confronti di individui condannati all’ergastolo per uno dei gravi delitti di cui all’art. 4-bis o.p. -tra i quali figura quello di associazione di tipo mafioso ex art. 416-bis c.p.- e non inclini a collaborare con la giustizia ai sensi dell’art. 58-ter o.p. Quest’ultima disposizione, in particolare, definisce quali persone che collaborano con la giustizia coloro che «anche dopo la condanna, si sono adoperati per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero hanno aiutato concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati».
L’accertata mancata collaborazione conduce, quindi, ad una presunzione automatica di pericolosità sociale del condannato -in altri termini, una presunzione assoluta di permanenza dei legami con l’organizzazione criminale- si dà precludergli la partecipazione attiva a programmi individuali di rieducazione con permessi premio, libertà condizionale, semilibertà. Percorsi, questi ultimi, tesi a favorire il reinserimento della persona nel tessuto sociale in modo controllato, a vantaggio del detenuto e dell’intera collettività.
Due ipotesi fanno eccezione alla regola, ai sensi dell’art. 4-bis, co. 1-bis, o.p.: la circostanza in cui si registra un’evidente impossibilità del detenuto a collaborare, cosiddetta collaborazione impossibile, e, il caso in cui il condannato, in ragione del suo ruolo marginale nella realizzazione del fatto tipico di reato, non sia in grado di fornire informazioni rilevanti, cosiddetta collaborazione irrilevante. Ne consegue che, in tale evenienza, pur in assenza di collaborazione, il soggetto potrà accedere ai benefici penitenziali e, consequenzialmente compiere un cammino verso la ricostruzione della propria personalità, sempre che «siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata […]».
È evidente che nel nostro ordinamento, l’accertamento della collaborazione si mostri in termini di giudizio su un fatto normalmente antecedente la condanna, che non coinvolge assolutamente la personalità del detenuto né la sua evoluzione. Accade infatti che, il giudice di sorveglianza sia chiamato in prima istanza ad accertare se, anche dopo la condanna, gli autori del reato abbiano aiutato concretamente l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati, art. 58-ter primo comma. Ove tale riscontro non dia esito positivo, il giudice dovrà verificare se “la limitata partecipazione al fatto criminoso, accertata nella sentenza di condanna, ovvero l’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità, operato con sentenza irrevocabile, rendono comunque impossibile un’utile collaborazione con la giustizia”.
Pertanto, appare indubbio che l’indagine sull’intervenuta collaborazione rilevi come un’operazione a carattere meramente ricognitivo, incentrata su un dato storico, poiché relativo a quanto avvenuto nel processo di condanna, e quindi estraneo al procedimento di sorveglianza. Logica conseguenza è che l’istituto della collaborazione, così come strutturato, non possa essere identificato come un elemento atto a valutare, addirittura in modo vincolante, il percorso educativo del condannato[7].
Sul crinale del diritto vivente, la Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla tenuta costituzionale dell’ergastolo ostativo, con riferimento al principio di rieducazione della pena di cui all’art. 27, co. 3, Cost. ha sempre respinto, fino ad oggi, ogni censura dal momento che: «subordinando l’ammissione alla liberazione condizionale alla collaborazione con la giustizia, che è rimessa alla scelta del condannato, [la disciplina] non preclude in modo assoluto e definitivo l’accesso al beneficio, e non si pone, quindi, in contrasto con il principio rieducativo enunciato dall’art. 27, terzo comma, Cost.», sentenza 24 aprile 2003, n. 135.
Tuttavia, la stessa Corte ha, recentemente, mostrato una maggiore sensibilità in punto di implicazioni del principio rieducativo, dichiarando illegittimo, per violazione degli articoli 3 e 27 terzo comma della Costituzione, l’art. 58quater, comma 4, della legge 354/1978[8]. In tal caso, il Giudice delle leggi ha dichiarato incompatibili con il vigente assetto costituzionale le previsioni che precludano in modo automatico, cioè impedendo al giudice una qualsiasi valutazione individuale sul concreto percorso di rieducazione del condannato, l’accesso ai benefici a determinate categorie di detenuti, in ragione del solo titolo di reato che supporta la condanna. Siffatti criteri, ad avviso dei giudici costituzionali, devono essere applicati in fase di determinazione della pena, ma non possono operare in fase di esecuzione, ponendosi in netto contrasto con il principio costituzionale della funzione rieducativa della pena, che deve essere sempre garantita anche nei confronti di autori di reati gravissimi[9].
Un atteggiamento di maggiore sensibilità si registra anche tra i giudici di legittimità, che di recente hanno sollevato una questione di legittimità costituzionale, proprio sul regime del carcere ostativo, nel tentativo di scardinare, almeno parzialmente, il meccanismo di cui all’art. 4bis o.p.[10] L’oggetto della censura dei giudici remittenti non è l’intero congegno dell’ergastolo ostativo, muovendo, invece, da un’analisi critica ritagliata sulla singola vicenda. In particolare, il quesito concerne i condannati all’ergastolo ostativo per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416bis c.p., ovvero al fine di agevolare l’attività di associazioni in esso previste, che richiedono la concessione di permessi premio, nonostante l’assenza di collaborazione con la giustizia, ai sensi dell’art. 58ter dell’ordinamento penitenziario.
Sul punto, come già anticipato, la Consulta si è espressa con decisione del 23 ottobre 2019[11], di cui si attende il deposito del dispositivo, accogliendo la questione e, nei limiti di quanto chiesto dai giudici rimettenti, dichiarando l’illegittimità costituzionale della previsione dell’articolo 4 bis, comma 1, dell’Ordinamento penitenziario. A sostegno della propria decisione, la Corte porta argomenti che coinvolgono congiuntamente i principi di eguaglianza e della rieducazione del condannato, ma soprattutto valorizzano questo secondo principio.
Un nesso inscindibile, argomenta il Giudice delle Leggi, quello che intercorre tra dignità della persona e risocializzazione del condannato. Così la Consulta si mostra, almeno per ora, in piena sintonia e convergenza con la giurisprudenza di Strasburgo, la quale ha dato, e continua a dare, significativi contributi, specie in tema di pena detentiva a vita, che la Corte pretende che sia “riducibile, ossia sottoposta a un riesame che permetta alle autorità nazionali di verificare se, durante l’esecuzione della pena, il detenuto abbia fatto dei progressi sulla via del riscatto tali che nessun motivo legittimo relativo alla pena permetta più di giustificare il suo mantenimento in detenzione”[12].
Sulla scorta di tali considerazioni, possiamo procedere ad una disamina sulla posizione esegetica assunta dai giudici di Strasburgo nei due recenti interventi sul caso Viola c. Italia, tesi a vagliare la posizione del ricorrente Viola unicamente sotto l’angolatura dell’art. 3 della Convenzione EDU.
I profili di incompatibilità del carcere ostativo con la Convenzione EDU
Strasburgo, con due decisioni[13] destinate ad avere effetti di più ampia portata rispetto al caso di specie, ha censurato la fisionomia dell’ergastolo ostativo, attualmente vigente nel nostro ordinamento, per contrasto con il principio della dignità umana, tutelante qualsiasi interesse collegato alla realizzazione della personalità dell’individuo. La Corte, a fronte di un problema strutturale, che si ricava anche dalla circostanza della pendenza dei numerosi ricorsi a Strasburgo, ha condannato l’Italia per la violazione dell’art. 3 della Convenzione, che vieta la tortura e i trattamenti degradanti e disumani, perché non consente di ritenere riducibile una pena perpetua, per il solo fatto che il condannato non abbia collaborato con la giustizia, prescindendo da una valutazione del suo comportamento e dell’incidenza della pena già scontata sulla personalità del detenuto.
È evidente, osservano i giudici di Strasburgo, che il sistema convenzionale di tutela dei diritti non contrasta con l’applicazione di una pena perpetua, laddove siano commessi gravi delitti, come rilevato nelle pronunce Vinter e Hutchinson c. Regno Unito e Murray c. Paesi Bassi. Tuttavia, affinché sia rispettato il parametro convenzionale ai sensi dell’art. 3, è necessario che l’ordinamento giuridico predisponga dei meccanismi che consentano di procedere ad una rivalutazione della pena perpetua, consentendo un graduale reinserimento del condannato all’ergastolo nel contesto sociale durante l’intero arco di esecuzione della pena.
Secondo la giurisprudenza della Corte, il rispetto della dignità del detenuto sottoposto alla pena dell’ergastolo e, delle previsioni dell’articolo 3 della Convenzione, devono concretizzarsi, sempre, nell’effettiva prospettiva di scarcerazione per il condannato alla pena perpetua[14]. Pertanto, non è sufficiente un diritto a sperare nell’ipotetica interruzione della pena perpetua, scevra da alcuna veste sostanziale e indeterminabile dal punto di vista temporale, ad azzerare ogni sovrastruttura e a riportare al primato la garanzia della dignità umana. Al contrario, l’articolo 3 della Convenzione, secondo la lettura dei giudici di Strasburgo, impone la creazione di un sistema che riconosca al condannato all’ergastolo una reale prospettiva di liberazione e, di conseguenza una possibilità di riesame della pena[15].
Pertanto, i giudici di Strasburgo pur riconoscendo che la previsione di cui all’art. 4bis o.p. non neghi in maniera assoluta la possibilità per l’ergastolano di accedere alla liberazione condizionale, a condizione che vi sia una reale volontà del detenuto di collaborare con la giustizia, tuttavia esprimono dubbi e perplessità sull’adeguatezza dell’equivalenza “mancata collaborazione= presunzione assoluta di pericolosità sociale”, nonché in ordine al carattere libero e discrezionale della scelta collaborativa.
Prima di tutto, la Corte evidenzia che non sempre l’assenza collaborazione con le autorità inquirenti è frutto di una scelta volontaria, dettata da una permanente adesione ai “valori criminali”, e quindi, tale da indicare una mancata rieducazione del condannato. D’altra parte, come lo stesso ricorrente Viola ha sottolineato, ben può accadere che, il rifiuto di collaborazione con la giustizia dipenda dal timore di mettere a repentaglio la propria vita e quella dei prossimi congiunti. Né si può omettere di sottolineare che, viceversa, la collaborazione potrebbe essere legata a finalità meramente opportunistiche, per accedere ai benefici penitenziari, in ciò non riflettendo la scelta del detenuto di dissociarsi effettivamente dl sodalizio.
In secondo luogo, la presa di posizione dei giudici di Strasburgo si ricollega al fatto che, l’equivalenza tra mancata collaborazione e permanenza di pericolosità sociale induce ad ancorare il giudizio sulla pericolosità al momento della commissione del fatto, senza tenere conto del percorso di riabilitazione compiuto dal detenuto durante la fase dell’esecuzione della pena[16]. Un meccanismo che, di fatto, preclude all’autorità giudiziaria di procedere ad una verifica in concreto, a prescindere dall’avvenuta collaborazione con la giustizia, del percorso rieducativo compiuto dal singolo detenuto. D’altronde, una persona condannata non ha una personalità immutabile dal momento della commissione del fatto fino al termine della pena, ma può evolversi, e di questo le autorità dovrebbero tenerne conto.
Inoltre, ad avviso della Corte, la previsione che accorda al detenuto la possibilità di ottenere la grazia del Presidente della Repubblica o la sospensione dell’esecuzione della pena per motivi di salute, non è un argomento sufficiente a stemperare il rigore del congegno ostativo, anche solo per il fatto che, fino ad ora la grazia non è mai stata concessa ad un “ergastolano ostativo”.
Così ragionando, la Corte EDU, nell’accogliere il ricorso di Viola, scardina il meccanismo fondato sulla equivalenza tra mancata collaborazione e permanenza della pericolosità sociale ex art. 58 o.p., in quanto incompatibile con i criteri che consentono di tener conto, in concreto, del percorso di riabilitazione del detenuto e dei progressi compiuti nel corso dell’esecuzione della pena. D’altra parte, se ben ci pensiamo, la circostanza che la collaborazione si collochi non lungo il percorso di rieducazione del condannato, ma in quello degli elementi utili per le indagini e la lotta contro la criminalità organizzata è dimostrato dall’intento del nostro legislatore che ha messo in luce, sin da subito, il fatto che essa debba essere “utile”.
Per tali motivi, accertata la violazione dell’art. 3 della CEDU, i giudici internazionali hanno paventato un riesame del regime dell’ergastolo ostativo da parte dell’ordinamento italiano, al fine di assicurare ai detenuti, sottoposti ad un regime di carcerazione perpetua, una possibilità reale di reinserimento e un’opportunità di recupero della propria libertà. In sostanza, l’auspicio di Strasburgo è che l’ordinamento italiano adotti una riforma che permetta alle autorità competenti di valutare caso per caso il percorso rieducativo compiuto dal detenuto, in vista di una possibile rivisitazione critica della sua condotta criminosa, tale da non rende più necessario il mantenimento del regime detentivo. Ed altresì, consenta al detenuto, sin dall’inizio, di conoscere a quali condizioni e sulla base di quali presupposti potrà essere presa in considerazione la sua richiesta di accesso ai benefici penitenziali.
Con la chiara precisazione, sottolinea la Corte EDU, che il diritto al riesame della pena perpetua non comporta “automaticamente” che venga ottenuta la scarcerazione immediata e incondizionata, specie ove sussistano elementi che facciano ritenere che il detenuto costituisca ancora un reale pericolo sociale.
Quali, dunque, le misure che l’Italia è chiamata ad adottare?
… e il loro riflesso sul nostro ordinamento giuridico
Sul piano del dato positivo, a fronte del silenzio del nostro Legislatore, da più parti si auspica una riforma normativa che permetta, in ogni caso, al giudice competente di condurre una valutazione del percorso compiuto dal detenuto durante l’esecuzione della pena, tenendo conto che proprio la pena può indurre il sottoposto ad una rivalutazione del proprio percorso criminale, stimolandolo a compiere un cammino proficuo verso la ricostruzione della propria personalità[17].
La nostra Corte costituzionale, come rilevato a più riprese, si è pronunciata, in questi giorni, sul tema dell’ergastolo ostativo, disinnescando, almeno parzialmente, il sistema di preclusione all’accesso dei benefici penitenziari di cui all’art. 4bis dell’ordinamento penitenziario[18].
Per i giudici delle leggi, la presunzione di pericolosità sociale del condannato, che non dia prova di collaborazione attiva con la giustizia, non può essere più intesa in termini “assoluti”, ma diventa “relativa”, si dà permettere le preclusioni all’accesso ai benefici solo sulla base di una valutazione individualizzata del percorso del detenuto, che deve basarsi «sulle relazioni del Carcere nonché sulle informazioni e i pareri di varie autorità, dalla Procura antimafia o antiterrorismo al competente Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica».
In tale pronuncia la Corte costituzionale ha sancito che ai fini della concessione dei permessi premio ai condannati per delitti di cui all’art. 4 bis, comma 1 dell’Ordinamento penitenziario,
il presupposto della collaborazione non costituirà più l’unico elemento di prova legale della mancanza di pericolosità sociale del condannato, potendo la magistratura di sorveglianza verificare in concreto le ragioni che accompagnano l’assenza di collaborazione, senza dover inferire, automaticamente, la persistente pericolosità sociale del soggetto. In sostanza, la determinazione del punto di equilibrio tra rieducazione e pericolosità viene rimessa al giudizio dell’autorità giudiziaria, chiamata a riscontrare, in concreto, la prova piena di partecipazione al percorso rieducativo, da un lato e, escludere il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata, dall’altro.
Ragionando in questi termini, la Consulta ha, quindi, restituito dignità al ruolo valutativo della magistratura di sorveglianza, e conseguentemente responsabilizzato il sistema penitenziario nella costruzione di percorsi educativi veri e differenziati per ciascun condannato, tesi a valorizzare individualmente il percorso del detenuto, esattamente in linea con il principio di reinserimento sociale che impone l’articolo 27 della Costituzione. In altri e più incisivi termini, il giudice delle leggi, con tale decisione, ha riconosciuto che ogni pena, anche l’ergastolo per i più gravi reati, debba avere sempre una finalità rieducativa. Nel contempo, il segnale trasmesso dalla Corte costituzionale suona anche come un monito a difesa di un diritto penale che si faccia garante dei fondamentali principi di civiltà.
Dunque, nessun automatismo nella concessione dei benefici, piuttosto una valutazione concreta caso per caso, ma anche nessun regalo agli esponenti delle consorterie mafiose, in quanto quello che la Corte afferma, è che anche il più grave dei fenomeni criminali debba poter essere combattuto senza automatismi o preclusioni in termini assoluti, e senza dover sacrificare la funzione rieducativa sull’altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena[19].
Pertanto, per la Consulta, sebbene per l’appartenente ad una consorteria mafiosa il mancato riconoscimento dei benefici penitenziari resti assolutamente la regola del nostro sistema, tale regola è derogabile ove, il magistrato di sorveglianza ritenga di poter escludere la pericolosità sociale del detenuto, sulla base di una valutazione sul suo percorso di riabilitazione, anche in assenza di collaborazione.
È evidente, quindi, che sia compito del magistrato di sorveglianza valutare se, nel caso concreto, l’assenza di collaborazione sia dovuta a ragioni che non inficiano il giudizio positivo sul percorso penitenziario compiuto da detenuto e sul suo definitivo distacco dalla sfera criminale. In altri termini, la presunzione di pericolosità sociale che sta alla base del regime ostativo di cui all’art. 4-bis, co. 1 della Legge sull’ordinamento penitenziario deve essere intesa come relativa e non più assoluta. Un percorso logico-argomentativo non nuovo per la Consulta, che in questi termini si era già espressa, in materia di misure cautelari, trasformando la presunzione assoluta di adeguatezza della misura della custodia cautelare in carcere per i mafiosi, in una presunzione relativa.
In definitiva, in attesa del dispositivo, non sembra azzardo rilevare che la decisione della Corte costituzionale testimonia una netta intolleranza verso rigidi automatismi che precludano la verifica, in concreto, della pericolosità sociale di determinate categorie di soggetti, sacrificando la funzione rieducativa della pena, riconosciuta preminente dalla Consulta.
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Note
[1] Per l’approfondimento dell’istituto nella recente letteratura cfr., C. Musumeci, A. Pugiotto, Gli ergastolani senza scampo. Fenomenologia e criticità costituzionali dell’ergastolo ostativo, Napoli, 2016; D. Galliani, A. Pugiotto, Eppure qualcosa si muove: verso il superamento dell’ostatività ai benefici penitenziari?, in Riv. AIC, n. 4/2017
[2] Corte europea dei diritti dell’uomo, Viola c. Italia, ricorso n. 77633/16. Precedenti giurisprudenziali, Corte EDU, G. C., sentenza 9 luglio 2013, Vinter e altri c. Regno Unito; Corte EDU, G. C., sentenza 26 aprile 2016, Murray c. Paesi Bassi; Corte EDU, G.C., sentenza 17 gennaio 2017, Hutchinson c. Regno Unito. In Letteratura, S. Bernardi, La disciplina dell’ergastolo senza possibilità di liberazione alla luce delle più recenti sentenze di Strasburgo, in Riv. it. dir. proc. pen., n. 3/2017, p. 1215 ss.; P. Bernardoni, I molteplici volti della compassione: la grande camera della Corte di Strasburgo accetta le spiegazioni dei giudici inglesi in materia di ergastolo senza possibilità di liberazione anticipata, Nota a Corte EDU, Grande Camera, sent. 17 gennaio 2017, Hutchinson c. Regno Unito, in Riv. Diritto penale contemporaneo, n. 4/2017.
[3] Corte europea dei diritti dell’uomo, G. C., Viola c. Italie (2), sentenza 7 ottobre 2019.
[4] Fra i contributi più recenti sull’approfondimento della causa Viola c. Italia, E. Santoro, Intervento terza parte Corte europea dei diritti dell’uomo. Ergastolo ostativo. Viola c. Italia, in Riv. L’altro diritto onlus, 2017; S. Santini, Anche gli ergastolani ostativi hanno diritto a una concreta “via di scampo”: dalla Corte di Strasburgo un monito al rispetto della dignità umana, in Riv. Diritto penale contemporaneo, 2019
[5] Scoppola, decisione dell’8-9-2005, n. 10249/03, e Garagin, decisione del 29-4-2008, n. 33209/07. Qui, i giudici di Strasburgo hanno considerato conforme all’articolo 3 della Convenzione l’ergastolo ordinario previsto dall’ordinamento italiano facendo espresso riferimento alle garanzie che il sistema assicura agli ergastolani in termini di reinserimento sociale (in tal senso, si veda Vinter c. Regno Unito, sentenza di Grande Camera del 9 luglio 2013, n. 66069/09, 130/10, 3896/10, §§ 72 e seguenti), nonché alla posizione della nostra Corte Costituzionale, sentenza n. 264 del 1974.
[6] In questi termini, E. Santoro, Intervento terza parte, op. cit., p. 3
[7] Sul crinale legislativo, nel corso degli ultimi anni tale rigoroso orientamento sembra essere stato smussato, sebbene solo in via teorica. Lo dimostra la circostanza che nel 2013 la Commissione Palazzo propose di sostituire la presunzione assoluta di pericolosità, che sussiste nelle ipotesi di non collaborazione, con una presunzione relativa, che consenta di tenere conto dei progressi compiuti dal detenuto. Ed ancora, nel 2015, gli Stati generali dell’esecuzione penale suggerivano un’alternativa al meccanismo collaborativo, per assicurare l’accesso ai benefici premiali. Non meno importante, la proposta contemplata dalla cosiddetta legge Orlando che all’art. 1, co. 85, lett. e) delegava il governo ad intervenire in materia di ordinamento penitenziario, rimuovendo gli automatismi che ostacolano l’individualizzazione del trattamento rieducativo e ripensando al regime d’accesso ai benefici penitenziari. Una proposta rimasta solo su carta, non essendo il decreto di attuazione n. 214 del 2018 intervenuto su le norme relative all’accesso ai benefici penitenziari da parte degli ergastolani ostativi.
[8] Corte Cost., sentenza 11 luglio 2018, n.149. Sul tema, in dottrina E. Dolcini, Dalla Corte costituzionale una coraggiosa sentenza in tema di ergastolo (e di rieducazione del condannato), in Riv. Diritto penale contemporaneo, n.7-8/2018.
[9] Altri precedenti citati dalla Corte costituzionale, sentenze n. 331 del 2011, n. 78 del 2007, n. 257 del 2006, n. 4450 del 1998, n. 68 del 1995, n. 306 del 1993 e n. 313 del 1990
[10] Cass., Sez. I, ordinanza del 20 novembre 2018, n. 57913, depositata il 20 dicembre 2018. L’ordinanza in commento solleva infatti questione di legittimità costituzionale, con riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, dell’art. 4 bis, comma 1 della legge sull’ordinamento penitenziario, nella parte in cui esclude che il condannato all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416 bis c.p., ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia a norma dell’art. 58 ter ord. pen., possa beneficiare dei permessi premio di cui all’art. 30 ter ord. pen. Fra gli approfondimenti sul tema, M. C. Ubiali, Ergastolo ostativo e preclusione all’accesso ai permessi premio: la Cassazione solleva questione di legittimità costituzionale in relazione agli articoli 3 e 27 Cost., in Riv. Diritto penale contemporaneo, 2019
[11] Corte Cost. decisione del 23 ottobre 2019, su questioni sollevate dalla Corte di cassazione e dal Tribunale di sorveglianza di Perugia in ordine alla legittimità dell’articolo 4 bis, comma 1, dell’Ordinamento penitenziario là dove impedisce che per i reati in esso indicati siano concessi permessi premio ai condannati che non collaborano con la giustizia.
[12] Vinter c. Regno Unito e Murray c. Paesi Bassi, cit.
[13] Corte EDU, Sezione I, Viola c. Italie, ricorso n. 77633716; Corte EDU, G. C., Viola c. Italie (2), sentenza del 7 ottobre 2019. In tema di ergastolo ostativo davanti alle Corti sovranazionali, preziose risultano le osservazioni sul caso Viola di F. Fiorentin, L’ergastolo ostativo ancora danti al giudice di Strasburgo, in Riv. Diritto penale contemporaneo, n. 3/2018.
[14] In questi termini la Corte EDU è intervenuta nella decisione assunta nel caso Vinter c. Regno Unito della Grande Camere del 9 luglio 2013, in relazione all’istituto del life imprisonment without parole dell’ordinamento inglese, affine all’ergastolo ostativo.
[15] Vinter c. Regno Unito, cit.; Hutchinson c. Royaume-Uni [GC], n. 57592/08, §42, CEDH 2017
[16] Sul principio rieducativo della pena, tra i tanti in letteratura, E. DOLCINI, Il principio della rieducazione del condannato: ieri, oggi, domani, in Riv. it. dir. proc. pen., n. 3/2018; G. L. GATTA, Superare l’ergastolo ostativo: tra nobili ragioni e sano realismo, in Riv. it. dir. proc. pen., n. 4/2017
[17] In tal senso, fra i tanti, E. Santoro, Intervento terza parte, op. cit., p. 10; E. DOLCINI, Il principio della rieducazione del condannato: ieri, oggi, domani, op. cit.; G. L. GATTA, Superare l’ergastolo ostativo: tra nobili ragioni e sano realismo, op. cit.
[18] L’approfondimento di questo tema ha attirato l’attenzione di vari interpreti, ancora prima del recente intervento della Corte costituzionale. Fra i vari contributi, si segnalano, A. Pugiotto, Come e perché eccepire l’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo, in Riv. Diritto penale contemporaneo, n. 4/2016; E. Dolcini, La pena detentiva perpetua nell’ordinamento italiano. Appunti e riflessioni, in Riv. Diritto penale contemporaneo, 2018; E. Dolcini, L’ergastolo ostativo non tende alla rieducazione del condannato, in Riv. dir. proc. pen., 2017, p. 1500 ss
[19] In questi termini, la Corte costituzionale si è già espressa nella sentenza n. 149 del 2018, quando nel dichiarare costituzionalmente illegittimo per violazione degli articoli 3 e 27 comma terzo Cost., l’art. 58quater comma quarto, della Legge n. 354 del 1975, sottolinea che «la finalità di prevenzione generale alla base della disposizione censurata non può operare nella fase di esecuzione della pena, operare in chiave distonica rispetto all’imperativo costituzionale della funzione rieducativa della pena medesima, da intendersi come fondamentale orientamento di essa all’obiettivo ultimo del reinserimento del condannato nella società».
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